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I valori democratici - Vinoba Bhave



Introduce Piero P. Giorgi   
lunedì 13 ottobre 2008
Vinoba Bhave (1895-1982) raccoglie il testimone e adatta l'insegnamento del suo maestro Gandhi ai tempi moderni, suggerendo un percorso politico e sociale ispirato a un'altissima spiritualità in direzione della costruzione della società nonviolenta.
La sua denuncia dei mali della falsa democrazia moderna è straordinariamente attuale e può ben servire a orientare il lettore nella giungla della politica italiana e internazionale del terzo millennio. Le soluzioni che indica ai guasti della società contemporanea sono semplici e disarmanti, ma nella loro purezza geniali: semplicità di vita, spirito comunitario, impegno e responsabilità. Sotto la sua guida è possibile diventare cittadini pienamente responsabili e imparare a costruire con atti quotidiani il mondo armonico e solidale che è la sola speranza per un futuro umano dell'umanità. Considerato il discepolo più vicino a Gandhi, Vinoba è forse l'unica persona che avrebbe potuto con tanta autorevolezza trasformarne l'insegnamento per adattarlo ai tempi moderni senza stravolgerne l'essenza. Le letture includono brani dalla traduzione dal testo inglese di Vinoba e brani dagli articoli di commento che seguono il testo.


VINOBA BHAVE, I valori democratici, a cura di F. FIORETTO, Verona, Il Segno dei Gabrielli Editori, 2008, pp. 67-70, 120-123.

La dipendenza dal governo
Dopo tanti anni di Swaraj il popolo si lamenta che il governo non ha fatto questo o quello. Io rispondo loro: «Siete uomini liberi o schiavi? Se siete liberi perché dovreste aspettarvi dal governo che provveda all’educazione, all’igiene del vostro villaggio e a tutto il resto?». L’errore sta nell’idea che la nostra forza derivi dalla forza del governo. La verità è semplicemente il contrario: il governo deriva la propria forza dalla nostra. Le sorgenti del potere non sono a Delhi o a Patna: esse sono nel vostro cuore e nel mio. Questo potere interiore può essere utilizzato a nostro piacimento. La gente mi chiede se io posso risolvere per loro questo o quel problema; io rispondo: «se veramente lo desiderate, potete risolverlo da soli. Chi vi impedisce di trovare un buon marito per vostra figlia? Chi vi impedisce di regalare la vostra ricchezza e la vostra terra nel momento in cui realizzate che dovreste farlo per conseguire il vero benessere di tutti?». Questo è quanto dobbiamo capire.
La mia idea principale è che l’intero mondo dovrebbe liberarsi dal fardello dei governi. Questo non può avvenire finché dipendiamo dal governo per affrontare qualunque tipo di difficoltà. Se c’è una malattia di cui l’intero mondo è ammalato questa malattia può essere chiamata “governo”. Il popolo invoca il governo come se il governo fosse Dio. Siamo in uno stato di schiavitù peggiore di quanto fossimo prima del 1947. A quel tempo la gente non attendeva aiuto dal governo; aveva ben chiaro che qualunque cosa dovesse essere compiuta avrebbe dovuto farsela da sola. Dopo l’indipendenza, invece, le persone hanno iniziato a rivolgersi al governo per avere aiuto. Se tale aspettativa li avesse condotti a lavorare dieci volte tanto l’India avrebbe compiuto un sacco di progresso. Ma le loro menti hanno lavorato esattamente nella direzione opposta: «ora il governo farà tutto ciò che è necessario, e noi non dobbiamo fare assolutamente nulla. Sotto la dominazione inglese» dicono «pioveva acqua; cosa abbiamo guadagnato se anche oggi piove solo acqua? Ora che abbiamo la libertà dovrebbero piovere vestiti e frutta e cereali. Non stiamo meglio oggi»; essi dicono «dovevamo lavorare prima dell’indipendenza e dobbiamo ancora lavorare oggi». La mia risposta a questo è: «siete voi stessi in qualche modo diversi? Prima dell’indipendenza litigavate tra voi; avete smesso di litigare? Mentivate e imbrogliavate allora; avete smesso? Come possono mutare le condizioni intorno finché voi stessi continuate nelle vecchie cattive abitudini?».
Le verità è che oggi non esiste una vera libertà e non la conseguiremo finché proseguiamo con questa «democrazia rappresentativa» e non prendiamo saldamente nelle nostre mani la gestione dei nostri villaggi. Non l’avremo finché non decidiamo di elaborare i nostri piani con i nostri cervelli e li realizziamo mediante la nostra forza. Nessuno si sogna una cosa del genere. Richiede unità. Attualmente la tendenza è esattamente contraria, cioè «noi non faremo nulla e i nostri rappresentanti faranno tutto». Così abbiamo le elezioni, un tot di partiti vengono formati e noi sperperiamo la nostra forza nell’odio reciproco e consegniamo la nostra autorità a quelli di Delhi. Non si tratta solo del fatto che siamo indolenti, che lasciamo tutto il lavoro a Delhi e non facciamo nulla da noi; quel che è molto peggio è che le nostre rivalità di partito creano un tale odio e tale faziosità che diventa per noi impossibile sviluppare una qualunque forza autonoma. Il Congresso e il P.S.P., i comunisti e Jan Sangh, i Bramini e i non Bramini, gli Indu e i Mussulmani, i Vakkalia e i Lingayat, ogni divisione è esacerbata e inasprita. Nel nome dello Swaraj a Delhi abbiamo distrutto il nostro vero Swaraj. Pensateci: ha un senso tutto questo? Se solo fossimo uniti non avrebbe importanza se fossimo pigri, se lasciassimo tutto il lavoro ai nostri delegati. Ma questo sentimento malvagio non si avrebbe mai dovuto lasciar sviluppare. Vera libertà significa libertà del villaggio. Il minimo che potete fare è di proteggere gelosamente la vostra unità. Scegliete il delegato che preferite per Delhi, ma nel villaggio ci deve essere un solo partito: il partito del villaggio. Questo è il modo per diventare forti. Se la comunità del villaggio si frammenta a causa delle elezioni per Delhi, non avrete alcuna forza e alla vostra debolezza conseguirà la debolezza di Delhi.
Tempo fa, il Pandit Nehru stigmatizzò in un discorso i pericoli della troppa dipendenza dal Governo Centrale, dal Governo della Stato, dall’Amministrazione per lo Sviluppo Comunitario, dalla Commissione di Pianificazione e così via; «gli abitanti dei villaggi dovranno reggersi sulle proprie gambe», disse. Che altro si potrebbe aggiungere? Ma i suoi devoti seguaci non sembra leggano i suoi discorsi. C’è una fede cieca nei grandi leader, ma nessuno presta attenzione a quello che dicono. «Abbiamo mandato i nostri uomini a Delhi», dite «ora lasciamo che sbroglino le cose». Che tipo di libertà è questa? Come può esserci libertà quando le persone non si rendono conto delle proprie responsabilità? Sapete molto bene che non avrete un raccolto se state seduti lasciando tutto nelle mani di Dio invece di fare anche voi una parte del lavoro. Sembra che vi aspettiate di più dal governo che da Dio stesso! Dio aiuta quelli che si aiutano e se Dio stesso si aspetta che voi lavoriate perché non dovrebbe fare la stessa cosa il governo? Il più grande limite di un governo democratico è che ci si trova ad affidarsi così grandemente a una manciata di uomini La vita delle persone non è più nelle loro stesse mani. Pochi individui ricevono tutto il potere e gli altri sperano che il governo li protegga. L’opinione pubblica non conta; tutto dipende da quello che l’uomo al timone pensa. Questo stato di cose richiede una riflessione approfondita. Io sono contrario ad ogni governo in quanto tale. Sono convinto che finché ci carichiamo del potere di uno Stato e consideriamo questo potere fonte della nostra sicurezza resteremo gravemente insicuri.

La schiavitù della paura
Noi dobbiamo l’indipendenza in parte alle circostanze, in parte a Gandhiji e in parte, così mi pare, al puro caso. Ceylon e Burma non hanno fatto alcuno sforzo speciale, ma anch’essi l’hanno avuta. Non dobbiamo essere vittime dell’illusione di avere conquistato lo Swaray per mezzo di un particolare coraggio da parte nostra. Certo, abbiamo mostrato un certo grado di prodezza in quei giorni nel tagliarci le gole gli uni con gli altri, in liti tra Indù, Mussulmani, Sikh e così via. Gandhiji disse chiaramente alla fine che il tipo di nonviolenza raggiunta dal popolo non fu la nonviolenza del forte ma semplicemente la nonviolenza del debole. Se fosse stata la nonviolenza del forte cose meravigliose sarebbero potute accadere in India durante quegli anni. Ma non dobbiamo disperarci. Dobbiamo imparare i nostri doveri per il futuro. La gente di ogni villaggio deve imparare a stare sulle proprie gambe e ciascuno deve essere pronto ad offrire ulteriori sacrifici. Ogni individuo deve imparare a mettere l’interesse del villaggio davanti al proprio. Queste qualità, di fiducia in se stessi e sacrificio, devono essere sviluppate dovunque e ciascuno deve sentire la propria forza.
Fino ad oggi una gran parte della forza e dell’intelligenza dei nostri leader è stata usata per sviluppare metodi violenti. L’insieme della scienza è asservito alla violenza. Gli scienziati ricevono ordini di dirigere le proprie ricerche lungo questi binari. La ricerca scientifica non è una caratteristica esclusiva della società capitalista, ma era praticata anche nelle società precapitaliste. Pensate alle invenzioni che sono state realizzate, da arco e freccia alle bombe atomiche e all’idrogeno. Quanto lavoro intellettuale, quali sperimentazioni sono state impiegate nella violenza e quali innumerevoli armi distruttive sono state inventate! In aggiunta, diversi sistemi di pensiero sono stati elaborati per sostenere il principio della violenza. Il capitalismo, il comunismo e vari altri “ismi” sono filosofie elaborate per imporre particolari idee fisse alla società. Da una parte l’uomo ha dedicato la propria creatività alla produzione di armi distruttive; dall’altra ha elaborato filosofie che esaltano i metodi della violenza.
Ogni governo spende molte volte più per le proprie forze armate di quanto spende per le scuole.
Quale nazione del mondo è libera oggi? L’America, l’Inghilterra, l’India o il Pakistan, la Cina o il Giappone, sono nazioni libere? Il segno distintivo di una nazione libera è che essa può pianificare la propria vita indipendentemente, ma quale nazione oggi può fare programmi indipendenti? È palese che sebbene l’America sia tutt’altro che debole in campo militare cionondimeno si sente debole. Essa sente che le sue forze armate sono piccole in confronto a quelle russe e così viene presentata al Congresso una legge per incrementare la spesa militare. L’America, dunque, elabora un programma indipendente? È la Russia che sta elaborando i piani per l’America. Che tipo di libertà è questa? Nemmeno la Russia è indipendente. Essa afferma essere circondata da basi e che dovrà costruire molte nuove armi. La spesa sovietica per gli armamenti è determinata dall’America.
La Russia dice che l’America ha idee pericolose ed essa dunque deve incrementare i propri armamenti. L’America dice esattamente la stessa cosa della Russia. Il governo del Pakistan dice che deve spendere denaro per l’incremento del suo esercito e in armamenti per paura dell’India. Il governo dell’India dice che deve avere un riguardo speciale all’esercito a causa delle tendenze indesiderabili del Pakistan. Dove sta la verità? L’India dovrebbe aver paura del Pakistan, oppure il Pakistan aver paura dell’India? L’immagine nello specchio è la nostra immagine; la spada nella sua mano è la nostra stessa spada. Quando afferriamo la nostra spada per paura di ciò che vediamo, l’immagine nello specchio fa l’identica cosa. Ciò che vediamo davanti a noi non è altro che un riflesso di noi stessi. Se l’India può trovare il coraggio di ridurre il proprio esercito al minimo dimostrerà al mondo la sua forza morale.
Ciò non può essere fatto finché i popoli del mondo saranno gravati dai governi. Governo significa che una manciata di uomini si sente responsabile per la sicurezza di milioni di persone e quei milioni di persone sentono anch’essi che questi uomini sono i loro protettori. Il risultato è che le loro menti non sono mai libere dalla paura e dove la paura regna gli uomini si affidano alla forza, all’esercito. E più essi pongono la propria fiducia nell’esercito, più grande diventa la loro paura.
La gente mi dice: “tu non credi nello Stato e dici che non c’è bisogno di forze armate o di forze di polizia. Ma se ci fosse un’invasione dall’esterno, come potrebbe il Paese difendersi senza di esse?”. Prima di tutto io chiedo perché mai un’altra nazione dovrebbe attaccarci. Se noi abbiamo abbondanza di terra e un’altra nazione ci attacca poiché non ne possiede abbastanza, noi dovremmo desiderare di dare liberamente della terra a quella nazione. È possibile che alcune nazioni desiderino attaccare L’Australia, poiché essa possiede una grande quantità di terra e non permette ad altri di entrarvi. Ma l’India non ha terra in eccesso, perciò nessuno invaderà l’India.
Nemmeno la Russia o l’America attaccheranno l’India. L’unico possibile aggressore sarebbe il Pakistan, il che significa che si tratta di questioni familiari. In linea di principio, a questo mondo si tratta sempre di fratelli che litigano, mai di nemici. Se noi creeremo un esercito più grande, il Pakistan farà lo stesso e ci sarà il rischio di una guerra mondiale. Ma se l’India oggi sarà abbastanza coraggiosa da ridurre le forze armate, la sua forza reale sarà enormemente incrementata e il Pakistan non sprecherà più le proprie risorse per mantenere l’esercito.
Questo passo richiede coraggio, non è adatto a dei codardi. Noi siamo codardi e i codardi non hanno immaginazione. Pensiamo veramente che qualcuno stia per attaccarci? Altre nazioni stanno costruendo ordigni nucleari. Noi non possediamo bombe, perciò pensiamo che dovremmo almeno avere un temperino! Credo che se l’India riducesse il proprio esercito potrebbe divenire la nazione più forte del mondo, e la sua autorità morale sarebbe grandemente accresciuta. Un passo del genere conquisterebbe i cuori del popolo pakistano e darebbe all’India un grande peso nel consiglio delle Nazioni Unite.

F. FIORETTO, Il Linguaggio di Gandhi, in VINOBA, cit., pp. 203-212: 206-211.

Nel discorso pronunciato sul luogo della cremazione, dunque tradizionalmente dell’ascesa al Cielo, del suo Maestro, il Rajghat di Delhi, il 16 Novembre 1951, Vinoba espone i cinque aspetti fondamentali del compito che attende i membri del movimento Sarvodaya: il primo è la costante sorveglianza di se stessi praticata allo scopo di mantenere la purezza di vita.
Il Maestro richiede innanzi tutto ai Sevak un’indagine profonda del proprio cuore per poter esporre, e così guarire, qualunque mancanza di verità vi si trovi: è appena da sottolineare che solo pochissimi illuminati sono privi di questa ombra e, dunque, si tratta di un lavoro che spetta a tutti, ai tempi di Vinoba come oggi.
Egli suggerisce ancora di cercare in se stessi ogni traccia di paura, poiché questa costituisce una fonte di condizionamento della quale chi voglia operare per una rivoluzione sociale vera e profonda deve liberarsi, e lottare a fondo per scacciarla.
Poi dice che dovranno caratterizzare sempre il proprio agire con l’autocontrollo, esercitando una continua disciplina di pensiero, parola e azione.
Infine, richiede loro l’esame dei propri mezzi di sostentamento, perché si accertino di vivere il più possibile del proprio lavoro manuale, sperimentando a fondo, sia come individui che come famiglie o comunità, in questo campo.
In questi punti Vinoba ribadisce evidentemente alcuni degli 11 voti richiesti sia ai membri del Satyagraha Ashram di Gandhi sia a quelli degli Ashram da egli stesso fondati.
Sarà forse una delusione per quanti con leggerezza si appropriano del nome e dell’immagine del Mahatma per le più disparate imprese di “politica del potere”, ma la nonviolenza è fondamentalmente un percorso spirituale di crescita attraverso una pratica di vita che porta alla Verità, cioè a quel che Gandhi chiamava Dio.
Gli effetti benefici della nonviolenza sulla società e nei rapporti tra gli esseri umani, nonché tra questi e gli altri esseri della Natura, possono quasi considerarsi alla stregua di sottoprodotti di questo percorso evolutivo coscienziale.
Vinoba e Gandhi sono invero uomini di religione, profondamente radicati nell’induismo, e tuttavia aperti con il massimo dell’equanimità e del rispetto a tutte le altre religioni.
Le loro radici affondano nella tradizione Vaishnava imperniata sulla Bhagavad Gita, il “Canto del Beato”, nel quale il Signore Krishna impartisce all’umanità, attraverso il discepolo Arjuna, l’insegnamento dello Yoga che porta alla liberazione dal ciclo delle rinascite.
Il traguardo perseguito è dunque la moksha, cioè l’obiettivo finale della vita di ogni Indù; in qualche modo si può assimilarla alla conquista del Regno dei Cieli per i Cristiani.
Nei Discorsi sulla Bhagavad Gita, all’inizio del primo capitolo, Vinoba afferma di aver ricevuto più nutrimento dalla Gita di quanto ne abbia ricevuto il suo corpo dalla madre: dati l’affetto e la considerazione che Vinoba aveva per la genitrice non è un’affermazione da poco.
Per quanto l’insegnamento della Gita venga impartito attraverso l’immagine metaforica di una battaglia, l’ahimsa di Gandhi e Vinoba parte da lì: dall’esortazione all’equanimità rivolta da Krishna ad Arjuna, dall’invito a vedere la stessa anima identica in ogni essere e tutti parte indivisa dell’Uno.
In molti versi della Gita si trova l’invito a rinunciare a ogni scopo egoistico e agire unicamente in ossequio alla Verità, offrendo ogni azione a Dio in modo da raggiungere il perfetto distacco che libera dall’illusione di realtà del mondo materiale e consente di realizzare lo Yoga, cioè l’unione con l’Assoluto.
Ogni azione del ricercatore della moksha deve perciò costituire uno yaina, cioè un’azione compiuta come offerta a Dio: questo è il modo per trascendere l’ego e liberarsi da Maya, l’illusione divina del mondo della manifestazione.
In questa cultura Vinoba è cresciuto e se ne è imbevuto alla perfezione, divenendone un interprete fedele con la sua vita tutta dedicata al servizio di Dio nel prossimo; il testo presentato traduce semplicemente l’insegnamento in cui l’autore si è formato nel campo sociale e politico.
L’analisi estremamente lucida e ancora attuale dei problemi delle società moderne lo porta a ricondurne le cause al modo di pensare errato degli esseri umani che costituiscono tali società, e ad indicarne la via d’uscita in una riforma del loro atteggiamento, al presente molto lontano dalla purezza e dal rigore spirituale richiesti dall’autore agli aspiranti rivoluzionari non violenti.
Cosa distoglie gli esseri umani dall’identificazione con la propria anima, dunque dalla capacità naturale di vivere in modo nonviolento e armonico? L’illusione dell’importanza del mondo materiale, del possesso: il senso, dice Bhagavad Gita, “dell’io e del mio”.
Del resto, anche Gesù durante il suo magistero ha più volte messo in guardia gli esseri umani nei confronti degli attaccamenti materiali e del loro potere soporifero sulla coscienza; nello stesso modo si sono espressi anche tanti altri maestri dell’umanità.
Proprio su questo senso egoico i poteri violenti che dominano oggi il Pianeta prosperano, dividendo e governando gli esseri umani mediante un misto di bastone e carota composto di paura e gratificazioni mondane, di schiavitù e blandizie: in fondo, si è ancora all’imperiale, prima ancora che imperialistico, panem et circenses di latinissima memoria.
Ci vuole coraggio, concede Vinoba, per promuovere una rivoluzione nonviolenta che porti alla società priva di governo, sia pure progressivamente attraverso la fase intermedia della “società ben governata” che di questi tempi, come allora, potrebbe già salutarsi come una benedizione.
Lo stesso Gandhi ha sempre sottolineato la straordinaria dose di coraggio che abbisogna al praticante della nonviolenza, per definizione superiore a quella necessaria a chi agisce secondo violenza..
Del resto è proprio il coraggio l’unico strumento adatto a togliere potere alla violenza, a disarmare i pavidi tiranni cui si sono chiesti finora protezione, sicurezza, prosperità e salute.
Per trovare la forza e il coraggio necessari alla rivoluzione nonviolenta Vinoba indica con chiarezza la duplice strada da percorrere: la via della rinuncia e la via del servizio.
Senza pretendere la generalizzata adesione ad uno stile di vita pressoché monastico, tuttavia raccomandabile a quanti desiderino spendersi profondamente per la realizzazione di una società nonviolenta, va detto che il primo passo per avviare la grande rivoluzione del III millennio è quello del rifiuto del materialismo e del ritorno alla vita semplice: “Un pensiero elevato è incompatibile con una vita materiale complessa, basata sull’alta velocità impostaci dall’adorazione di Mammona” e anche “Se vogliamo essere nonviolenti non dobbiamo desiderare cosa su questa Terra che il più meschino degli esseri umani non possa avere”, ammonisce Gandhi.
Ed è ancora il Mahatma “… arriviamo così all’ideale della rinuncia totale e impariamo ad usare il corpo, fin quando esiste, ai fini del servizio, cosicché il servizio e non il pane diventa il sostegno della nostra vita…Un tale atteggiamento dello spirito ci porta una felicità vera a ricordare quale è la direzione nella quale camminare verso la società ideale tratteggiata da Vinoba.
Solo nella semplicità è possibile trovare un minimo di aiuto nella dura lotta contro l’ego, la cui sconfitta costituisce l’essenza del cammino non violento verso la Verità-Dio: “Nessuno trova la Verità se non possiede un grande senso di umiltà. Se volete ruotare nel grembo dell’oceano della Verità dovete ridurvi a zero.
Ecco dunque che si chiude il cerchio e torniamo alla responsabilità, a quell’atteggiamento interiore consapevole per il quale il cercatore della Verità riconosce la propria partecipazione causale alle circostanze esteriori ed accetta di lavorare su se stesso per modificare l’ambiente nel quale vive: se si annulla l’ego, cioè l’abito cucito dai desideri intorno all’anima, si accede alla dimensione spirituale nella quale ognuno è unito all’altro e dove è possibile vedere le esperienze della vita, anche quelle apparentemente più negative, come opportunità di crescita disseminate sul cammino verso la Meta suprema.
Un’umanità risvegliata, che accettasse di vedere nelle storture del mondo il riflesso dei suoi atteggiamenti sbagliati, così come nei conflitti con i più vicini l’immagine dei propri difetti, e raccogliesse la sfida dell’autopurificazione potrebbe afferrare con facilità il volante della Storia e dare quella decisa sterzata che da troppo tempo si sta aspettando.
Seguire Gandhi, reclamare l’appartenenza al suo lignaggio e a quello immortale dei Maestri, non dei “tecnici”, della nonviolenza, non si può fare prescindendo da questa dimensione.
Vinoba parla con un linguaggio più moderno, anche più universale poiché svincolato dalle circostanze estreme nelle quali il Mahatma dovette svolgere il proprio magistero, ma non cala la vibrazione spirituale dell’insegnamento di un solo semitono, nemmeno quando parla dei più prosaici aspetti della vita di una comunità.
Nell’era della bomba atomica il rischio concreto è che non vi saranno più posteri cui demandare le proverbiali “ardue sentenze”; dunque, la responsabilità di raccogliere il testimone prezioso di questi Maestri e porci all’opera sul cammino verso la Verità, che passa prima di tutto per l’autopurificazione, ricade interamente sulle nostre spalle.