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De nugis curialium (Svaghi di corte) - Walter Map



lunedì 02 aprile 2007 legge Glauco Maria Cantarella
Walter Map fu uno dei molti clerici (intellettuali, tradurremmo noi, forse sbagliando) che frequentarono e, a detta loro, animarono la corte d'Inghilterra nella seconda metà del sec. XII e agli inizi del secolo successivo: per intenderci, i decenni di Enrico II Plantageneto e della sua bellissima moglie Eleonora d'Aquitania, di Thomas Becket e di Giovanni di Salisbury, di Riccardo Cuor di Leone e di Giovanni Senza Terra. Le pagine che vengono presentate qui compongono due capitoli del Libro I dell'opera cui attese per tutta la vita, le Nugae curialium (alla lettera: Intrattenimenti dei cortigiani), un'opera ricchissima in cui c'è di tutto, considerazioni sul presente e sul passato, racconti folklorici, pettegolezzi, barzellette, discussioni teologiche... L'autore manifesta un piglio sempre mordace, di cui non può fare a meno proprio per il ruolo che ricopre: e gettando questo tipo di luce affronta uno dei grandi temi del suo secolo, quello della egemonia pressoché incontrastata del monachesimo cistercense. Una forma di monachesimo ancora recente nei suoi tempi, di grandissimo successo, che si voleva espressione del ritorno alla purezza originaria della vita benedettina e in generale della vita cristiana. Walter Map ne dà una lettura in controluce contribuendo al chiarimento e allo «smascheramento» (per usare un'espressione di Michail Bulgakov) del codice di comunicazione.

Walter Map, De nugis curialium, Clarendon Press, 1983, pp. 120-167




L’origine dei Cistercensi 


I Cistercensi spuntarono dall’Inghilterra, da un luogo chiamato Sherborne. Lì diversi monaci prestavano servizio in abito nero, sotto un abate molto severo; poiché questi teneva molto fermamente le redini, la cosa cominciò a non piacere ad alcuni, per cui quattro di loro pensarono bene di fuggire e raggiunsero la Francia, madre di ogni malizia. Lì vagabondarono, unendosi ad altri cacciatori di piaceri che la Francia offre sempre in abbondanza, e nel loro gironzolare andarono alla fine incontro alla scarsezza di vettovaglie. Provati dalla sofferenza degli stenti, a lungo discussero sul da farsi. Non volevano tornare indietro, non potevano vivere senza fonti di guadagno. Come procurarsele? Alla fine trovarono conveniente stabilirsi in un eremo con il pretesto della religione, non però un eremo come quello di Paolo o di Ilario nel deserto della Libia o nei luoghi inaccessibili della Montagna Nera; non nelle caverne e nelle spelonche dove non c’è nessuno a parte Dio; coloro che stabilirono di adorare l’uomo come Dio dovevano avere sia gli uomini che Dio favorevoli, ma non troppo vicini: perciò scelsero un posto adatto in cui abitare, non inabitabile ma disabitato, pulito, fertile, adatto alla coltivazione ed a ricevere i semi, circondato da boschi, zampillante di fonti: corno dell’abbondanza, luogo fuori dal mondo pur essendo nel cuore del mondo, remoto dagli uomini pur trovandosi in mezzo agli uomini, non volendo essi conoscere il mondo ma essere conosciuti dal mondo; come quella che “fugge verso i salici e spera di essere stata notata”. Ottennero quindi da un ricco una porzione di terra, di scarso e spregevole valore, al centro di un grande bosco, dopo molte simulazioni di probità ed accorate preghiere, invocando Dio ad ogni parola. Quindi estirparono e divelsero il bosco, lo sradicarono del tutto e lo ridussero in pianura, commutarono gli arbusti in messi, i saliceti in biade, i vimini in viti; e, per avere più tempo per queste, forse bisognò sottrarne un po’ alle orazioni. Maria stava un tempo seduta quasi senza comprensione per il lavoro di Marta; in costoro avremmo potuto vedere Maria alzarsi, più sensibile verso l’affanno di Marta. Gli altri ordini si levano a mezzanotte per la professione di fede, come vuole il salmista, e dopo quell’ora, stanchi, vanno a dormire; questi però, più intransigenti e severi con se stessi, stabilirono di continuare da allora fino a giorno con la veglia e le preghiere. Tuttavia, dopo un po’di tempo, questo apparve loro faticoso e dato che era vergognoso cambiare la regola preferirono cambiare l’ora di mezzanotte in quella antelucana, in modo che la sinassi terminasse con la notte e la legge non fosse calpestata. Altri si alzano prima che faccia giorno; questi, invece, come ripetendo

Essendo sorto il giorno
preghiamo supplici Dio

quando le ore per gli atti liturgici e la messa sono concluse, si avviano tutti insieme al lavoro. Ai quattro piacque darsi una regola più dura e più severa di quella del beato Basilio e di Benedetto: rifiutarono le pelli, il lino ed anche i tessuti di filo, accontentandosi di lana non colorata; e con tanta determinazione si erano allontanati dai monaci neri che scelsero un abito di colore bianco, proprio antitetico alle vesti di quelli. Nessun monaco si nutriva di carne o di sangue prima dei tempi di Carlo Magno, che con suppliche ottenne da papa Leone l’uso della carne fresca per i monaci cismontani, strappando per loro anche la concessione del grasso degli animali, poiché non avevano olio d’oliva come gli ultramontani. I Cistercensi, non accettando questa dispensa, hanno voluto mantenere le restrizioni dell’andazzo antico, e quindi si professano contrari al consumo della carne. Nutrono tuttavia diverse migliaia di maiali, vendendone poi la pancetta, forse non tutta; le teste, le zampe, i piedi non li danno, né li vendono, né li gettano; dove vadano a finire, lo sa Dio. Similmente rimane tra Dio e loro cosa facciano delle galline, di cui abbondano assai.
Hanno rinunciato ai beni delle chiese e ad ogni sorta di ingiuste acquisizione vivendo, come l’apostolo, col lavoro delle proprie mani, bandendo ogni cupidigia; ma per un certo tempo. Non so cosa si siano proposti o ripromessi quand’erano in boccio; ma qualunque cosa abbiano promesso, è venuto fuori un tale frutto che abbiamo paura degli alberi che possono spuntare. Un tempo si comportavano in ogni occasione con umiltà e semplicità, non erano avidi né interessati, non negavano aiuto a nessun lamento, non facevano agli altri nulla che non volevano fosse fatto a loro, non rendevano ad altri male per male, cercavano di preservare la loro incontaminatezza dall’infamia così come il balsamo dal fango; tutti lodavano il loro sabato e desideravano diventare come loro. Divennero pertanto un grande popolo e si sparsero per molte sedi, i cui nomi racchiudono un preannunzio divino, come Casa di Dio, Valle di Dio, Porto della Salvezza, Ascendi al Cielo, Meravigliosa Valle, Lucerna, Chiara Valle. In quest’ultima emerse Bernardo e cominciò a splendere fra gli altri, anzi sopra gli altri, come Lucifero tra le stelle notturne. Era un uomo di facile eloquio, che faceva girare le bighe per la città e castelli, per portare in esse i credenti fino al chiostro. Costui si muoveva con lo spirito per tutta la Gallia e i miracoli che grazie a lui avvenivano li registrava Goffredo di Auxerre: a costui prestate fede.
Mi trovavo una volta alla mensa del beato Tommaso, allora arcivescovo di Canterbury; vicino a lui erano seduti due abati bianchi, che raccontavano parecchi miracoli del predetto uomo, cioè di Bernardo, traendo spunto dal fatto che si stava leggendo una lettera di Bernardo sulla condanna del maestro Pietro, principe dei nominalisti, che commise più errori in dialettica che in teologia; infatti di quest’ultima dissertò con tutto il cuore, sull’altra lavorò controvoglia trascinando molti ai suoi stessi malintesi. SI leggeva dunque la lettera di don Bernardo, abate di Chiaravalle, al papa Eugenio, che era stato suo monaco e che nessuno di quell’ordine ha seguito in quella sede. La lettera trattava del maestro Pietro, che era superbo come Golia, di Arnaldo da Brescia che era il suo portabandiera e di molte altre cose di questo pessimo genere. I due abati, colta al volo l’occasione, cominciarono a lodare Bernardo, e lo portarono alle stelle. Allora Giovanni Planeta, udendo del buon maestro cose che non condivideva e che gli dispiaceva, disse: “Io assistetti a Montpellier ad un miracolo che lasciò molti a bocca aperta”; e spronato a raccontarlo, aggiunse: “A colui che giustamente voi esaltate come un grande uomo fu un giorno, a Montpellier, presentato un indemoniato legato, perché lo esorcizzasse. Egli, seduto su una grande asina, impartì ordini allo spirito immondo, mentre la gente che era sopraggiunta stava in perfetto silenzio, e alla fine esclamò: “Scioglietelo dai lacci e lasciatelo in libertà”. L’indemoniato però, quando si vide libero, si mise a scagliare sassi come poteva contro l’abate, inseguendolo con insistenza mentre fuggiva per le vie, finché non gli fu impedito; ed anche dopo che fu catturato dalla gente gli teneva sempre gli occhi addosso, dal momento che le mani erano legate”. Questo racconto spiacque all’arcivescovo, e disse a Giovanni quasi minacciandolo: “Questi che tu racconti sono forse miracoli?” E Giovanni: “Quelli che furono presenti dicevano che si trattava di un miracolo degno di essere ricordato, poiché posseduto dal demonio era con tutti mite e benevolo, e molesto solo verso gli impostori; e ancor oggi a me pare proprio che sia stato un castigo per la presunzione”.
Parimenti due abati bianchi parlavano dell’uomo predetto in presenza di Gilberto Foliot, vescovo di Londra, elogiandolo per la potenza dei miracoli. Dopo averne riferiti diversi, uno disse: “Benché siano vere le cose che si raccontano di Bernardo, io una volta vidi venirgli meno la grazia dei miracoli. Un uomo della marca di Burgundia gli chiese di andare a guarire suo figlio. Andammo e lo trovammo morto. Don Bernardo allora ordinò che il corpo fosse traslato in una stanza appartata, fece uscire tutti, si chinò sopra il fanciullo, pregò e si rialzò; il fanciullo però non si rialzò e continuò a giacere morto”. Allora io: “ Fu il più sfortunato dei monaci. Non ho mai sentito che un monaco si sia chinato su un fanciullo, senza trovare subito dietro di lui il fanciullo eretto”. L’abate arrossì, e molti lasciarono la stanza per ridere.
E’ di dominio pubblico che al citato Bernardo, dopo questa mancanza di grazia, ne toccò un’altra che non favorì la sua fama. Gualtiero, conte di Nevers, morì alla Chartreuse, e lì venne sepolto. Don Bernardo accorse allora al sepolcro e poiché era rimasto a lungo prostrato a pregare, il priore lo pregò di andare a pranzare dato che era l’ora. Bernardo gli rispose: “Non mi smuoverò da qui finche frate Gualtiero non mi parlerà”. Ed esclamò a voce alta: “Gualtiero, vieni fuori!” Ma Gualtiero, che non sentiva la voce di Gesù, non ebbe le orecchie di Lazzaro, e non uscì.
Poiché poco a il nome di Arnaldo da Brescia si è introdotto nel mio discorso, vorrei dirvi, se vi va, chi era, così come io l’ho sentito da un suo contemporaneo, uomo distinto e assai colto, Roberto di Burneham. Questo Arnaldo, senza essere convocato né difeso ed anzi assente, fu condannato, dopo Abelardo, da papa Eugenio, sulla base non di scritti ma di prediche. Pere lignaggio Arnaldo era nobile e insigne, per cultura eccellente, per preparazione religiosa il primo; non si curava del cibo e del vestire se non per quello che era strettamente necessario; andava in giro predicando, perseguendo non i propri interessi ma quelli di Dio, e si fece amare ed ammirare da tutti. Recatosi a Roma, i Romani resero onore alla sua dottrina. Infine giunse alla curia e vide le mense dei cardinali ricolme di vasellame d’oro e d’argento e ogni sorta di ricercatezza nei banchetti; con garbo li riprese davanti al papa, ma essi se la resero a male e lo buttarono fuori. Tornando in città, egli cominciò ad insegnare senza sosta, e gli abitanti gli si avvicinavano e lo ascoltavano volentieri. Accadde però che questi vennero a sapere come Arnaldo avesse tenuto un sermone rivolto ai cardinali, davanti al papa, sul disprezzo delle ricompense e su Mammone, e come fosse stato cacciato dai cardinali. Accorsero perciò in massa alla curia e protestarono contro il papa ed i cardinali, dicendo che Arnaldo era probo e giusto, e loro avidi, ingiusti ed empi, e che non erano la luce del mondo ma la feccia, e proseguendo in questi termini a stento tennero ferme le mani. Il tumulto fu sedato con difficoltà ed il papa inviò ambasciatori dall’imperatore, denunciando Arnaldo come scomunicato ed eretico, ed i legati non se ne andarono finché non lo fecero impiccare.

Riflessioni del maestro Gualtiero Map sul monachesimo

I monaci sia bianchi che neri, così come lo sparviero riconosce l’allodola atterrita, fiutano immediatamente la propria preda, cioè i cavalieri da spennare, che o sono sperperatori del proprio patrimonio o sono oberata dai debiti. Li invitano e, davanti ai loro focolari, lontano dal chiasso e dagli ospiti di carità, cioè le pulci, li colmano di mille cose gradevoli, li pregano con molte lusinghe di tornare spesso a trovarli, garantendo loro ogni giorno apparati dello stesso tipo e volti sempre sorridenti; mostrano a quelli digiuni i pollai, sciorinano davanti a loro quanto più possono i tesori del monastero in modo che essi se ne accorgono e risvegliano così le loro speranze; promettono di rifornirli di ciò che a loro manca, li trascinano agli altari, li informano a chi sono consacrati e con tante assidue celebrazioni sono onorati; li eleggono loro fratelli nel capitolo e li fanno partecipare alle loro preghiere; quindi li conducono, come dice Virgilio,

all’interno se fa freddo, all’ombra se è tempo delle messi.

I monaci neri, che hanno come fondatori Basilio e Benedetto, hanno ai nostri giorni nuovi imitatori che professano la stessa regola e, più fervidi, vi aggiungono più severi provvedimenti; questi imitatori noi li chiamiamo monaci bianchi o grigi. I neri hanno come regola di indossare i panni più rozzi della loro provincia e, per dispensa, soltanto pelli di agnello; i bianchi indossano lana intrecciata di tipo identico a quella che portava la pecora, mai colorata, e benché critichino i eri per le pelli, abbondano in ugual misura di molte e comodissime tuniche, che, se non fossero state strappate dalle mani dei tintori, sarebbero divenute di prezioso scarlatto per la delizia di re e principi. I neri siedono con Maria ai piedi del Signore e ne ascoltano la parola, e non è oro concesso d’andar fuori per occuparsi d’altro; i bianchi, benché siedano anch’essi ai piedi di Dio, escono per lavorare; esercitano con le proprie mani ogni tipo di agricoltura, sono entro la cinta del convento artigiani, fuori sarchiatori, pastori, commercianti, industriosissimi in ciascun mestiere. Non hanno bovari né porcari se non dei loro, e neanche alle più piccole e insignificanti incombenze, o ai lavori da donne, come il munger latte e simili, ammettono chicchessia che non faccia parte dei conversi. Essi son tutto per ogni lavoro, per cui la terra è piena dei loro beni, e benché secondo il Vangelo non debbano preoccuparsi del domani, hanno un tale fondo di ricchezze di cui occuparsi che possono entrare sicuri nell’arca con Noè, al quale non era rimasto fuori nulla che potesse giovargli. Sono legati ad un capo, cioè all’abate cistercense, che ha la facoltà di cambiare a suo piacimento tutto ciò che vuole. Non offrono agli ospiti quei cibi da cui essi si astengono, né permettono di recare entro il loro chiostro ciò che essi non sono in grado di dare; è chiaro che fanno astinenza per avere l’abbondanza: infatti l’altra mano dell’avidità è la spilorceria. Accettano buoi ed aratro in prestito, ma non possono prestare i propri. E’ giusto per loro far prevalere la loro causa, e mai farla soccombere; si presentano bisognosi d’aiuto agli inferiori, supplici ai superiori, molestano i vicini, bandiscono i vinti; qualunque cosa faccia loro intravedere un vantaggio, la prendono con la scusa del buon diritto. Se tu chiedi loro spiegazioni per ciascuna delle loro imposture, hanno pronta una ragione così plausibile che a sentirla si può accusare il Vangelo di falso. Chi li ha chiamati per misericordia come soci del suo campo, si rivela verso di loro un vicino caritatevole, ma finisce coll’essere buttato fuori. Non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te: non temono questo insegnamento né molti altri dello stesso genere. Hanno specifiche soluzioni,che essi soli sono in rado di trovare, per ogni singolo caso; una tuttavia è applicata da tutti ad ogni pie’ sospinto; a spiegare una violenza, un furto o qualunque altro misfatto causato dalla cupidigia, dicono:” Noi spogliamo gli Egiziani, arricchiamo gli Ebrei”, come se essi soli fossero quelli che Dio conduce fuori dalle tenebre. Fanno poco ampi i confini del regno di Dio, se a parte loro tutti sbagliano. Se né i profeti – dei quali non si ricordano – né il Signore Gesù, né gli Apostoli trovarono la strada giusta e comunque non riuscirono a percorrerla, significa che o Dio ce la negò, o che non la conosceva, oppure che essa è infida. Tuttavia Dio ci avverte di guardarci dai falsi profeti che, come questi, vengono travestiti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci; che, come questi, pregano stando negli angoli delle piazze; che, come questi, allungano le loro filatterie; che, come questi, impreziosiscono le frange. Non ostenta la sua rettitudine colui che dimora in cielo e dice: “Non sia mai che io trovi ragione di gloria in altro se non nella croce di Cristo chi mette gli altri in croce per poi vantarsi; ma mi sembra proprio che allunghino le loro filatterie quelli che definiscono solo se stessi Ebrei e tutti gli altri Egizi.
Come il fariseo dicono: “Non siamo uguali a tutti gli altri uomini” ma si guardano bene dal dire: “Paghiamo le decime per tutte quante le nostre rendite”. Come lui dicono di ciascuno di noi: “Non siamo neppure come questo pubblicano”, mentre noi proferiamo: “Dio, sii buono verso di noi che siamo peccatori”. Se Dio presta ascolto alla voce della superbia e non tiene in conto quella dell’umiltà, allora essi sono i veri Ebrei e noi gli Egizi; se però essi fossero gli autentici Israeliti, dovrebbero praticare la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo; se uno invece fa male al prossimo, come può l’amore di Dio dimorare in lui? La natura della carità è bipartita, ed il Dio e uomo ha permesso all’uomo di procurarsi merito indistintamente in ciascuna delle due parti, e nessuna delle due può soddisfare senza l’altra: non esiste nessuno che non riceva benefici da un’altra persona; nessuno che non abbia a sua volta una persona cara. Per quanto lontano tengano quelli che li hanno aiutati, li hanno pur sempre disponibili, ma se li odiano, come possono amare Dio? Tuttavia, come dicono, amano in Dio; ma intendono per “amare in Dio” il desiderare la salvezza dell’anima del fratello escludendo ogni aiuto al corpo. Con questo ragionamento certamente io amo tutti i miei nemici, poiché vorrei che morissero e fossero con Cristo. Non ho mai odiato qualcuno con tanta spietatezza da negargli in punto di morte il mio perdono per tutti i suoi misfatti. Perciò posso affermare con sicurezza: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, poiché il mio odio muore con il nemico, e gli rimetto tutto, e vorrei che fosse in gloria nel seno di Abramo. Essi fanno del male, eppure dicono di amare. Chiudere il proprio cuore ad un fratello bisognoso, cosa è? Non è di più che umiliare gli afflitti? Come si basa la carità sul furto, dal momento che essa non si muove mai sconsideratamente?Come può risiedere nella presunzione, essa che non cerca il proprio interesse?Come può pensare al guadagno, essa che non è ambiziosa? Come può per avidità tenere lontana la gente dai poderi aviti, essa che è benigna? Come può non tollerare i vicini, essa che è paziente? Se essi possiedono veramente la virtù della carità, in che modo la dimostrano? Ce l’hanno in misura trascurabile quelli che la tengono dentro spogliata di tutte le sue potenzialità. Se non hanno carità (come sembra, ma Dio faccia che non sia così) mancano della radice delle virtù, e i ramoscelli inaridiscono. Se invece la possiedono (così sia), senza benignità, senza pazienza, che sono le sue principali ali, non potrà ascendere al cielo spogliata dei requisiti necessari, ed ogni altra cosa si sia messa addosso torna a suo disdoro e rivela le sue nudità.
Essi dicono:” La terra è del Signore, noi soli siamo figli dell’Altissimo, e tranne noi non c’è chi è degno di possederla”. Non dicono:”Signore, non son degno di essere chiamato tuo figlio, non son degno che tu entri sotto il mio tetto”; non dicono: “Non son degno di chinarmi a sciogliere il laccio dei tuoi sandali”; non dicono che sono stati giudicati degni di patire oltraggi per il buon nome di Gesù, ma di essere autorizzati a possedere tutto. Non dicono che essi sono quelli dei quali il mondo non è degno, ma che sono degni del mondo. Dato che ricercano la pace, sono figli di Dio, ma non vedo come possano amare la pace, dal momento che non esiste pace nel furto. Se sono figli di Dio, lo sono anche dell’Eccelso; sono dunque iddii, poiché: “Io l’ho detto: siate tutti iddii e figli dell’Eccelso”. Certamente non sono iddii dei Cristiani, che essi tormentano, ma degli infedeli, i soli assieme a loro che ci perseguitino, dal momento che i Giudei hanno cessato di farlo per debolezza. Perciò apprendano cosa essi sono dal profeta che dice: “Tutte le divinità dei popoli sono demoni, solo il Signore è il creatore dei cieli”; noi crediamo in Colui che creò i cieli, che non è un Dio che vuole iniquità. Il nostro Dio non è il loro, il nostro Dio è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, e non è un nuovo Dio: il loro è nuovo. Il nostro dice: “Chi non lascia tutto per me non è degno di me”; il loro Dio dice: “Chi non guadagna tutto per sé non è degno di me”: Il nostro dice: “Colui che ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha”; il loro: “Se non hai due tuniche prendile a chi ne ha”. Il nostro: “Beato chi pensa al misero e all’afflitto”; il loro: “Beato chi ha reso miseri ed afflitti”. Il nostro consiglia: “Badate che i vostri cuori non siano aggravati da occupazioni mondane, affinché il giorno supremo non vi colga impreparati”; il loro dice: “State attenti che le vostre borse si appesantiscano con le occupazioni mondane, affinché non vi colga la miseria come capita al vagabondo”. Il nostro dice: “ Nessuno può servire Dio e Mammone”; il loro dice; “Nessuno può servire Dio senza mammona”:
Sembra esserci tra di loro un conflitto di tal fatta, che nessun estraneo può comprenderlo appieno. E’ per loro una regola abitare luoghi deserti, ed essi, se non li trovano così, li fanno diventare;per cui in qualunque luogo li chiami, scoraggiano l’afflusso di uomini ed in breve con la forza li riducono in pochi; e

se non onestamente, ottengo in qualunque modo lo scopo.

Si introducono con gioia nei campi ceduti da un signore ingiusto a dispetto delle proteste di orfani, vedove, religiosi, preoccupati non di come ottenerli ma di come trattenerli, e poiché secondo la regola non possono governare i parrocchiani, distruggono villaggi, abbattono chiese, espellono i parrocchiani, non si fanno scrupolo di rimuover gli altari e spianare tutto sopra ciò che deve essere il percorso del vomere, cosicché se guardi quello che avevi già visto in precedenza, potresti dire

C’è un campo oggi dove un tempo sorgeva Troia.

E, per restare soli, spopolano i luoghi circostanti e, poiché non è loro permesso avere propri parrocchiani, si permettono di disperdere quelli degli altri; la regola non consente di conservare, ordina di distruggere. Tutti gli altri invasori hanno in qualche modo pietà e risparmiano qualcosa; infatti o tengono per loro quello che invadono e lo lasciano perciò intatto, o abbandonano il territorio che hanno depredato, così che gli abitanti tornando possono ricostruire; questi si adoperano con solerzia per non farli tornare. Se lo spietato predone ha infierito col fuoco, restano il ferro, le macerie ed i campi per chi tornerà sul luogo; ciò che va in rovina per il forte calore, ciò che è stato sconvolto dal diluvio, ciò che l’aria corrompe, conserva un’utilità per i possessori; solo un’invasione di questo ordine non lascia nulla. Se un re ha strappato ad un altro re un regno, vuoi con l’inganno vuoi con la guerra, per quanto tiranno possa essere, i coloni vengono lasciati; non compie uno sterminio, è possibile ancora godere di un qualche benessere sul patrio suolo , e i sudditi possono nella loro terra attendere con pazienza da Dio la morte del tiranno o un’altra liberazione dal tormento; quelli che invece vengono sorpresi da un’invasione dei Cistercensi sappiano che li aspetta un esilio perpetuo. Si dà il caso, altre volte, che delle persone vengano deportate per precise ragioni, ma questi prescrivono tutti senza una ragione, per cui accade che chi è debilitato per infermità o vecchiaia finisce ben presto col crollare per mancanza di cibo, poiché gli è riservato un minor sostentamento; quindi vengono abbandonati, e da qualsiasi parte l’esca del cibo alletti gli affamati, questi, lasciati parenti ed amici, seguono chi possono dappertutto, si lanciano in ogni precipizio, e l’angoscia della fame non a temere i rischi della morte. Alcuni si invischiano in rapine, altri nei furti, e siccome disperano di essere sottratti alla miseria, considerando poca cosa ogni castigo loro inflitto, si provocano spontaneamente la morte con un colpo alla gola, sprezzando la vita, perché essa li ha a lungo spinti ad ogni sorta di crimini, e volentieri lasciano la luce che l’assoluta indigenza aveva reso insopportabile per le gravi pene. Che enorme, che crudele, che diabolica peste è l’inedia! Che spietato, che abominevole, che detestabile tormento! Essa senza ragione costringe in prigione i Cristiani. Perfino Daciano e Nerone governavano con maggior mitezza, e come una breve malattia passa più in fretta di una quotidiana serie di afflizioni, così la loro durezza sembra più misericordiosa di quella cui è addebitabile la povertà, che nessun ritegno trattiene, che non possiede alcun merito, che è irta di crimini, sporca di vizi, sempre irriverente verso Dio, che scioccamente incrudelisce contro tutto ciò che è onorevole; che riempie le galee di pirati, infesta le città di ladri, arma le foreste di predoni, muta le agnelle in lupe, conduce le donne dal letto nuziale al lupanare; che avendo in se stessa tutti i possibili generi di tormenti, commette più ingiustizie di quanto la giustizia commini pene, più offese di quanto essa scagli fulmini, dispone di più bersagli che non essa di frecce. Buon Dio! Come possono essere figli tuoi quelli che cagionano questo male nelle tue figlie e nei figli della luce? Le proprietà ed i patrimoni dei monasteri e delle chiese, posseduti praticamente da sempre e giustamente conservati, essi li saccheggiano; dicono che è roba loro, come se dovessero avere in comune con tutti i Cristiani ogni cosa. Quindi vantano il sostegno di Roma, verso cui sono stati larghi per avere in cambio il privilegio dell’ingordigia; io sono stato giovane, e ora sono vecchio, ma non ho mai visto un povero ricevere un privilegio, né i suoi figli ottenere una dispensa contraria alla legge comune, poiché quelli nelle cui mani sono concentrate le ingiustizie hanno la destra colma di doni, e perché

Se non avrai portato nella, andrai, Omero, fuori.

Dicono che il papa è il signore di tutte le chiese e che gli è concesso sradicare e distruggere, edificare e piantare, ed affermano che egli li ha designati giusti possessori del bottino. Se questo è un motivo, l’ho già sentito da qualche parte. I nobili del Limosino negavano al loro signore, il re inglese, i tributi ed i servizi che gli spettavano; allora il re condusse lì l’esercito e fece devastare ogni cosa. Alcuni, avendone pietà, risparmiavano i poveri, ma altri, cui piaceva l’ingiustizia, depredavano tutto, dicendo: “Non si tratta di rapina, né di violenza, ma serve alla pace e all’obbedienza quello che compiamo. La terra è del nostro signore il re, noi siamo i suoi braccianti; questa è la nostra paga. Sono biasimevoli quelli che si oppongono ingiustamente al re, mentre siamo benemeriti noi che fatichiamo per obbedire ai suoi ordini”. Non è forse questo il discorso di coloro che si appropriano delle decime, che chiamano se stessi Ebrei., e noi Egizi, se stessi figli della luce, noi delle tenebre? Noi certo ci confessiamo indegni di ogni bene piangendo, e sappiamo che il nostro maestro mangia con pubblicani e peccatori; e non viene a chiamare i giusti ma i peccatori; pentiamoci e preghiamolo per ottenere il suo perdono. Dal momento che non è lecito far violenza nemmeno ai selvaggi, né costringerli a credere, come si possono disprezzare e spogliare coloro che Dio accetta? Il nostro Dio non guarda con indifferenza un cuore contrito ed affranto. Egli che ella sua grazia dice: “E’ maggiore la gioia per un solo peccatore che si pente, che per novantanove giusti, i quali non han bisogno di penitenza”. Il nostro Dio chiama ed accoglie i peccatori, costoro li disprezzano e li cacciano via; quello che andò da Lui non fu cacciato via, questi allontanano chiunque vada da loro. Di costoro dice la Verità: “Dai loro frutti li conoscerete”; sentiamo quali sono i loro buoni frutti.
Anzitutto, hanno le mani aperte per i poveri, ma poco; distribuiscono e danno, ma non risollevano, poiché ciascuno riceve un piccolo aiuto, e siccome non danno in proporzione alla propria disponibilità né in proporzione al bisogno dei poveri, sembra che dispensino con la sinistra, non con la destra. Però, in realtà, anche se fanno ogni cosa spontaneamente, senza affettazione, agli occhi di Dio non compenseranno mai quanti hanno depredato, poiché dei loro conventi non ce n’è uno, o soltanto pochi, che non abbia creato più poveri di quanto ne soccorra. Possono essere ospitali gli uni con gli altri, tra di loro cioè, senza brontolii, ma non verso di noi, Signore Dio nostro, non eros di noi. A coloro ce accolgono per paura del loro potere o per spillare denaro cercano di rendersi amabili con tutto lo splendore della cucina, e mostrano volti sorridenti e rivolgono parole garbate; a prono a loro beneficio le proprie tasche con tanta disponibilità e gentilezza, profondono i loro beni con tanta semplicità e spontaneità che si crederebbe che siano angeli, on uomini, ed allontanandosi si canterebbero le loro lodi. Noi invece, Egizi e vagabondi, che siamo accettati solo per amor di Dio, che non alleghiamo altro che la nostra richiesta di carità, non vi possiamo tornare più fin tanto che da qualche altra parte non si sia aperta una porta o una borsa, qualcosa che possa fornire una garanzia per noi. Dopo gli inni vespertini nessuno di noi è invitato, o condotto, o autorizzato ad entrare nell’ostello, quando invece è proprio dopo una lunga giornata che si desidera riposo e ristoro, ed un rifiuto è più sgradito. Per quanto riguarda le loro vesti, il cibo e l’assiduo lavoro, le persone con cui essi sono affabili (perché non possono loro nuocere in alcun modo) sostengono che le vesti sono insufficienti a difenderli dal freddo, che il cibo non basta a saziarli, mentre la mole di lavoro è immensa; ed in questo modo vogliono convincermi che non sono avidi, per il fatto che i loro introiti non sono impiegati ad assicurare loro comodità. Ma quanto è facile una risposta! Gli usurai e gli altri schiavi dell’avarizia non si vestono forse poveramente e non si alimentano frugalmente? Gli avari, in punto di morte, si gettano addirittura sui loro tesori; non accumulano le ricchezze per godere raffinatezze ma per compiacersene, non per servirsene ma per conservarle. Se parliamo di lavoro, di freddo, di cibo inadeguato, i Gallesi sono quello maggiormente afflitti da tutte queste cose; i Cistercensi hanno molte tuniche, quelli nessuna, questi non hanno pellicce, quelli neanche; questi non usano lino e quelli non usano lana, a parte certi mantelli corti e semplici; questi hanno calzari e stivali, quelli camminano a piedi e gambe nudi; questi non mangiano carne, e quelli nemmeno il pane; questi fanno l’elemosina, quelli non hanno a chi farla, dato che tra di loro il cibo è bene comune, nessuno lo chiede ma chiunque può prenderlo senza divieti. I Gallesi tuttavia fanno prigionieri ed uccidono uomini con minor vergogna e maggior violenza rispetto ai Cistercensi; essi sono sempre sotto le tende o sotto il cielo aperto, i Cistercensi se la godono in palazzi d’avorio.