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Enea, il victor tristis - Virgilio



lunedì 26 marzo 2007 legge Benedetta Nanni
Il capolavoro virgiliano è arcinoto, e note sono la commovente delicatezza, la straordinaria capacità introspettiva, lo sguardo attento alle donne e agli uomini, al loro dolore, che Virgilio usa nel tratteggiare i suoi personaggi più famosi: Didone fra tutti, ma anche i giovani Eurialo e Niso, e il vecchio Evandro, e Anchise, Creusa, Latino… Il meno amato fra tutti è forse proprio il protagonista, quel pius Enea che non è piaciuto a tanti illustri lettori (ad esempio a Leopardi), per la sua presunta “freddezza”, per la sua incrollabile sottomissione agli ordini divini: un uomo eterodiretto e incapace di una iniziativa autonoma. Ma il testo smentisce questa immagine: leggendo, anche dai passi in cui la figura dell’eroe sembra più odiosa (nel colloquio con Didone, ad esempio), emerge un uomo angosciato, consapevole di essere il portatore di un destino che non avrebbe mai scelto per sé; un uomo lacerato, che persegue una strada che lo conduce all’abbandono di quanto ha di più caro, nella speranza di costruire un bene non per sé ma per gli altri: un vincitore triste, victor tristis, come lo ha acutamente definito Francesco Giancotti.

(Virgilio, Eneide, traduzione di Benedetta Nanni, tranne che per due brani segnalati)

Aen., 1, 180-209: il primo discorso di Enea

Enea nel frattempo sale su uno scoglio, e cerca di guardare dappertutto, sul mare, se mai riuscisse a scorgere qualcuno, Anteo sbattuto dal vento, o le biremi frigie, o Capi, o le insegne di Caico il cima alla poppa. Di navi, non ne vede nessuna; scorge tre cervi che erravano sulla spiaggia: tutto il branco li segue e dietro di loro pascola nelle valli. Lui si ferma e afferra l’arco e le frecce veloci, quelle armi che portava il fido Acate, e per primi stende i capi del branco, che avevano teste orgogliose con corna ramose, e poi sconvolge tutto il gruppo, cacciandolo per i boschi frondosi. E non si ferma prima di aver riversato a terra, vincitore, sette grandi corpi, tanti quanti le navi. Allora torna al porto e li divide fra tutti i compagni. L’eroe distribuisce poi il vino, con cui il buon Aceste aveva riempito le giare, regalandolo a loro che partivano dalla spiaggia di Sicilia, e blandisce i loro animi addolorati con queste parole: “Compagni (nemmeno prima siamo stati ignari di dolori), voi che avete sopportato mali peggiori, un dio porrà fine anche a questi. Siete passati vicino alla rabbia di Scilla e agli scogli mugghianti, avete avuto esperienza della grotta del Ciclope: fatevi forza, allentate la paura che rende tristi; forse un giorno sarà bello perfino ricordare queste prove. Cerchiamo di arrivare finalmente nel Lazio attraverso diversi accidenti, e tanti pericoli: là i fati mostrano un luogo stabile di pace; là è permesso che Troia risorga. Resistete, e conservatevi per quando le cose andranno bene”. Dice così, e pur distrutto dall’angoscia finge una speranza che non sente, e caccia giù il dolore in fondo al cuore.

1, 372-410: Enea e Venere

“O dea, se provassi a raccontare dall’inizio e ci fosse tempo per ascoltare la storia delle nostre disavventure, il Vespro si porterebbe via il giorno, e si chiuderebbe l’Olimpo. Noi veniamo dall’antica Troia (è giunto alle vostre orecchie il nome di Troia?); una tempesta, secondo il suo arbitrio, ci ha spinto sulle coste della Libia, dopo averci trascinati per diversi mari. Sono il pio Enea, e porto con me sul mare i Penati strappati al nemico, e la mia fama arriva alle stelle; cerco l’Italia come patria, e la mia stirpe discende dal sommo Giove. Ho affrontato il mare con venti navi frigie, mentre mia madre, una dea, mi mostrava la via, e ho seguito il volere degli dei. Adesso me ne restano a mala pena sette, squarciate dalle onde e dall’Euro. E qui non mi conosce nessuno, non ho nulla, vago per i deserti di Libia, scacciato dall’Europa e dall’Asia”. E Venere, non sopportando di ascoltarlo lamentarsi ancora, lo interruppe piena di dolore: “Chiunque tu sia, che giungi alla città Tiria, credo che tu respiri i soffi vitali dell’aria benvoluto dagli dei; adesso affrettati, e dirigiti alla soglia della regina. Infatti ti predico che ritroverai i compagni e che ti sarà resa la flotta, approdata al sicuro nonostante il vento del nord infuriasse contrario, a meno che i miei genitori invano mi abbiano insegnato a trarre auspici. Guarda dodici cigni festosi in schiera, che l’uccello di Giove scivolando dalle regioni celesti incalzava nella regione dell’etere: ora in lunga schiera paiono toccar terra o guardarla, dopo essersi posati: come reduci ora giocano con le ali fruscianti, e hanno abbracciato insieme il cielo e hanno levato un canto: non diversamente le tue navi e i tuoi uomini o sono già in porto, o si avvicinano a vele spiegate. Affrettati ora, e dirigiti dove ti conduce il cammino”. Finito di parlare, nel girarsi risplendette il roseo collo, e le chiome spirarono dal capo un divino profumo di ambrosia; la veste si allungò fino ai piedi, e da come si mosse si capì che era veramente una dea. Lui, quando riconobbe che era sua madre, la seguì con queste parole, mentre lei scompariva: “perché ancora e ancora inganni tuo figlio, sei crudele anche tu, con false immagini? Perché non è dato stringerci le mani, e dire e ascoltare parole sincere?”. L’accusa con queste parole, e intanto si avvia verso la città.


II, 346-369: l’ultima notte di Troia

Quando li vidi schierati e brucianti di desiderio di combattere, comincio ad aggiungere queste parole: “giovani, animi pieni di coraggio inutile, se siete sicuri di desiderare seguirmi, mentre oso l’ultima sfida, vedete bene da che parte stia la fortuna: gli dei, sui quali si fondava la nostra forza, se ne sono tutti andati, hanno abbandonato i templi e gli altari. Portate aiuto a una città già distrutta dal fuoco. Moriamo, e precipitiamoci nel mezzo della battaglia. L’unica salvezza per chi è già stato vinto è non sperare nessuna salvezza”. Così si aggiunge la furia al coraggio dei giovani. Poi, come lupi rapaci in mezzo alla nebbia nera, accecati e spinti dalla vergognosa rabbia della fame, attesi dai cuccioli abbandonati con la gola secca, attraverso le frecce, attraverso i nemici andiamo verso morte sicura e attraversiamo la città. La notte nera ci vola intorno con la sua ombra cava. Chi può dire a parole la strage di quella notte, le morti, chi può con le lacrime eguagliare il dolore? Cade una città antica, che ha dominato per molti anni. Nelle strade un tappeto di corpi inerti, sparsi dappertutto, nelle case, e sulle soglie sacre dei templi degli dei. E non solo i teucri pagano col sangue: di tanto in tanto torna la virtù anche nel cuore di vinti, e anche i vincitori, i dani, cadono. Ovunque un lutto feroce, ovunque paura e un’infinita immagine di morte.



II, 735-794: Creusa

Non so quale dio ostile mi portò via il senno, a me confuso e spaventato. Infatti, mentre corro per strade impervie e mi allontano dalle vie conosciute, non so se fu il fato a strapparmi, mia moglie, Creusa, dio mio, o se fu lei a sbagliar strada, a cadere, a sedersi: non l’ho più vista. Non mi girai a vedere che l’avevo perduta e non ci pensai, fino a che giungemmo al luogo consacrato a Cerere: là, dopo che tutti ci fummo radunati, mancava solo lei; e non ce n’eravamo accorti, i suoi compagni, suo figlio, suo marito… Fuori di me, chi non accusai, degli uomini e degli dei? Cosa ho visto di più crudele nella città rovesciata? Affido Ascanio, e Anchise, e i Penati di Troia ai compagni, e li nascondo in un recesso della valle. Io torno in città e mi cingo di armi splendenti. Bisogna riaffrontare tutte le eventualità, e riattraversare tutta Troia, e di nuovo sfidare la morte nei pericoli. Ritorno da capo alle mura, e alla scura soglia della porta dalla quale ero uscito, e seguo le mie orme di prima, e nel buio perlustro ogni angolo. Dappertutto orrore nel cuore, anche il silenzio fa paura. Vado a casa, se per caso, se per caso fosse andata là: i Danai avevano fatto irruzione e occupavano tutto. Il fuoco divorante spinto dal vento si era appiccato alla cima del tetto; le fiamme si innalzano, la vampa infuria fino al cielo. Avanzo ancora, e torno a guardare la casa e la rocca di Priamo: e già nei portici vuoti, ricovero per Giunone, stavano come custodi scelti Fenice e il feroce Ulisse, e badavano la preda. Avevano accumulato qui il tesoro di Troia strappato da ogni parte, dopo aver incendiato i templi: mense degli dei, e crateri di oro massiccio, e le vesti rapinate. Stanno intorno i bambini e le madri impaurite, in lunga fila. Ma io avevo il coraggio di gridare attraverso l’ombra della notte, e riempii di grida le strade, e triste invano ripetendo “Creusa” la chiamavo, ancora e ancora. E mentre la cercavo e mi precipitavo senza fine fra le case della città, mi apparve davanti agli occhi proprio l’ombra spettrale dell’infelice Creusa, un’immagine più grande di quella che conoscevo. Rimasi pietrificato, mi si rizzarono i capelli in testa e la voce si seccò in gola. Allora lei cominciò a parlare così, e a consolarmi con le parole: “dolce marito, a che giova indulgere a questo folle dolore? Queste cose accadono non senza il volere degli dei; non è lecito portare via di qui come compagna Creusa, non lo permette il re del grande Olimpo. Ti aspetta un lungo esilio, dovrai arare la vasta distesa del mare, e giungerai alla terra Esperia, dove il Lidio Tevere scorre con lento corso fra campi ricchi di uomini. Là ti attendono, preparati per te, fortuna, e un regno, e una sposa regale: scaccia le lacrime per l’amata Creusa. Io non vedrò le case superbe di Mirmidoni e Dolopi, non andrò schiava alle madri dei Greci, io, nuora di Dardano e della divina Venere. Ma la gran Madre degli dei mi trattiene in questa terra. Ora addio, e tieni vivo il nostro amore per nostro figlio”. Dopo aver detto queste cose, mi lasciò, mente piangevo e avrei voluto dirle tante cose, e svanì in tenui sbuffi d’aria. Tre volte provai ad abbracciarla; per tre volte l’immagine abbracciata sfuggì fra le mani, come vento leggero, similissima al sonno alato.

IV, 279-294: Enea dopo la visita di Mercurio

Ma Enea ammutolì a quella vista, fuori di sé, e i capelli gli si rizzarono in testa, e la voce si seccò in gola. Lo brucia l’ansia di andare, e lasciare le dolci terre, attonito davanti ad un tale ammonimento e al comando degli dei. Dio, che fare? Adesso, con che parole trovare il coraggio di avvicinare la regina impazzita? Da dove cominciare? Il pensiero veloce è diviso da una parte e dall’altra, si sente strappato in due parti e si agita tutto. Alla fine, mentre fa alterni pensieri, gli pare questa la decisione migliore: chiama Mnesteo, Sergesto e il forte Seresto, che preparino la flotta in silenzio e che radunino i compagni sulla spiaggia, preparino le armi e dissimulino i motivi dei cambiamenti; nel frattempo lui, finché Didone, la migliore delle donne è inconsapevole, e non immagina che un amore così grande possa essere spezzato, cercherà una via, e il momento più dolce per parlare, un modo adatto alle circostanze.

IV, 440-449: la quercia

Il destino si oppone, e un dio chiude le orecchie che restano calme, e come quando i venti del nord sulle Alpi gareggiano per strappare coi soffi, di qua, di là, una quercia forte, col tronco carico d’anni: si levano strida, e le alte fronde si prostrano a terra per lo schianto che va alle radici; ma resta attaccata allo scoglio, e quanto la cima tende al cielo, altrettanto le radici affondano verso l’inferno: non diversamente l’eroe è frastornato qua e là dalle parole insistenti di Anna, e il gran cuore è lacerato dall’angoscia; la mente resta inamovibile, le lacrime scorrono vane.

VI, 440-476: Enea incontra Didone nei Campi del pianto

Non lontano da qui si aprono e si allargano in ogni direzione i Campi del pianto, così li chiamano. Qui sono nascosti da strade segrete e protetti da un selva di mirto quelli che un amore crudele ha divorato e consumato crudelmente; nemmeno nella morte il tromento li lascia. In questi luoghi distingue Fedra, e Procri e la triste Erifile che mostra la ferite del figlio crudele, ed Evadne, e Pasifae; a queste si accompagna Laodamia, e Ceneo, che un tempo fu un giovane, ora una donna, e di nuovo ritornata per fato all’antico aspetto. Tra queste figure vagava, per la foresta immensa, la fenicia Didone, fresca della ferita; e non appena l’eroe troiano le fu vicino e la ravvisò, non ben riconoscibile, fra le ombre, come chi vede sorgere la luna, o crede di averla vista, fra le nubi, all’inizio del mese, scoppiò in lacrime e le parlò dolcemente, con amore: ”infelice Didone, allora era vera la notizia che mi era giunta: che eri morta, e che ti eri uccisa con la spada? Dio, sono stato io la causa della tua morte? Lo giuro per le stelle, per gli dei, e se c’è lealtà nel fondo della terra: sono partito dalla tua terra ma non lo volevo, regina. Ma i comandi degli dei, che ora mi impongono di andare per queste ombre, per terre desolate nel loro abbandono, per la notte profonda, mi spinsero con i loro ordini; non avrei mai creduto che la mia partenza ti avrebbe portato un dolore così grande. Fermati, e lasciati guardare. Chi fuggi? È destino che questa sia l’ultima volta in cui ti parlo”. Con queste parole Enea cercava di lenire l’animo di lei, bruciante mentre lo guardava torva; lui piangeva, lei teneva gli occhi fissi rivolti a terra, e non cambiò espressione alle parole di lui, come se fosse dura selce o una roccia marpesia. Alla fine si strappò di lì, e ostile fuggì di nuovo nel bosco ombroso, dove il primo marito, Sicheo, risponde alle sue angosce e ricambia l’amore. Non di meno Enea, stordito dall’ingiustizia del destino, continua a guardarla da lontano, fra le lacrime, pieno di compassione per lei che se ne va.


X, 433-512: il duello fra Turno e Pallante (trad. Luca Canali, Milano, Mondadori, 2000)

Di qui incalza e preme Pallante, di lì al contrario Lauso; non varia molto l'età: bellissimi d'aspetto; ma la Fortuna aveva loro negato il ritorno in patria. Tuttavia il sovrano del grande Olimpo non permise che essi si affrontassero; presto la morte attende ciascuno di loro sotto un maggiore nemico. Intanto la divina sorella esorta a subentrare a Lauso Turno, che attraversa con il carro volante la schiera. Appena vide i compagni: «È tempo di cessare la battaglia; io solamente assalgo Pallante; a me solamente spetta Pallante; vorrei che vi fosse suo padre ad assistere». Così disse, e i compagni s'allontanarono dallo spazio vietato. Quando i Rutuli si ritrassero, il giovane stupito ai superbi comandi fissa meravigliato Turno e volge gli occhi sul corpo immane, e squadra tutto da lontano con sguardo fiero, e contrasta le parole del superbo re con queste parole: «Avrò la gloria di averti strappato le ricche spoglie, o d'una nobile morte; il padre accetta entrambe le sorti. Cessa le minacce». E parlato così, avanza in mezzo al campo: agli Arcadi si gela il sangue rappreso nel cuore. Turno balza dalla biga; si appresta al combattimento a piedi. Come un leone, che scorge dall' alta vedetta ergersi lontano nel piano un toro mentre prepara lo scontro, si avventa: tale è l'immagine di Turno che si avvicina.
Quando credette che fosse a tiro di lancia, Pallante muove per primo, sperando che la sorte aiuti l'audacia della sua impari forza, e parla così al grande cielo: «Per l'ospitalità del padre e per la mensa a cui giungesti straniero, ti prego, Alcide, assistimi nell'ardua impresa. Agonizzante, mi veda strappargli le armi insanguinate, e gli occhi morenti di Turno sopportino me vincitore». Ercole ode il giovane, e soffoca un grande gemito nel profondo del petto, e versa lagrime vane. Allora il padre parla al figlio con parole amiche: «A ciascuno è fissato il suo giorno, breve e irreparabile tempo per tutti è la vita; ma estendere la fama con le imprese, questo è il compito del valore. Sotto le alte mura di Troia, caddero tanti figli di dei, e perì con quelli Sarpedone, mio figlio. Il proprio destino chiama anche Turno, che giunge alla meta del tempo assegnato». Così disse, e distolse gli occhi dai campi dei Rutuli. Pallante scaglia l'asta con grande forza, strappa dalla cava guaina la spada fulgente. L’asta volando colpisce dove culmina il riparo dell’omero, e apertasi la via nell' orlo dello scudo, infine sfiora il grande corpo di Turno. Allora Turno, vibrando a lungo l'asta munita di aguzzo ferro, la scaglia contro Pallante, e dice: “Guarda se la mia arma non penetri meglio”. Parlò, e la grande cuspide attraversa con un colpo vibrante il centro dello scudo, tante superfici di ferro, tante di bronzo, la pelle di toro che lo avvolge più volte, e perfora l'ostacolo della corazza e il petto. Pallante strappa invano dalla ferita la calda arma: per la stessa via sgorgano insieme il sangue e la vita. Crollò sulla ferita; le armi sopra tuonarono, e morendo percosse la terra ostile con il volto insanguinato. Turno levato su lui così parla: “Arcadi” disse, “riportate memori a Evandro queste parole: Pallante, quale egli meritò, gli rimando; qualunque onore del tumulo, qualunque conforto del sepolcro, concedo. Non gli costerà poco l' ospitalità ad Enea”. E detto così, calcò con il piede sinistro l'esanime, strappandogli la pesante cintura e il delitto che v’era inciso: in un'unica notte nuziale una schiera di giovani turpemente uccisi, e i talami insanguinati, che Clono figlio di Eurito aveva cesellato in molto oro; Turno trionfa della spoglia, ed esulta di possederla. O mente degli uomini inconsapevole del fato e del futuro, e di serbare la misura, esaltata dagli eventi propizi! Verrà il tempo per Turno, in cui desidererà riscattato ad alto prezzo e vivo Pallante, e odierà queste spoglie e questo giorno. Intanto i compagni con grandi lamenti e con lagrime riportano in folla Pallante adagiato sullo scudo. O tu che tornerai dolore e grande gloria per il padre! Questo primo giorno ti diede alla guerra, questo t'invola, mentre comunque lasci folti mucchi di Rutuli. Non solo la fama di tanta sventura, ma un più certo testimone vola da Enea, dicendo che i suoi si trovano a un esiguo intervallo di morte e che è tempo di soccorrere i Teucri in fuga.

X, 791- 832: il duello tra Enea e Lauso (trad. Luca Canali, Milano, Mondadori, 2000)


Qui non tacerò di certo il caso di una dura morte, e le tue gloriose gesta, e te, o giovane memorabile, se pure i posteri accorderanno fede a una così grande impresa. Mezenzio, ritraendo il piede, si allontanava indebolito e impacciato, e cercava di strappare la lancia nemica dallo scudo. Il giovane irruppe e si gettò in mezzo alle armi, sottentrò alla lama di Enea che già si ergeva con la destra e vibrava il colpo e, facendogli ostacolo, lo trattenne. I compagni lo assecondano con grande clamore, finché il padre s'allontani protetto dal piccolo scudo del figlio, e lanciano dardi, e respingono da lontano il nemico con proiettili. Infuria Enea, e si tiene coperto. Come talvolta precipitano nembi a rovesci di grandine, ed ogni aratore si disperde nei campi, ed ogni contadino e viandante si nasconde al sicuro sotto la ripa d'un fiume o l'arco d'un alto macigno, finché piove sulla terra, per potere, riapparso il sole, impiegar la giornata: così Enea, avvolto di dardi da tutte le parti, sostiene la nube di guerra, aspettando che tutta si scarichi, e grida a Lauso e minaccia Lauso: “dove corri a morire, e osi oltre le forze? T’insidia incauto amore”. Ma quello, ugualmente, esulta, folle; e già al condottiero dardanio crescono crudeli le ire; le Parche raccolgono gli ultimi fili di Lauso: infatti Enea vibra la valida spada sul corpo del giovane, e tutta l' affonda. La punta attraversa lo scudo, leggera arma all'audace, e la tunica, che la madre aveva tessuto con flessibile oro, e colma le pieghe di sangue; allora la vita per l'aria fuggì mesta ai Mani, e abbandonò il corpo. Ma appena l'Anchisiade vide lo sguardo e il volto del morente, il volto pallido in mirabile modo, gemette gravemente, pietoso, e tese la destra,
e gli strinse il cuore il pensiero dell'amore paterno. “Che cosa o miserando fanciullo, per questa tua gloria, il pio Enea ti darà, degno di tale cuore? Le armi di cui ti allietavi, abbile tue,. Ti rimando ai Mani e al cenere degli avi, se di ciò ti curi. Questo tuttavia, o infelice, consolerà la sventurata morte: cadi per la destra del grande Enea.” Rimprovera per primo i compagni esitanti, e solleva lauso da terra, mentre questi deturpa di sangue i capelli bene acconciati.



XI, 92-131: Enea concede la tregua

Allora la triste schiera e i teucri e tutti i Tirreni, e gli Arcadi con le lance rivolte verso il basso. Dopo che tutta la fila dei compagni era avanzata lontano, Enea si fermò e disse con un profondo gemito: “io sono chiamato da questo stesso orrrendo destino di guerra ad altre lacrime, lontano da qui: addio per sempre, mio grandissimo Pallante, addio per sempre”. Senza più una parola si avvicinava alle alte mura e si portava all’accampamento. E già dalla città latina erano giunti gli ambasciatori, col capo coperto di rami d’olivo, a chiedere la tregua: che restituissero i corpi, che giacevano sparsi uccisi dalla guerra nei campi e che permettessero la sepoltura; chiedevano che non si ingaggiasse battaglia con loro, vinti e senza fiato; che risparmiassero quelli che un tempo erano stati chiamati ospiti e suoceri. Il buon Enea esaudisce le loro preghiere, una tregua da rispettare, e aggiunge queste parole: “che destino indecente, Latini, vi ha impigliato in una guerra così grande? Perché ci evitate come alleati? La pace mi chiedete, per i morti e per quelli che sono stati distrutti dal destino di Marte? Ma io vorrei darla anche ai vivi! Non sarei venuto, se il fato non mi avesse destinato questo luogo come sede; non faccio guerra con il popolo; il re ha abbandonato i patti di ospitalità che aveva stretto con noi, e ha preferito affidarsi alle armi di Turno. Sarebbe stato più giusto che Turno sfidasse la morte. Se si prepara a finire la guerra con la violenza, a scacciare i Teucri, la cosa bella sarebbe stata che duellasse con me: sarebbe sopravvissuto quello a cui un dio o il suo valore avrebbe concesso la vita. Ora andate, e accendete i fuochi sotto le pire dei vostri concittadini.” Enea aveva detto così. Quelli stupefatti e silenziosi si guardavano tenendo gli occhi fissi gli uni agli altri. Allora Drance, più anziano, sempre ostile al giovane Turno, che odiava e accusava, risponde così al discorso di Enea: “sei grande per fama, ancora più grande nelle armi, o Troiano: con che parole potrei lodarti come meriti? Dovrei ammirarti di più per la tua giustizia o per le sciagure che hai patito in guerra? Noi davvero riferiremo grati queste parole alla nostra città e ti ricongiungeremo al re latino, se la fortuna ce ne darà una qualche possibilità. Turno cerchi i patti per sé. Sarà bello per noi levare le mura fatali e trasportare a spalla le pietre troiane”.




XII, 676- 790: il duello fra Enea e Turno

“Il destino è più grande di noi, sorella, ormai; smetti di trattenermi. Andiamo dove chiamano il dio e la dura sorte. E’ stabilito che io affronti Enea, che patisca quanto c’è di aspro nella morte; non mi vedrai più vergognoso, sorella. Ti prego, ora lascia che io mi infurii prima di questa furia”. (Turno) disse così e saltò giù dal carro velocemente a terra e si precipita tra i nemici, tra i dardi, e abbandona la triste sorella e con una corsa rapida rompe le schiere. E come quando un sasso, staccato dal vento dalla cima di un monte, precipita rovinosamente, forse perché la torbida pioggia lo ha dilavato, o forse perché lo scorrere del tempo, negli anni, scalzandolo, lo ha sgretolato; la frana sfrenata rotola nel precipizio con grande spinta rimbalza al suolo, trascinando con sé alberi, bestie, uomini: così Turno attraverso le schiere sconvolte si precipita alle mura della città, dove la terra ovunque trasuda di sangue versato e l’aria stride di proiettili; fa segno con la mano e insieme comincia a gran voce: “Rutuli, risparmiate i colpi, e anche voi, Latini, trattenete le frecce; qualunque sia la sorte, è la mia: è più giusto che io da solo rispetti il patto per voi e combatta con la spada”. Tutti si ritirano e quelli che erano nel mezzo creano uno spazio. Ma il padre Enea, sentito il nome di Turno, lascia le mura, lascia l’alta rocca, rompe ogni indugio, interrompe ogni impresa, esultando di gioia, e risuona orrendamente con le armi: sembra grande come il monte Athos, o l’Erice, o lo stesso padre Appennino, quando freme nelle selve, e gode della cima innevata, levandosi al cielo. E già i Rutuli a gara, e i Troiani, e tutti gli Italici volsero lì lo sguardo, e quelli che occupavano le alte mura, e quelli che dal basso colpivano i muri con l’ariete, Tutti tolsero le armi dalle spalle. Lo stesso Latino stupisce che due uomini così grandi, generati in parti diverse del mondo, si siano trovati faccia a faccia e combattano con la spada. E quelli, non appena i campi si aprirono in una vasta distesa, correndo avanti rapidamente, scagliate da lontano le lance, cominciano la battaglia con gli scudi e le armi di bronzo sonoro. La terra geme; raddoppiano i colpi fitti con le spade: virtù e destino si mescolano insieme. E come quando nella vasta Sila o sull’alto Taburno due tori, in scontro ostile, fronte contro fronte, si affrontano (e i pastori, impauriti, si sono allontanati, tutta la mandria è ferma e silenziosa per il terrore, e le giovenche mormorano, attendendo chi comanderà il bosco, chi sarà seguito da tutto l’armento) quelli fra loro con grande violenza mescolano le ferite, facendo forza, conficcano le corna e lavano di sangue abbondante i colli e le zampe: tutto il bosco riecheggia il gemito; non diversamente il troiano Enea e l’eroe figlio di Dauno si scontrano opponendo gli scudi; l’immenso fragore riempie il cielo. Giove in persona dopo aver bilanciato i due piatti li tiene sospesi, e pone su ciascuno il destino dei due contendenti, quale sia condannato dalla battaglia e quale piatto la morte faccia inclinare col suo peso. Qui Turno balza, ritenendolo un gesto sicuro, e con tutto il corpo insorge sulla spada sguainata e dà un colpo: danno un grido i Troiani e i trepidanti Latini, entrambe le schiere sono irrigidite. Ma la spada infida si spezza e abbandona il giovane ardente a metà del colpo, se non subentrasse come aiuto la fuga. Fugge più veloce dell’Euro, quando vede l’elsa sconosciuta e la mano priva dell’arma. Si sa infatti che Turno, correndo, quando i cavalli scendevano appaiati all’inizio della battaglia, lasciata la spada del padre, preoccupato, aveva preso in fretta la spada dell’auriga Metisco. E quella a lungo, finché i Teucri fuggivano qua e là, era stata adeguata: ma dopo il contatto con le divine armi di Vulcano, il gladio mortale, come fragile ghiaccio, si dissolse al colpo: i frammenti luccicano nella bionda sabbia. Allora, fuori di sé, Turno fugge qua e là nella pianura e ora in un osto, ora in un altro, compie incerti giri; ovunque infatti i Teucri lo chiudono in una fitta corona, e da un lato lo frena una vasta palude, dall’alto le impervie mura. Nondimeno Enea, benché le ginocchia indebolite dalla ferita talora lo impediscano e rifiutino la corsa, lo insegue e furente incalza col piede il piede di quello tremante: come quando, a volte, un cacciatore si è imbattuto in un cervo impedito da un fiume o dalle penne rossastre, e lo incalza con la corsa e i latrati del cane; e quello, atterrito dalla trappola e dall’alta riva, fugge e rifugge per mille strade; ma il cane umbro, pieno di vita, gli sta addosso fiatando, e ormai lo tiene e, come se già lo tenesse, schiocca le mandibole e viene deluso dal morso dato invano. A questo punto si leva un clamore, le rive e il lago fanno eco all’intorno e il cielo tuona di tutto il tumulto. Turno fugge e allo stesso tempo grida a tutti i Rutuli, chiamando ciascuno per nome, e bramosamente chiede la sua spada. Enea d’altro canto minaccia morte e fine immediata a chiunque si avvicini, e terrorizza quelli già tremanti minacciando di distruggere la città, e, pur ferito, incalza. Fanno cinque giri interi, e poi di nuovo ne ripetono altri cinque qua e là: infatti non si gareggia per un premio da poco, non è un gioco: la posta è la vita e il sangue di Turno. Era un tempo in quel luogo un oleastro dalle foglie amare, sacro a Fauno, un tempo pianta venerabile per i marinai che, se si salvavano dalle onde, erano soliti là apporre doni al dio laurente e appendere le vesti che avevano dedicato. Ma i Teucri, senza prendere in considerazione la sacralità del luogo, avevano tagliato il ceppo, perché i due potessero contendere in un campo mondo. Lì stava l’asta di Enea, lì l’impeto l’aveva scagliata e ora stava fissa, trattenuta dalla radice tenace. Enea si chinò, tentando di svellere l’asta per incalzare Turno con un’arma da lancio, visto che non riusciva a raggiungerlo correndo. Allora Turno, fuori di sé per il terrore, disse: “Fauno, ti prego, abbi pietà, e tu, ottima terra, trattieni l’arma, se è vero che vi ho sempre onorato,
mentre invece gli Eneadi vi profanarono con la guerra”. Disse così, e chiese l’aiuto del dio con preghiere non vane. E infatti Enea, pur lottando a lungo, pur insistendo sulla tenace radice, pur con tutte le forze non riuscì ad allentare il morso del legno. Mentre lui si sforza con caparbietà e insiste, la dea figlia di Dauno, assunto di nuovo l’aspetto dell’auriga Metisco, corre in mezzo e restituisce la spada al fratello. Venere, indignata che un simile gesto fosse permesso alla coraggiosa ninfa, si avvicinò e divelse l’asta dalla profonda radice. I due, alteri, rinfrancati per avere ottenuto le armi, l’uno confidando nella spada, l’altro fremente e coraggioso con l’asta, si fermano l’uno contro l’altro, bramosi del duello di Marte.


XII, 887-952: il finale

Dall’altra parte sta Enea e brandisce l’asta, grande, di legno, e parla così col cuore incrudelito: “e adesso, che aspetti? O forse ti vuoi ritirare, Turno? Non dobbiamo fare una gara di corsa: dobbiamo combattere, con crudeltà, corpo a corpo. Puoi trasformarti in qualsiasi modo, radunare tutte le tua risorse, sia il coraggio o sia l’astuzia; puoi levarti a volo fino alle stelle, o nasconderti nel profondo della terra”. E quello, scuotendo il capo: “non sei tu, feroce, a farmi paura con le tue parole rabbiose; mi fanno paura gli dei, e l’ostilità di Giove”. Senza aggiungere parola, si guardò intorno e vide un gran sasso, un sasso grande e antico, che stava per caso nel campo, posto come pietra di confine alla terra per risolvere una lite sulla proprietà. A stento lo avrebbero sollevato tenendolo sulle spalle dodici uomini scelti, di quegli uomini che ora produce la terra; quell’eroe, dopo averlo preso da terra con mano insicura lo scaglia contro il nemico, levandosi più in alto e dando l’impulso correndo: ma non si riconosce: come se non fosse lui a correre, a camminare, a sollevare e smuovere l’immane sasso; le ginocchia cedono, il sangue gelato si rattrappisce nel freddo. Allora la pietra scagliata dall’uomo nel vuoto dell’aria non percorre tutto lo spazio e fallisce il colpo. E come nei sogni, quando di notte una languida quiete preme sugli occhi, ci pare di volere bramosamente correre, ma senza riuscirci, e stremati cadiamo fra gli sforzi: la lingua non si muove, le forze che sappiamo di avere non ci sostengono, non riusciamo a esprimere una voce, delle parole: così a Turno la dea crudele nega il buon esito di qualunque azione la virtù intraprenda. Allora diversi sentimenti si muovono nel suo petto; guarda i Rutuli e la città, ed esita per la paura, e trema al pensiero che la morte gli è addosso, non vede dove strapparsi da lì, né con che forza possa affrontare il nemico, e non vede il suo carro, né l’auriga sorella. Mentre lui è lì che indugia, Enea, dopo aver cercato con gli occhi un punto fortunato al quale mirare, brandisce l’asta fatale, e la scaglia da lontano con tutto il suo peso. Pietre, scagliate da una macchina da guerra per abbattere le mura, non sibilano mai così, né così violenti balzano i tuoni dal fulmine. L’asta vola come un nero turbine, portando funesta distruzione e trafigge il brodo della corazza e i giri esterni dello scudo piegato sette volte; stridendo trapassa a mezzo la coscia. Il grande Turno, colpito, cade a terra, piegate le ginocchia