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Festa dell'Unità Carla Christiany e Mimmo Cangiano leggono Pavese



Introduce Mimmo Cangiano e Carla Christiany   
venerdì 12 settembre 2008
La Bottega dell’Elefante comincia il suo ottavo anno di letture con un omaggio a Cesare Pavese, nel primo centenario della nascita, e a quasi sessant’anni dalla pubblicazione de La luna e i falò. Leggeranno e commenteranno le pagine dell’ultimo romanzo di Pavese Mimmo Cangiano, dottorando in Italianistica che da tempo si occupa di letteratura del novecento, e Carla Christiany, per la quale questo romanzo è stata una porta d’ingresso nella letteratura italiana. Un doppia prospettiva, come è nostra tradizione.
Non si tratta di una scelta obbligata: Pavese e il suo realismo mitico o simbolico costituiscono infatti un’ottima occasione per cominciare a parlare del rapporto tra letteratura e realtà, uno dei fili conduttori di questa nostra stagione, che culminerà a dicembre in un grande convegno sui «libri di realtà» del nostro contemporaneo. Com’è cambiato il rapporto tra scrittori e realtà? È ancora mediabile – e in che modo? – da quello speciale mezzo che è la scrittura?  Per il momento, lo indaghiamo attraverso Cesare Pavese. 

Cesare Pavese, La luna e i falò, in Id., Romanzi, vol. II, Torino, Einaudi, 1961, pp. 393-399, 459-461
III
Di Nuto musicante avevo avuto notizie fresche addirittura in America – quanti anni fa? – quando ancora non pensavo a tornare, quando avevo mollato la squadra ferrovieri e di stazione in stazione ero arrivato in California e vedendo quelle lunghe colline sotto il sole avevo detto: “Sono a casa”. Anche l’America finiva nel mare, e stavolta era inutile imbarcarmi ancora, così m’ero fermato tra i pini e le vigne. “A vedermi la zappa in mano, - dicevo, - quelli di casa riderebbero”. Ma non si zappa in California. Sembra di fare i giardinieri, piuttosto. Ci trovai dei piemontesi e mi seccai: non valeva la pena aver traversato tanto mondo, per vedere della gente come me, che per giunta mi guardava di traverso. Piantai le campagne e feci il lattaio a Oakland. La sera, traverso il mare della baia, si vedevano i lampioni di San Francisco. Ci andai, feci un mese di fame e, quando uscii di prigione, ero al punto che invidiavo i cinesi. Adesso mi chiedevo se valeva la pena di traversare il mondo per vedere chiunque. Ritornai sulle colline.
Ci vivevo da un pezzo e m’ero fatto una ragazza che non mi piaceva più da quando lavorava con me nel locale sulla strada del Cerrito. A forza di venire a prendermi sull’uscio, s’era fatta assumere come cassiera, e adesso tutto il giorno mi guardava attraverso il banco, mentre friggevo il lardo e riempivo bicchieri. La sera uscivo fuori e lei mi raggiungeva correndo sull’asfalto coi tacchetti, mi prendeva a braccio e voleva che fermassimo una macchina per scendere al mare, per andare al cinema. Appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l’erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle. Non voleva saperne. Strillava come fanno le donne, chiedeva di entrare in un altro locale. Per lasciarsi toccare – avevamo una stanza in un vicolo di Oakland – voleva essere sbronza.
Fu una di quelle notti che sentii raccontare di Nuto. Da un uomo che veniva da Bubbio. Lo capii dalla statura e dal passo, prima ancora che aprisse bocca. Portava un camion di legname e, mentre fuori gli facevano il pieno della benzina, lui mi chiese una birra.
- Sarebbe meglio una bottiglia, - dissi in dialetto, a labbra strette.
Gli risero gli occhi e mi guardò. Parlammo tutta la sera, fin che da fuori non sfiatarono il clacson. Nora, dalla cassa, tendeva l’orecchio, si agitava, ma Nora non era mai stata nell’Alessandrino e non capiva. Versai perfino al mio amico una tazza di whisky proibito. Mi raccontò che lui a casa aveva fatto il conducente, i paesi dove aveva girato, perché era venuto in America. – Ma se sapevo che si beve questa roba… Mica da dire, riscalda, ma un vino da pasto non c’è…
- Non c’è niente, - gli dissi, - è come la luna.
Nora, irritata, si aggiustava i capelli. Si girò sulla sedia e aprì la radio sui ballabili. Il mio amico strinse le spalle, si chinò e mi disse sul banco facendo cenno all’indietro con la mano: - A te queste donne ti piacciono?
Passai lo straccio sul banco. – Colpa nostra, - dissi. – Questo paese è casa loro.
- Lui stette zitto ascoltando la radio. Io sentivo sotto la musica, uguale, la voce dei rospi. Nora, impettita, gli guardava la schiena con disprezzo.
- ‘E come questa musichetta, - disse lui. – C’è confronto? Non sanno mica suonare…
E mi raccontò della gara di Nizza l’anno prima, quando erano venute le bande di tutti i paesi, da Cortemiglia, da San Marzano, da Canelli, da Neive, e avevano suonato suonato, la gente non si muoveva più, s’era dovuta rimandare la corsa dei cavalli, anche il parroco ascoltava i ballabili, bevevano soltanto per farcela, a mezzanotte suonavano ancora, e aveva vinto il Tiberio, la banda di Neive. Ma c’era stata discussione, fughe, bottiglie in testa, e secondo lui meritava il premio quel Nuto del Salto…
- Nuto? ma lo conosco.
E allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa faceva. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone e avevano suonato senza smettere fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano così bene che dalle case le donne saltavano giù dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo. Nuto, in mezzo, portava tutti col clarino.
Nora gridò che facessi smettere il clacson. Versai un’altra tazza al mio amico e gli chiesi quando tornava a Bubbio.
- Anche domani, - disse lui, - se potessi.
Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto. Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli. Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa. Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura. Le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi. Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?
Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo. Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di esser padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura? Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: “Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere.” Era questo che faceva paura. Neanche tra loro si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lì si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto. E avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. Veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.
Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quelli dei grilli. Mi scappò da ridere, all’idea se avesse saputo quel che pensavo. Ma queste cose non si dicono a nessuno, non serve. Un bel mattino non mi avrebbe più visto, ecco tutto. Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.

IV

Nemmeno per la Madonna d’agosto Nuto ha voluto imboccare il clarino – dice che è come nel fumare, quando si smette bisogna smettere davvero. Di sera veniva all’Angelo e stavamo a prendere il fresco sul poggiolo della mia stanza. Il poggiolo dà sulla piazza e la piazza era un finimondo, ma noi guardavamo di là dai tetti le vigne bianche sotto la luna.
Nuto che di tutto vuol darsi ragione mi parlava di cos’è questo mondo, voleva sapere da me quel che si fa e quel che si dice, ascoltava col mento poggiato sulla ringhiera.
- Se sapevo suonare come te, non andavo in America, - dissi. – Sai com’è a quell’età. Basta vedere una ragazza, prendersi a pugni con uno, tornare a casa sotto il mattino. Uno vuol fare, esser qualcosa, decidersi. Non ti rassegni a far la vita di prima. Andando sembra più facile. Si sentono tanti discorsi. A quell’età una piazza come questa sembra il mondo. Uno crede che il mondo sia così…
Nuto taceva e guardava i tetti.
- … Chi sa quanti dei ragazzi qui sotto, - dissi, - vorrebbero prendere la strada per Canelli…
- Ma non la prendono, - disse Nuto. – Tu invece l’hai presa. Perché?
Si sanno queste cose? Perché alla Mora mi dicevano anguilla? Perché un mattino sul ponte di Canelli avevo visto un’automobile investire quel bue? Perché non sapeva suonare neanche la chitarra?
Dissi: - Alla Mora stavo troppo bene. Credevo che tutto il mondo fosse come la Mora.
- No, - disse Nuto, - qui stanno male ma nessuno va via. ‘E perché c’è un destino. Tu a Genova, in America, va’ a sapere, dovevi far qualcosa, capire qualcosa che ti sarebbe toccato.
- Proprio a me? Ma non c’era bisogno di andare fin là.
- Magari è qualcosa di bello, - disse Nuto, - non hai fatto soldi? Magari non te ne sei neanche accorto. Ma a tutti succede qualcosa.
Parlava a testa bassa, la voce usciva storta contro la ringhiera. Fece scorrere i denti sulla ringhiera. Sembrava che giocasse. A un tratto alzò la testa. – Un giorno o l’altro ti racconto delle cose di qui, - disse. A tutti qualcosa tocca. Vedi dei ragazzi, della gente che non è niente, non fanno nessun male, ma viene il giorno che anche loro…
Sentivo che faceva fatica. Trangugiò la saliva. Da quando ci eravamo rivisti non mi ero ancora abituato a considerarlo diverso da quel Nuto scavezzacollo e tanto in gamba che c’insegnava a tutti quanti e sapeva sempre dir la sua. Mai che mi ricordassi che adesso l’avevo raggiunto e che avevamo la stessa esperienza. Nemmeno mi sembrava cambiato; era soltanto un po’ più spesso, un po’ meno fantastico, quella faccia da gatto era più tranquilla e sorniona. Aspettai che si facesse coraggio e si levasse quel peso. Ho sempre visto che la gente, a lasciarle tempo, vuota il sacco.
Ma Nuto quella sera non vuotò il sacco. Cambiò discorso.
Disse: - Sentili, come saltano e come bestemmiano. Per farli venire a pregar la madonna il parroco bisogna che li lasci sfogare. E loro per potersi sfogare bisogna che accendano i lumi alla madonna. Chi dei due frega l’altro?
- Si fregano a turno, - dissi.
- No, no, - disse Nuto, - la vince il parroco. Chi è che paga l’illuminazione, i mortaretti, il priorato e la musica? E chi se la ride l’indomani della festa? Dannati, si rompono la schiena per quattro palmi di terra, e poi se li fanno mangiare.
- Non dici che la spesa più grossa tocca alle famiglie ambiziose?
- E le famiglie ambiziose dove prendono i soldi? Fan lavorare il servitore, la donnetta, il contadino. E la terra, dove l’han presa? Perché dev’esserci chi ne ha molta e chi niente?
- Cosa sei? comunista?
Nuto mi guardò tra storto e allegro. Lasciò che la banda si sfogasse, poi sbirciandomi sempre borbottò: - Siamo troppo ignoranti in questo paese. Comunista non è chi vuole. C’era uno, lo chiamavano il Ghigna, che si dava del comunista e vendeva i peperoni in piazza. Beveva e poi gridava la notte. Questa gente fa più male che bene. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome. Il Ghigna han fatto presto a fregarlo, più nessuno gli comprava i peperoni. Ha dovuto andar via quest’inverno.
Gli dissi che aveva ragione ma dovevano muoversi nel ’45 quando il ferro era caldo. Allora anche il Ghigna sarebbe stato un aiuto. – Credevo tornando in Italia di trovare qualcosa di fatto. Avevate il coltello dal manico…
- Io non avevo che una pialla e uno scalpello, - disse Nuto.
- Della miseria ne ho vista dappertutto, - dissi. – Ci sono dei paesi dove le mosche stanno meglio dei cristiani. Ma non basta per rivoltarsi. La gente ha bisogno di una spinta. Allora avevate la spinta e la forza… C’eri anche tu sulle colline?
Non gliel’avevo mai chiesto. Sapevo di diversi del paese – giovanotti venuti al mondo quando noi non avevamo vent’anni – che erano morti, su quelle strade, per quei boschi. Sapevo molte cose, gliele avevo chieste, ma non se lui avesse portato il fazzoletto rosso e maneggiato un fucile. Sapevo che quei boschi s’erano riempiti di gente di fuori, renitenti alla leva, scappati di città, teste calde – e Nuto non era di nessuno di questi. Ma Nuto è Nuto e sa meglio di me quel che è giusto.
- No, - disse Nuto, - se ci andavo, mi bruciavano la casa.
Nella riva del Salto Nuto aveva tenuto nascosto dentro una tana un partigiano ferito e gli portava da mangiare di notte. Me lo aveva detto sua mamma. Ci credevo. Era Nuto. Soltanto ieri per strada incontrando due ragazzi che tormentavano una lucertola gli aveva preso la lucertola. Vent’anni passano per tutti.
- Se il sor Matteo ce l’avesse fatto a noi quando andavamo nella riva, - gli avevo detto, - cos’avresti risposto? Quante nidiate hai fatto fuori a quei tempi?
- Sono gesti da ignoranti, - aveva detto. – Facevamo male tutt’e due. Lasciale vivere le bestie. Soffrono già la loro parte in inverno.
- Dico niente. Hai ragione.
- E poi, si comincia così, si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.

XX

Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza o il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L’inverno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall’aratro, ma poi, voltate quelle stoppie, era finita e cadeva la neve. Si passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a girare le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi ricordo l’ultimo lavoro dell’inverno e il primo dopo la merla – quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligacce che accendevamo e che fumavamo nei campi e sapevano già di notte e di veglia, o promettevano per l’indomani il bel tempo.
L’inverno era la stagione di Nuto. Adesso ch’era giovanotto e suonava il clarino, d’estate andava per i bricchi o suonava alla Stazione, soltanto d’inverno era sempre là intorno, a casa sua, alla Mora, nei cortili. Arrivava con quel berretto da ciclista e la maglia grigioverde e raccontava le sue storie. Che avevano inventato una macchina per contare le pere sull’albero, che a Canelli di notte dei ladri venuti da fuori avevano rubato il pisciatoio, che un tale a Colosso prima d’uscire metteva ai figli la museruola perché non mordessero. Sapeva le storie di tutti. Sapeva che a Cassinasco c’era un uomo che, venduta l’uva, stendeva i biglietti da cento su un canniccio e li teneva un’ora al sole la mattina, perché non patissero. Sapeva di un altro, ai Cumini, che aveva un’ernia come una zucca e un bel giorno aveva detto alla moglie di provare a mungerlo anche lui. Sapeva la storia dei due che avevano mangiato il caprone, e poi uno saltava e bramiva e l’altro dava cornate. Raccontava di spose, di matrimoni scombinati, di cascine col morto in cantina.
Dall’autunno a gennaio, bambini si gioca a biglie, e grandi a carte. Nuto sapeva tutti i giochi ma preferiva quello di nascondere e indovinare la carta, di farla uscire dal mazzo da sola, di cavarla dall’orecchio del coniglio. Ma quando entrava al mattino e mi trovava nell’aia al sole, rompeva in due la sigaretta e accendevamo; poi diceva: – E andiamo a vedere sui coppi –. Sui coppi voleva dire nella torretta della piccionaia, una soffitta che ci si saliva per la scala grande, sopra il ripiano dei padroni, e si stava chinati. Lassù c’era una cassa, tante molle rotte, trabiccoli e mucchi di crine. Un finestrino rotondo, che guardava la collina del Salto, mi sembrava la finestra di Gaminella. Nuto rovistava in quella cassa – c’era un carico di libri stracciati, di vecchi fogli color ruggine, quaderni della spesa, quadri rotti. Lui faceva passare quei libri, li sbatteva per levargli la muffa, ma a toccarli per un po’ le mani ghiacciavano. Era roba dei nonni, del padre del sor Matteo che aveva studiato in Alba. Ce n’era di scritti in latino come il libro da messa, di quelli con dei mori e delle bestie, e così avevo conosciuto l’elefante, il leone, la balena. Qualcuno Nuto se l’era preso e portato a casa sotto la maglia, «tanto, – diceva, – non li adopera nessuno». Cosa ne fai? – gli avevo detto, – non comprate già il giornale?
– Sono libri, – disse lui, – leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi i libri.
Passando sul ripiano della scala si sentiva Irene suonare; certe mattine di bel sole era aperta la vetrata, e la voce del piano usciva sul terrazzo in mezzo ai tigli. A me faceva sempre effetto che un mobile così grosso, nero, con una voce che i vetri tremavano, lo suonasse lei sola, con quelle lunghe mani bianche da signorina. Ma suonava e, a detta di Nuto, anche bene. L’aveva studiato in alba da bambina. Chi invece buttava le mani sul piano solo per chiasso e cantava e poi smetteva malamente, era Silvia. Silvia era più giovane di un anno o due, e certe volte faceva ancora le scale di corsa – quell’anno andava in bicicletta e il figlio del capostazione le aveva tenuto il sellino.
Quando sentivo il pianoforte, io a volte mi guardavo le mani, e capivo che tra me e i signori, tra me e le donne, ce ne correva. Ancora adesso che da quasi vent’anni non lavoro più di forza e scrivo il mio nome come non avrei mai creduto, se mi guardo le mani capisco che non sono un signore e che tutti si possono accorgere che ho tenuto la zappa. Ma ho imparato che le donne non ci fan caso neanche loro.
Nuto aveva detto a Irene che suonava come un’artista e che tutto il giorno lui sarebbe stato ad ascoltare. E Irene allora l’aveva chiamato sul terrazzo (anch’io c’ero andato con lui) e a vetrata aperta aveva suonato dei pezzi difficili ma proprio belli, che riempivano la casa e si dovevano sentire fin nella vigna bianca sulla strada. Mi piaceva, accidenti. Nuto ascoltava con le labbra in fuori come avesse imboccato il clarino, e io vedevo per la vetrata i fiori nella stanza, gli specchi, la schiena dritta d’Irene e le braccia che facevano sforzo, la testa bionda sul foglio. E vedevo la collina, le vigne, le rive – capivo che quella musica non era la musica che suonano le bande, parlava d’altro, non era fatta per Gaminella né per le albere di Belbo né per noi. Ma si vedeva anche, in distanza, sul profilo del Salto verso Canelli, la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani secchi. E con la palazzina, coi signori di Canelli, la musica d’Irene ci stava, era fatta per loro.
– No!– gridò a un tratto Nuto, – sbagliato! – Irene s’era già ripresa e ributtata a suonare, ma chinò la testa e guardò lui un attimo, quasi rossa, ridendo. Poi Nuto entrò nella stanza, e le voltava i fogli e discutevano e Irene suonò ancora. Io restai sul terrazzo e guardavo sempre il Nido, e Canelli.
Quelle due figlie del sor Matteo non erano per me, e nemmeno per Nuto. Erano ricche, troppo belle, alte. Loro compagnia erano ufficiali, signori, geometri, giovanotti cresciuti. La sera tra noi, tra l’Emilia, Cirino, la Serafina, c’era sempre qualcuno che sapeva con chi parlava adesso Silvia, a chi andavano le lettere che Irene scriveva, chi le aveva accompagnate la sera prima. E si diceva che la matrigna non volesse sposarle, non voleva che andassero via portandosi le cascine, cercava di far grossa la dote per la sua Santina. – Sì sì, valle a tenere, – diceva il massaro, – due ragazze così.
Io stavo zitto, e certi giorni d’estate, seduto a Belbo, pensavo a Silvia. A Irene, così bionda, non osavo pensare. Ma un giorno che Irene era venuta a far giocare Santina nella sabbia e non c’era nessuno, le vidi correre e fermarsi nell’acqua. Stavo nascosto dietro un sambuco. La Santina gridava mostrando qualcosa sull’altra riva. E allora Irene aveva posato il libro, s’era chinata, tolto le scarpe e le calze, e così bionda, con le gambe bianche, sollevandosi la gonna al ginocchio, era entrata nell’acqua. Traversò adagio, toccando prima col piede. Poi gridando a Santina di non muoversi, aveva raccolto dei fiori gialli. Me li ricordo come fosse ieri.