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Essi pensano ad altro - Silvio D'Arzo


lunedì 07 aprile 2003 legge Emanuela Orlandini

Montale ha scritto che Casa d'altri è "il racconto lungo perfetto del Novecento". L'autore è tuttora poco conosciuto. Si tratta di Ezio Comparoni, alias Silvio D'Arzo, nato a Reggio Emilia, 1920, da Rosalinda Comparoni e padre ignoto, e morto appena nel 1952, per una leucemia fulminante.
Ci lascia poche opere compiute, molte carte disperse, i suoi pseudonimi. Ma è proprio attraverso la scrittura che l'autore si mostra, con la sua desolante domanda che riguarda l'umanità tutta - il tentativo di rispondere a ciò che è irriducibile ad ogni ragione umana: la stordente assurdità dell'essere. Tenta un nuovo linguaggio, nel presentimento che qualcosa di comune si agiti nel fondo, sia pure quel senso di provvisorietà che avvolge ogni cosa. Una scrittura del silenzio.
La lettura proposta riguarda in particolare due diversi modi di intendere e dire il silenzio: Essi pensano ad altro, testo dimenticato nonostante l'incredibile modernità e Casa d'altri, noto quasi solo per il giudizio di Montale.
"Niente al mondo è più bello che scrivere. Anche male. Anche in fondo da far ridere alla gente. L'unica cosa che so è forse questa."
Emanuela Orlandini, insieme a Stefano Costanzi, sta curando l'opera omnia di Silvio D'Arzo.



Casa d'altri

«Così, in treno non ci si arriva, lassù...»
«No. E neanche in corriera.»
«...»
«Vi ci vogliono tre ore di mulo. E poi non d’inverno, s’intende. E neanche quando le nevi si sciolgono. Allora, non ce la fareste nemmeno con cinque.»
«Beh... avrà pure un nome.»
«Sì, mi pare di sì. Dev’essere l’unica cosa che
abbia.»

All'improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l'abbaiare di un cane.
Tutti alzammo la testa.
E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.
Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c'eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso. Dentro il cerchio rossastro del moccolo, tutto quel che si poteva vedere erano le nostre sei facce, attaccate una all'altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie nel mezzo, e un pezzo di muro annerito dal fumo e una trave annerita anche più. Tutto il resto era buio.
"Sentito niente, voi donne?" dissi io alzandomi subito in piedi. La più vecchia prese il moccolo in mano e lentamente andò ad aprir la finestra. Per un minuto fummo tutti nel buio.
L'aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e in mezzo all'ombra, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne.
"Sono gli uomini che scendon dai pascoli" mormorò ritornando da noi "e fra dieci minuti son qui."
Era vero, e così respirai. Le parole mi fanno vergogna, ecco il fatto: e i commiati non sono mai stati per me. Specie quelli. Senza parere mi avviai verso l'uscio.
"Allora, così, reverendo" mi disse una venendomi dietro "noi lo laviamo e gli facciamo la barba: e a vestirlo ci penseranno loro stanotte."
"A cucire il lenzuolo manderò domattina la Melide" dissi. "E per le donne che piangono?" "Volevano trecentocinquanta: più mangiare e dormire una notte. Facciamo senza, così. Tanto più che c'è il caso che arrivino anche i nostri parenti da Braino."
"Sì: forse non ne vale pena" dissi io "gente non dovrebbe mancarne domani. Lavorava anche nei maggi, o mi sbaglio?"
"Sì, Giacobbe. E una volta re Carlo di Francia. E poi, dopo cinquant'anni di pastura su a Bobbio, si finisce che ci conoscono tutti."
Vicino al saccone di foglie se ne stava seduta la vedova. Difficilmente si piange quassù: e anche lei rimaneva immobile e fissa come la vecchia del Duomo in città che sta lì ad aspettare il suo soldo. I nipoti erano stati portati in istalla.
"Buona notte" dissi io a bassa voce "domattina alle sette son qui."
Fece segno di sì con la testa. Due o tre donne mi accompagnarono giù.
Adesso cani e campanacci di bronzo si sentivano anche più chiaramente, misti a tratti a un rumore di peste. Dietro un vetro un bambino tossiva e nelle stalle si sentivano calci di mulo e rumore di morsi di ferro. Cominciava a far freddo. Attraversai la piazzetta di pietre e due strade non più larghe di un braccio: così strette, vi dico, che un Falstaff come me deve strisciarci coi gomiti contro.
Dallo stagno mi voltai per guardare giù in basso. Sette case. Sette case addossate e nient'altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi.
Le tre vecchie erano ancora là ferme, proprio dallo scalino di casa, sotto la finestra illuminata ed aperta.
"Ecco tutta Montelice" dissi. "Tutta quanta: e nessuno lo sa." E salii per la strada di monte.

III
Fu una sera. Sul finire d'ottobre.
Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così. Senza nemmeno un pensiero. Era tardi, era freddo, ero ancora per strada: dovevo scendere a casa, ecco tutto.
L'ombra proprio non era ancor scesa: campanacci di pecore e capre si sentivano a tratti qua e là un po' prima della prata dei pascoli. Proprio l'ora, capite, che la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt'ora. Uno scoiattolo attraversò di corsa la strada sgusciandomi quasi fra i piedi.
Solo allora, giù in fondo al canale che scorreva un venti metri di sotto, china a lavar biancheria o stracci vecchi o budella o qualcosa di simile, vidi una donna un po' più vecchia di me. Sulla sessantina, sapete.
In mezzo a tutto quel silenzio e a quel freddo e a quel livido e a quell'immobilità un poco tragica, l'unica cosa viva era lei. Si chinava, e mi pare anche a fatica, affondava gli stracci nell'acqua, li torceva e sbatteva su un sasso: poi li affondava, torceva e sbatteva, e via ancora così. Né lentamente né in fretta, e senza mai alzare la testa.
Mi fermai sopra il ciglio a guardarla. Un sasso scivolò giù, fino in acqua, ma la vecchia nemmeno s'accorse. Solo una volta s'interruppe un momento. Si mise una mano sul fianco, diede un'occhiata alla sua carriola sull'argine e alla capra che frugava tra l'erba: e poi ancora riprese.
"Beh" dissi allora con me "quando ci si mette sul serio, il mondo sa ben essere triste, però. Ha perfino intelligenza per questo: e neanche un uomo ci arriverebbe mai e mai. Quel che importa però è non accorgersene. E poi gli occhi qualche volta sono fatti anche per chiuderli, no?"
Una scusa da un soldo, so bene. Ma era tardi. Davvero era tardi: si vedevan qua e là due o tre stelle. Continuai la mia strada.
Ma la sera dopo lo stesso. E così l'altra sera e poi l'altra. Alla medesima ora, eccola là ancora in fondo al canale.
Niente sole, niente luna, non un'anima viva all'intorno: quegli stessi campanacci di bronzo un po' prima della prata dei pascoli e la stessa immobilità dappertutto.
Padronissimi di riderci sopra, ma anche i sassi a quell'ora eran tristi, e l'erba, ormai di un color quasi viola, era ancora più triste. E lei sempre laggiù, china sopra i lastroni di pietra. Affondava nell'acqua gli stracci, li torceva, sbatteva e via ancora. E senza fretta o lentezza: e senza mai alzare la testa.
Una cosa facile a dirsi, ma dovevate vederla.
"No" dissi fissandola bene. "Non credo di conoscerla, quella: la vecchia non è certo di qui; senza dubbio è un uccello sbrancato. Sempre meglio, a ogni modo, che sia lei a venire da me. Prima o poi vengon tutte, da me. E che cosa potrei dirle, oltre a tutto?"
Perché ormai io ero un prete da sagre: ero un prete da sagre e nient'altro: su questo non c'era più dubbio. Per un matrimonio alla buona e dottrina ai ragazzi e metter d'accordo anche sette caprai per un fazzoletto di pascolo non ero poi peggio di un altro: e così se un marito cominciava a usare un po' troppo la cinghia. Ecco solo il mio pane oramai: altra roba non era per me.
Bene. Per cinque sere io la vidi là in basso.
Mai messo un rospo in fondo a una tana, anni fa? I ragazzi lo fanno da noi. Ogni sera lo vanno a vedere, e ogni sera trovandolo lì, sempre fermo in quel punto preciso, sono contenti e scontenti, e non sanno nemmeno il perché. Così anche per me in certo senso. A neanche due passi dall'argine mi auguravo di non trovarcela più: ma una sera che lei cambiò posto e sul momento non riuscivo a vederla, fui lì lì per gridarle qualcosa.
E poi adesso mi sarebbe piaciuto poter farle anche un po' male. Appena appena così, si capisce. Naturalmente non riuscivo a spiegarmelo; solo capivo benissimo che non c'era neanche un grammo di senso e che venivo per giunta in questo modo a far male anche a me. Siamo una cosa buffa però; il dente batte, ci spezza la testa, e noi sempre lì con la lingua a far di tutto perché non s'addormenti.
"Qualche volta" dicevo "gli occhi son fatti anche per chiuderli. Chiudili e volta la testa anche tu. Non c'è miglior regola a volte."
Il fatto è che era ormai troppo tardi: e una regola non è che una regola.

IV
[...] Passarono ancora otto giorni: e poi dieci. L'autunno era già in agonia. Di notte le siepi brinavano e la luna s'era fatta più fredda del sasso, e così ferma, rotonda e precisa come può essere solo a Natale: le due nubi che l'eran d'attorno parevano aria appannata. Di giorno era meglio, d'accordo, e fino alle tre c'era il sole: ma né un ramarro né un rospo non v'era più dato incontrarlo: una biscia acquaiola ancor meno: se n'erano andate da un pezzo e bisognava aspettare fino a marzo. E questo era già un brutto segno. Alle sei scendevate in istrada e non sentivate altro che odor di polenta e castagne bollite nell'acqua. I campanacci di bronzo arrivavano allora lì al borgo da un miglio, due miglia e anche più. E questo era già anche un po' peggio.
La vecchia non si fece vedere.
"Prima o poi vengono tutti, da me. Qui non siamo né a valle o in città" mi dicevo. "Tanto più che l'inverno è alle porte. Finiscono col venir tutti, io lo so, prima o poi. Non c'è che da star qui ad aspettare. Dovrà uscir dalla tana anche lei."
Adesso poi, fra parentesi, avevo preso a chiamarla la vecchia,
quella vecchia dalla capra e gli stecchi, oppure anche la matta, e altri nomi perfino più stupidi. Per esempio, tuonava, pioveva, dalle
gronde rotte l'acqua cadeva a gomitoli: e io dicevo soltanto: "Beh, non dovrà essere troppo allegro per quella." Mai fatto con gli altri così. E anche questo era già un brutto sintomo.
E invece no. Passò anche l'autunno. Le siepi adesso eran solo grovigli di spini: gli uomini stavan già per finire le trappole da portare su a monte nei boschi; e la vecchia non uscì dalla tana.
Feci quello che non avevo mai fatto. Mi decisi a informarmi di lei. Regalai due pelli di coniglio a un ragazzo che su per giù mi faceva da chierico e lo feci andare dal bosco ai calanchi. Il ragazzo se ne andò in giro due giorni qua e là, perché in realtà era un bravo ragazzo, pieno di idee e d'espedienti e per quassù anche quasi educato: salì alle torbe, e ai calanchi, ed ai pascoli e non riuscì a trovar più di tanto. Gliene diedi una terza: e lui si spinse ai confini di Bobbio: e quel che c'era da sapere lo seppi.
Viveva sola, al di là del sentiero degli olmi, proprio ai margini della parrocchia, e dopo non ci sono che forre torbiere e anche peggio, se pur peggio è possibile: c'era venuta a stare da poco, e senza dir niente a nessuno, venendo su dalle parti di Bobbio dove quattro anni prima i tedeschi avevano bruciato anche i sassi: si chiamava Zelinda Icci fu Primo: aveva compiuto i sessantatré l'otto agosto, e adesso lavava stracci e budella dalla mattina alla sera laggiù dal canale per qualcuno o qualcosa di un paese di valle dove c'era già qualche industria.
Ogni sera, al cader delle ombre, se ne veniva su per la strada di monte coi suoi stracci e la sua carriola e la capra (vinta, pare, a una lotteria di parrocchia): lungo le siepi si chinava a ogni passo a prender su sterpi secchi o anche carta: e davanti al Tabernacolo Jesus si segnava e abbassava la testa. Mai una volta alla processione: mai ai Vespri: mai in chiesa.
Quel che venni a sapere fu questo.
[…]
Il corridoio era più buio di un forno, e a guardare la striscia di luce che usciva dalla fessura dell'uscio mi sentii come uno che è in debito: il creditore è di là ad aspettarlo, e lui intanto non sa come fare, perché il suo lo ha già speso da un pezzo e tutto quel che ha è un po' di rame e in una mano ci sta.
Non m'era mai capitato da secoli, e la cosa mi fece pensare.
Sentii i ragazzi salutarsi in istrada. Un sasso rotolò per la piazza. Una porta e poi un'altra si chiusero. Quello che stava alle torbe continuò la sua strada fischiando.
"E ecco qui la mia vecchia" pensai.
Dopo un poco aprii l'uscio. Era là.

V
Era la prima volta che potevo vederla a due passi, e io mi misi a osservarla ben bene.
Aveva pelle scura e rugosa, e capelli color grigio-passera e vene dure e sporgenti come neanche un uomo le ha. E se una pianta può in qualche modo servire a dar l'idea di un cristiano, bene, un vecchio ulivo di fosso è quel che ci vuole per lei. Aggiungeteci poi due orecchini di rame e un grembiule nero alla vita ed ai piedi qualcosa come i due zoccoli più curiosi del mondo. E aggiungeteci anche una cert'aria di bestia selvatica o di bambino viziato o magari di tutti e due insieme. Eccola qui in due parole. A vederla così, mi pareva che ormai né stanchezza né noia potessero più qualche cosa su lei: si lasciava vivere e basta, ecco tutto.


XII
[...] Adesso, sulla strada di monte, per le siepi e le scarpate d'intorno e i calanchi ed i pascoli era tutto silenzio, e già dormivano gli uccelli e le rane ed ogni altra creatura; e a me venne quasi il sospetto che le nostre parole potessero arrivar fin laggiù, in fondo a valle, dove ci sono i paesi grossi e la luce elettrica e tutto e la gente non va mai a letto prima dell'ora di notte. E allora, così, pensai che le storie delle frasche d'ortica e di noi due che andavamo a cercarle come si fa con i funghi faceva sul serio un po' ridere, e a tutte quelle belle ragioni che avrei invece saputo trovare trenta anni prima e un po' più quando leggevo ogni sera e discutevo di questo e di quello e avevo inoltre una vita davanti. E poi pensai anche a quel che doveva essere lei, su per giù a quell'età, quando se ne tornava a casa di sera dalla festa da ballo, coi giovani che venivano a farle la musica dietro il fico dell'orto: e magari lei spiava dai vetri e pensava a chissà quante cose, ma mai e poi mai che una notte si sarebbe trovata qui sul gradino di casa a parlare con un vecchio don di montagna. No, la vita non era stata certo di manica larga con questi due galantuomini. Ma a ciascuno il suo e così sia.
"Così, io non vi capirò; forse è vero" insistei perché il ferro era caldo. "Però anche Olivieri diceva così, e alle volte anche peggio. Una volta si sfilò la sua cinghia e la distese sul tavolo, proprio sotto i miei occhi, perché nuora intendesse. Questo, per dirvi che tipo era l'amico. Poi ci siamo capiti. Abbiamo finito col capirci, vi dico. E così col vedovo Sante quando vennero a dirmi che s'era messo a guardare un po' troppo la figlia: e così con uomini e donne che non saprei più neanche contare."
"Ma per me è diverso" disse lei come a sé. "Per me è tutto diverso.
Non c'è nemmeno un confronto, con me."
"Tutti siamo diversi, ecco il fatto" ribattei con la maggior sicurezza del mondo. E non aggiunsi parola. La mia vecchia cominciava sul serio a commuoversi. Buon segno. E ormai non c'era di meglio per me che aspettare e tacere e guardarmi le scarpe.
"Tutte le mattine alzarsi alle cinque e andare giù in fondo valle per pigliare gli stracci" cominciò lei dopo un po' "e fermarsi a mezzogiorno un momento a mangiare olio e pane sopra l'erba di un fosso: e poi venire su fino a monte a pigliar la carriola e andarsene al canale a lavare. Fino alle sei, fino alle sette, e il lunedì fino alle nove di sera. E poi dopo caricare la carriola e tornare su a casa, appena in tempo per mangiare ancora olio e pane e anche un po' di radicchi, e poi andare a dormire."
Respirò un po' a fatica. Era chiaro che ormai doveva provare una gran pena di sé.
"E il giorno dopo fare lo stesso, e anche l'altro giorno, e tutti i giorni del mondo. Perché io questo lo so: questo lo so, lo so bene: tutti i giorni del mondo. E su questo neanche voi potete dire di no."
S'interruppe per respirare di nuovo, perché mai aveva parlato tanto così in vita sua, c'era da giurarci sicuri: e io guardavo e guardavo e non dicevo parola.
"Io ho una capra che porto sempre con me: e la mia vita è quella che fa lei, tale e quale. Viene in fondo alla valle, torna su a mezzogiorno, si ferma davanti al fosso con me, e poi la porto al canale, e quando vado a dormire va a dormire anche lei. E anche nel mangiare non c'è gran differenza, perché lei mangia dell'erba, e io radicchi e insalata, e la differenza sta solo nel pane. E poi a momenti io non potrò mangiare più neanche quello... Come me... come me. Ecco che cosa faccio io: una vita da capra. Solo che lei… quanto può stare al mondo una capra?"
"Una capra? Quanto vive una capra?" dissi io, preso così alla sprovvista. "Beh, non più di vent'anni."
"Ecco. Vent'anni e nient'altro. Solo che lei finisce più presto; senza nemmeno confronto. Io ne ho sessantatré quest'inverno."
Erano amare parole: e mi parve che qualcosa dovessi ben dirlo a ogni modo. E mi alzai e mi avvicinai di due passi, perché è chiaro che non potevo parlare stando sopra il gradino di casa come il tale che è lì a prendersi il fresco ed in bocca ha magari la pipa.
"Era questo, Zelinda, che avevate messo nella lettera voi? "
"No" disse lei: e la cosa mi stupì la sua parte. "No. Questo chiunque lo sa: chiunque passa lo vede, e neanche c'è bisogno di dirlo."
Oltre a tutto cominciavo a deluderla. Giusto.
"Non era questo che avete scritto? E cos'era? Ormai che mi avete dato il dito, Zelinda, datemi anche la mano, che io son qui per allungarvi la mia."
"No, no" disse lei un po' indecisa. "Voi non potete capire. Per me tutto è diverso. Io sono stata tra le Serve di Maria, sono andata fino a Loreto in pellegrinaggio, e tutto a piedi fin là: ho fatto quel che Dio dice di fare, e nessuno può dir niente di me. Di grosso non ho mai fatto niente."
"Si capisce" cercai di inserirmi, senza per questo doverla interrompere "è più chiaro dell'oro, Zelinda."
"E io pensavo che adesso un piacere Dio potrebbe anche farmelo, perché io non gli ho mai chiesto niente. Non l'ho mai disturbato tanto così in sessantatré anni a momenti. E non l'ho mai avuta con lui; mai una volta. Nemmeno quando il calcio del mulo mi buttò sopra il mucchio di sassi, e quando i ragazzi per scherzo mi nascosero metà degli stracci e io dovevo pagarli in giornata. Ma sul momento io non sapevo che fosse uno scherzo. Un piacere potrebbe anche farmelo, ecco."
E si fermò un'altra volta, perché ormai era proprio commossa: e io continuavo a guardarla e non dicevo parola.
[…]
"Allora volete sapere quello che c'era scritto?" mi chiese.
Mi limitai a far di sì con la testa.
"Va bene" decise. "E io ve lo dico anche. Ma allora voi vi voltate da un'altra parte e non mi state a guardare più in faccia."
Ed io feci anche questo. V'assicuro che mi voltai verso il muro, come quando qualcuno si sveste. E neppure un secondo pensai che vedendoci un tale avrebbe potuto anche riderci sopra.
Affar suo ad ogni modo.

XIII
"Nella lettera c'era scritto che io non volevo fare offesa a Dio in nessun modo né lamentarmi per niente di lui: a questo non ci avevo pensato mai e mai, si capisce, e neanche c'è bisogno di dirlo. E c'era scritto anche che io capivo benissimo quello che dite voi preti, perché guai se non fosse così e il mondo chissà dove andrebbe. Questo io lo capivo. Ma siccome il mio era un caso speciale… No, no. Non state a voltare la faccia. Me l'avete promesso... Siccome il mio era proprio un caso speciale, tutto diverso dagli altri, e so che sarà sempre così, e ogni giorno che passa anche peggio (perché questo lo so, questo io proprio lo so, è la sola cosa che io so proprio bene...) Non voltate la faccia. Guardate sempre di là per piacere... Allora, senza fare dispetto a nessuno, io chiedevo… No, ma io me l'immagino già quel che voi rispondete."
"Senza fare dispetto a nessuno…"
"Ecco, nella lettera c'era scritto se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po' prima."
Mi voltai senza aver ben capito.
"Anche uccidersi... sì" spiegò lei con una tranquillità da bambina.
E si mise a guardarsi gli zoccoli.
Tutto questo mi prese così all'improvviso che sul momento non mi venne parola. Non riuscivo a trovarne. Nessuna. Ma poi no, non fu neanche così: alla bocca mi salirono parole e parole e raccomandazioni e consigli e "per carità" e "cosa dite" e prediche e pagine intere e tutto quel che volete. Tutte cose d'altri, però: cose antiche: e per di più dette mille e una volta. Di mio
non una mezza parola: e lì invece ci voleva qualcosa di nuovo e di mio, e tutto il resto era meno che niente.
"Ecco" disse lei dopo un po'. "Lo sapevo che avreste fatto così."
E la cosa più brutta era che lei stette ancora in attesa di qualcosa come un minuto e anche più. Stava lì e continuava a sperare.
"Lo sapevo che avreste fatto così" ripeté con voce appena diversa.
"Io l'ho sempre saputo. Fin dal primo momento l'ho detto."
"Zelinda..." cominciai io, ma così goffamente da provare vergogna
di me e di tutte le parole del mondo.
"Perché allora l'avete voluto sapere?" disse lei con un po' di rimprovero. "Voi l'avete voluto sapere, e adesso, ecco, ve ne state così."
E si mosse e sparì dentro casa. E io rimasi, lì sulla strada, davanti a quell'usciolo da ridere. Un uscio, vi dico, nemmeno grande così, tanto che lei per entrare dovette perfino chinarsi. Ora, io so bene e sapete anche voi che cos'è una stanza qui da noi, su in montagna: due metri di terra e di sassi, un saccone di foglie di granturco e un catino e un fornello e da un lato la capra: e tutto quel che c'è di più è regalato. A centinaia ne ho viste e per anni, e in ognuna saprei trovare anche al buio candele e fiammiferi senza neanche urtare col piede la gatta distesa a dormire: e non c'era una sola ragione perché quella della vecchia dovesse esser diversa da tutte. Bene: per certe cose io non credo di essere più stupido di un altro: e so che due metri saran sempre due metri da qualunque parte si guardi, e neanche il Santo Uffizio potrebbe cambiarla.
Ma quando vidi la schiena di lei scomparire nell'ombra e l'uscio si rinchiuse su me, mi sembrò proprio che quella sua tana arrivasse oltre i monti e più in là. E l'uscio certo era un uscio da riderci, senza neanche serratura o paletto, ma in quel momento ero pronto a giurare che buttar giù la porta del Vescovado in città doveva esser tre volte più facile.
Vengono delle idee, certe volte.
Mi guardai un po' d'intorno. Stava per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila e la Melide li cuce dentro il lenzuolo e io li porto al cimitero di monte, e i bambini che per l'intera stagione se ne stanno dentro le stalle a scaldarsi col fiato dei muli... Un inverno di cinque o sei mesi. E lei cosa avrebbe fatto, la vecchia?
Nelle ossa sentivo l'inverno vicino. Guardai un momento le nuvole che adesso eran più grandi di un prato, e poi mi avviai alla parrocchia. Le nuvole mi venivano dietro. Sempre dietro, come se qualcosa sapessero. Vengono delle idee, certe volte.
Ma che altro potevo fare, mi dite?

XIV
A dicembre da noi i sentieri sono duri dal freddo, e il rumore di un passo si sente quasi da giù, a fondo valle.
Con la testa poggiata alla finestra che dà verso i monti io lo aspettavo da un ora e anche più. Ormai l'aria cominciava a farsi color neve sporca e le case all'intorno erano più livide e fredde del sasso. Per le strade non c'era nessuno. Un bambino dalla gola coperta di stracci schiacciava il naso contro il vetro di casa.
Una ghiaia picchiò contro il vetro. Solo allora mi scossi.
"Le sei vecchie di Bobbio" mi avvisò ansimando il ragazzo dal basso. "Le ho accompagnate giù fin dalla torba. Fra neanche mezz'ora son qui."
Era vero. Guardando verso la torba, proprio in mezzo al sentiero brinato, mi pareva in realtà che ci fosse qualcosa di nero.
Il ragazzo salì. Non che fosse un ragazzo prodigio, o recitasse poesie o roba simile, ma a suo modo qualche cosa doveva pure capire, perché entrando mi diede un'occhiata come si guarda un malato inguaribile. Era proprio a disagio, il ragazzo. E per di più avanzò in punta di piedi.
Non dicemmo parola. Anche i vetri eran color neve sporca. Il bambino dal collo fasciato era ancora là sempre al posto di prima. Da una finestra uscì un filo di fumo.
"Devo andare a vestirmi?" domandò a bassa voce il ragazzo.
"Non ancora" dissi io. "È ancora presto."
Stette un poco in silenzio.
"La Melide l'ha già pettinata e lavata" m'informò con un po' di ritegno.
Io guardavo giù dalla strada, verso la torba di monte. In mezzo a tutto quel bianco e quel freddo avanzava qualcosa di nero.
"Adesso ormai sarà lì che cuce il lenzuolo" continuò dopo un po'.
"È ancora presto" risposi a fatica. "E poi bisogna aspettare le vecchie che piangono. Hanno accettato a trecentocinquanta?"
"Sì. A trecentocinquanta. Più mangiare qualcosa e dormire qui questa notte. Hanno fatto sette chilometri, dicono."
"È giusto."
La stanza era ormai tutta in penombra: e, a due passi da me, il ragazzo era solo una macchia più scura.
"Vado a prendere il lume?" mi chiese.
"Non importa. Lascia perdere" dissi.
Stemmo in silenzio, così, quattro o cinque minuti. Poi mi fece pietà. E oltre a tutto volevo star solo.
"Bene. Credo che adesso sia ora" dissi io con stanchezza. "Prepara cotta, aspersorio, e ogni cosa. E poi vatti a vestire."
Il ragazzo si mosse in punta di piedi. Ma sull'uscio si volse.
"Le sei vecchie di Bobbio m'hanno fatto anche capire che vorrebbero
qualcosa di caldo. Le strade ormai gelano, dicono."
Feci di sì colla testa. Era giusto. Anche questo era giusto. Il ragazzo andò via.Per tre mesi ero andato ogni sera al canale, e ogni sera l'avevo trovata laggiù coi suoi stracci. La sua capra frugava qua e là. Mi fermavo lì, sopra l'argine sempre come per caso e mai più di un minuto, appena il tempo che lei s'accorgesse o mostrasse d'accorgersi. E poi indietro ancora, in parrocchia. Mai una volta in tre mesi che m'abbia fatto il più piccolo segno o abbia alzato anche solo la testa. Lei c'era ancora: ecco tutto; e io dall'argine vedevo che c'era, ed il resto non voleva dir niente. E tutti e due sapevamo benissimo che non ci saremmo parlati mai più, neanche più salutati incontrandoci, ma anche questo era meno di niente.
E adesso era finita. Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito.
Non provavo neppure dolore, però, né rimorso o malinconia o roba simile. Mi sentivo solo dentro un gran vuoto come se ormai non potesse capitarmi più niente. Niente fino alla fine dei secoli.
Me ne giravo su e giù per la stanza dove per la prima volta lei mi aveva così scioccamente parlato, spostavo un libro, lo spostavo di nuovo, o battevo su un vetro così: e adesso anche un ragazzo avrebbe potuto condurmi per mano. Un'assurda vecchia: un assurdo prete: tutta una assurda storia da un soldo.
Giù dal vicolo venne un rumore. Le sei vecchie di Bobbio arrivavano allora. Le siepi erano tutte gelate. Le sei vecchie battevano i piedi dal freddo. Da un'altra casa uscì un filo di fumo.
Il ragazzo salì e bussò all'uscio.
"Reverendo" mi avvertì senza entrare. "Corro a suonar la campana. La Melide ha finito in questo momento."
"Adesso vengo" dissi io.
C'era freddo. Dicembre è freddo da noi.
XV
E adesso eccomi qua.
La vecchia è morta. La Melide è morta. Il ragazzo porta a monte le capre.
Solo una volta ho rivisto il curato di Braino. Lui correva giù a valle, io venivo su per la strada dei pascoli.
"Novità su a Montelice?" mi ha gridato ridendo dal basso.
Ho allargato le braccia.
"NN"
Era troppo ingrassato per dirgliele. Sempre ridendo ha ripreso la corsa. Davvero era proprio ingrassato.
C'è quassù una cert'ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre s'affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri.
Allora mi vien sempre di più da pensare ch'è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d'avere anche il biglietto.
Tutto questo è piuttosto monotono, no?

Essi pensano ad altro
I
Quando egli giunse al numero sette bis di Via Marsala, il cielo d'un color morto e compatto d'alluminio era malinconico come gli sbadigli e l'acqua delle pozzanghere, ed un po' meno dell'asfalto forse su cui i pneumatici delle macchine e dei camions davano uno strano rumore.
"Forse non riuscirò a trovarla" pensò poi. Perché viaggiava per la prima volta e le sue scarpe erano ancora così terribilmente goffe e lucide e quasi inesperte ancora di vie e pietre, da sentirsi vagamente convinto che arrivare a destinazione e trovare casa numero e cortile si potesse solo per un caso o una fortunata combinazione, non per altro.
Intanto si sentiva lontano dalle cose. La gente, passando svelta sotto l'acqua, mostrava un'indifferenza remota, quasi offensiva, e il colore degli impermeabili, più grigi ancora sotto quella pioggia, appariva anche più triste, sconsolante. Le spalle che si indovinavano in una magrezza rassegnata sotto la gomma, facevano provare un lontano ricordo di disagio.
Quando, infine, scoprì la casa fra le altre, c'era già gente per le scale perché stavano imbiancando un appartamento al primo piano.
Dappertutto, per la ringhiera e il corridoio, l'aria ricordava vagamente il latte. Due uomini, in un grembiule gialliccio e aspro di calce, e un cappello di carta da giornale, stavano parlando nella stanza vuota, dove spruzzi bianchi e minuti punteggiavano tutto il pianerottolo, ma sparsi in un certo ordine inspiegabile come agitando un cestello d'insalata. La stanza sembrava quasi chiesastica, immensa, non da uomini, e le voci dei due vi risuonavano ora stranamente: tanto che, anche ad occhi chiusi, bastavano quelle voci soltanto a far capire che all'intorno, lungo le pareti e al centro, non c'erano né armadio né tavoli né cuscini od altro, e che un comò, da solo, lasciato lì da una parte come dimenticato o trascurato, sarebbe sembrato in quel vuoto una strana cosa, e forse inverosimile.
"Forse" diceva uno con un pennello enorme fra le mani "quest'anno non lo potranno più fare, o solo molto più ristretto penso. Magari con quattro o cinque nazioni solamente."
Le parole erano vaste, profonde, quasi concrete, e pigliavano tutta la stanza vuota, la occupavano. Apparivano a tratti anche più vive ed importanti degli uomini stessi che parlavano.
L'altro, dall'alto d'una doppia scala, aspettava intanto il pennello del compagno, venendogli incontro di là con un braccio pallido e ossuto, quasi scarno.
"Difficile che lo facciano suppongo" disse poi vagamente pensieroso e forse incerto, quasi che potesse dipendere da lui in un certo senso, o magari cercasse di convincere una parte indecisa di se stesso. "E poi neanche più ristretto, forse, perché allora nessuno ci si divertirebbe più o le seguirebbe. Bisognerebbe che tutto finisse presto, forse questo; e poi credo sul serio che è impossibile."
"Per Vicini, mi dispiace" spiegò il primo a giustificare quella