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Convivio - Dante Alighieri


lunedì 01 dicembre 2003 legge Chiara Dini
Tutto comincia dal “desiderio di sapere”. Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. Dante, negli stessi anni in cui comincia la Commedia, ha perfetta fiducia che si possa costruire un’”enciclopedia del sapere”, basata su verità filosofiche e scientifiche capitali, e soprattutto che questo “pane orzato” possa essere distribuito a molti, non più riservato a pochi. Ma per questo rimprovera duramente i “pigri”, che si accontentano della propria ignoranza “maliziosa”.
Nel Convivio Dante mette a punto questo progetto grandioso, che vuole partecipato, approfondito, salvifico. Per parteciparvi occorre mettere in luce un nuovo senso della “nobilitade”, che dipende dal valore della ricerca individuale; prendere atto delle enormi possibilità fornite dal nuovo “medium”, la lingua finalmente italiana; occorre impadronirsi di tutti quegli strumenti che danno dignità e libertà all’uomo. E allora indica anche i nemici di tale progetto di diffusione culturale, “li abominevoli cattivi d’Italia”, che non capiscono i grandi valori della cultura, e che la disprezzano, e la conculcano.


Convivio I, 1; I, 11; IV, 7

Dante Alighieri

Trattato I, cap. I
1. Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. 
2 Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all'uomo e di fuori da esso lui rimovono dall'abito di scienza. Dentro dall'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno dalla parte del corpo, l'altro dalla parte dell'anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Dalla parte dell'anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. 
3 Di fuori dall'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una delle quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. 
4 Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l'una più, sono degne di biasimo e d'abominazione. 
5 Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo! 
6 Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito della pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolemente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata. Ed ha questo convivio di quello pane degno, co[n] tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. 
7 E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore de' vizii, perché lo stomaco suo è pieno d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s'assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire. 
8 La vivanda di questo convivio saràe di quattordici maniere ordinata, cioè [di] quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente. 
9 E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolemente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all'entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. 
10 E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. 
11 Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene alla sua grida, che non al mio volere ma alla mia facultade imputino ogni difetto: però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.

Trattato I, cap. XI

1 A perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d'Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro propio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d'invidia; la quinta e l'ultima, viltà d'animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta che pochi sono quelli che siano da esse liberi. 
2 Della prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva dell'anima ha suoi occhi, colli quali aprende la differenza delle cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, collo quale aprende la differenza delle cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questo è la discrezione. E sì come colui che è cieco delli occhi sensibili va sempre secondo che li altri [....... così colui che è cieco dell'occhio della discrezione va sempre secondo che li altri] giudicando lo male e lo bene; [e sì come quelli che è cieco del lume sensibile..........], così quelli che è cieco del lume della discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde, qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch'a lui s'appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che «'l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambindue nella fossa». Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare per le ragioni che di sotto si ragioneranno apresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, colla mano in sulla spalla a questi mentitori, sono caduti nella fossa della falsa oppinione, della quale uscire non sanno. Dell'abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio della loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l'animo loro a quello per [la] forza della necessitate, che ad altro non intendono. E però che l'abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s'acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l'altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. Per che incontra che molte volte gridano ‘Viva! [Viva!]’ la loro morte, e ‘Muoia! Muoia!’ la loro vita, pur che alcuno cominci; e questo è pericolosissimo difetto nella loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l'altre l'anderebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d'una strada salta, tutte l'altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che 'l pastore, piangendo e gridando, colle braccia e col petto dinanzi [a esse] si parava. 
3 La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che d'essere, e per fuggire lo contrario, cioè di non essere tenuti, sempre dànno colpa alla materia dell'arte apparecchiata, o vero allo strumento: sì come lo mal fabro biasima lo ferro apresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro ed alla cetera, e levarla a sé. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l'uomo li tegna dicitori; e per iscusarsi dal non dire o dal dire male acusano ed incolpano la materia, cioè lo volgare propio, e commendano l'altrui, lo quale non è loro richesto di fabricare. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, sé credono scusare. Contra questi cotali grida Tulio nel principio d'un suo libro che si chiama Libro di Fine de' Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca, per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Proenza. 
4 La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle della sua. E sanza dubio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre la verità, per farsi glorioso di tale acquisto. 
5 La quarta si fa da uno argomento d'invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d'una lingua è la paritade del volgare; e perché l'uno quello non sa usare come l'altro, nasce invidia. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non sapere dire, ma biasima quello che è materia della sua opera, per tòrre, dispregiando l'opera da quella parte, a lui che dice onore e fama: sì come colui che biasimasse lo ferro d'una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l'opera del maestro. 
6 La quinta e ultima setta si muove da viltà d'animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo per contrario sempre si tiene meno che non è. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa, per comparazione alla quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, aviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura che l'uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, aviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l'altrui men buone; lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai. Onde molti per questa viltade dispregiano lo propio volgare, e l'altrui pregiano. 
7 E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare: lo quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto ello suona nella bocca meretrice di questi adulteri; allo cui condutto vanno li ciechi delli quali nella prima cagione feci menzione.

Trattato IV, cap. VII

[...] Dico dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza altro respetto, sanza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice: Ed è tanto durata la così falsa oppinïon tra nui, che l'uom chiama colui omo gentil, che può dicere: ‘Io fui nepote’ o ‘figlio di cotal valente’, benché sia da niente. Per che è da notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala oppinione prendere piede: ché così come l'erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta e cuopre la spiga del frumento sì che, disparte aguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo frutto finalmente, così la mala oppinione nella mente, non gastigata e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe della ragione, cioè la vera oppinione, si nasconde e quasi sepulta si perde. Oh come è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai così trifoglioso campo sarchiare, come quello della comune sentenza, sì lungamente da questa cultura abandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe della ragione non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne' quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora; ché delli altri tanto è da curare quanto di bruti animali: però che non minore maraviglia mi sembra reducere a ragione [quelli in cui è ragione] del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì è stato nel sepulcro. 
3 Poi che la mala condizione di questa populare oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile quella percuoto, fuori di tutto l'ordine della riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver guata, a dare ad intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato.
4 Dove, [a] ciò mostrare, fare mi conviene una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti fuori delli suoi stretti sentieri. Nevato è sì che tutto cuopre la neve, e rende una figura in ogni parte, sì che d'alcuno sentiero vestigio non si vede. Viene alcuno dall'una parte della campagna e vuole andare a una magione che è dall'altra parte; e per sua industria, cioè per acorgimento e per bontade d'ingegno, solo da sé guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigie delli suoi passi diretro da sé. Viene un altro apresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e per suo difetto lo cammino, che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo, scorto, erra, e tortisce per li pruni e per le ruvine, e alla parte dove dee non va. Quale di costoro si dee dicere valente? Rispondo: quelli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perché non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perché non valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore [e] lo suo difetto non può salire, e però è da dire non vile ma vilissimo. 
5 E così quelli che dal padre o d'alcuno suo maggiore [buono è disceso ed è malvagio], non solamente è vile, ma vilissimo e degno d'ogni despetto e vituperio più che altro villano. E perché l'uomo da questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che 'l valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo delli Proverbi: «Non trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi»; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: «La via de' giusti», cioè de' valenti, «quasi luce splendiente procede, e quella delli malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano». 
6 Ultimamente quando si dice: e tocca a tal, ch'è morto e va per terra, a maggiore detrimento dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e massimamente quelli che dalla via del buono suo antecessore si parte. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo dell'Anima, «vivere è l'essere delli viventi»; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come nelle piante vegetare, nelli animali vegetare e sentire e muovere, nelli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare o vero intelligere), e le cose si deono denominare dalla più nobile parte, manifesto è che vivere nelli animali è sentire - animali, dico, bruti -, vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque, se vivere è l'essere [delli viventi, e vivere nell'uomo è ragione usare, ragione usare è l'essere] dell'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte dall'uso del ragionare chi non ragiona lo fine della sua vita? e non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona lo cammino che far dee? Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente in colui che ha le vestigie inanzi, e non le mira. E però dice Salomone nel quinto capitolo delli Proverbi: «Quelli morirà che non ebbe disciplina, e nella moltitudine della sua stoltezza sarà ingannato». Ciò è a dire: colui è morto che non si fé discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello.
7 Potrebbe alcuno dicere: Come? è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia. Ché, sì come dice lo Filosofo nel secondo dell'Anima, le potenze dell'anima stanno sopra sé come la figura dello quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza dell'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. 


Convivio a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze, Casa editrice Le lettere, 1995