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Discorsi alla nazione - Barack Obama


Introduce Gian Mario Anselmi e Mario Del Pero   
lunedì 22 dicembre 2008
Nel marzo scorso, Barack Obama intervenne con un importante discorso nel dibattito apertosi in seguito alla divulgazione di alcuni controversi interventi tenuti dal pastore della sua chiesa di Chicago, il reverendo Jeremiah Wright. Nel suo discorso, Obama affrontò in maniera sofisticata e non convenzionale la questione razziale e il peso che ancor oggi ha nella società e nella politica statunitense, mettendo la propria improbabile storia al centro della scena e presentandola come la biografia potenziale della nazione che egli si candidava a guidare. Una nazione-Unione di stati che non può rimuovere il proprio passato, ma che non può nemmeno accettare che esso sia costantemente brandito per alimentare vecchie e nuove divisioni, a partire, appunto, da quella razziale. «Siamo molti, ma siamo un solo popolo», così Obama conclude il discorso fatto a caldo dopo la vittoria elettorale del 4 novembre scorso, una sorta di manifesto politico, destinato a passare alla storia, sapientemente intessuto di motivi umanistici di lunga durata. Incroceranno sui testi i loro sguardi, da prospettive diverse, l’italianista Gian Mario Anselmi e lo storico Mario Del Pero, vecchi e nuovi amici della Bottega dell’Elefante.


Discorso tenuto a Philadelphia (Pennsylvania) il 18 marzo 2008.


We the people, in order to form a more perfect union
("Noi gente per formare un’unione migliore")


Duecentoventuno anni fa, in una sala che esiste tutt’ora, dall’altra parte della strada, un gruppo di uomini si riunì e, con queste semplici parole, lanciò l’improbabile esperimento democratico in America. Contadini e studiosi; uomini di stato e patrioti che avevano attraversato l’oceano per sfuggire la tirannia e la persecuzione, fecero finalmente la loro dichiarazione d’indipendenza ad un convegno a Philadelphia, che durò tutta la primavera del 1787.
Il documento prodotto fu alla fine firmato ma nella sostanza rimase incompiuto. Era macchiato dal peccato originale di questa nazione, cioè dalla schiavitù, una questione che divise le colonie e portò il convegno ad un punto morto, finché i fondatori non scelsero di permettere la continuazione del mercato degli schiavi per almeno altri vent’anni, e di lasciare una eventuale risoluzione alle generazioni successive.
Chiaramente, la risposta alla questione della schiavitù era già stata inclusa nella nostra Costituzione – una Costituzione basata sull’ideale della pari cittadinanza sotto la legge; una Costituzione che prometteva al suo popolo la libertà, la giustizia ed un’unione che poteva e doveva essere perfezionata nel tempo.
Eppure parole scritte su una pergamena non sarebbero state sufficienti per liberare gli schiavi dalle loro catene, o per garantire ad ogni uomo e donna di qualunque colore e credo pieni diritti e doveri come cittadini degli Stati Uniti. Quello che fu necessario furono gli americani delle generazioni successive, pronti a fare la loro parte – grazie a lotte e proteste, nelle strade e nei tribunali, con una guerra civile e la disobbedienza, sempre a costo di grandi rischi – per colmare la distanza tra la promessa dei nostri ideali e la realtà del loro tempo.
Questo è stato uno degli obiettivi che ci siamo posti all’inizio di questa campagna – di proseguire la lunga marcia di chi è venuto prima di noi, una marcia per un’America più giusta, più uguale, più libera, più altruista e più ricca. Ho scelto di presentarmi alla candidatura presidenziale in questo momento della storia perché credo fortemente che le sfide dei nostri tempi si possono risolvere solo se le risolviamo insieme – solo se perfezioniamo la nostra unione capendo che possiamo avere storie diverse, ma abbiamo speranze in comune; che possiamo sembrare diversi e provenire da posti diversi, ma vogliamo tutti muovere nella stessa direzione – verso un futuro migliore per i nostri figli e nipoti.
Questa convinzione nasce dalla mia piena fiducia nella dignità e generosità del popolo americano, ma anche dalla mia esperienza di americano.
Sono figlio di un uomo nero del Kenya ed una donna bianca del Kansas. Sono cresciuto grazie all’aiuto di un nonno bianco che superò la ‘Depressione’ combattendo nell’esercito di Patton durante la Seconda Guerra Mondiale, e grazie ad una nonna bianca che lavorò in una fabbrica di bombe a Fort Leavenworthe mentre suo marito era oltreoceano. Ho frequentato alcune delle migliori scuole negli USA e, paradossalmente, sono vissuto anche in uno degli stati più poveri. Sono sposato con una nera Americana che porta in sé il sangue di generazioni di schiavi e il sangue dei loro padroni – un’eredità che tramandiamo alle nostre preziose figlie. Ho dei fratelli e sorelle, nipoti, zii e cugini di tutte le razze e classi sociali, sparsi in tre continenti e finchè vivrò, non mi stancherò mai di ribadire che in nessun’ altra nazione al mondo la mia storia sarebbe stata possibile.
Questa mia storia non mi ha reso il candidato più convenzionale. Ma è una storia che ha impresso nel mio dna l’idea che questa nazione è più che una somma delle sue parti; presi tutti insieme, siamo un’entità unica.
[…]

Abbiamo sentito le parole del mio ex-pastore, il Reverendo Jeremiah Wright, che usa un linguaggio provocatorio per esprimere idee che potrebbero non solo aumentare la divisione razziale, ma anche denigrare tanto la grandezza quanto la bontà della nostra nazione; offendendo bianchi e neri in egual modo.
Ho già condannato, in termini inequivocabili, le affermazioni del Reverendo Wright, causa di tanta controversia. Per alcuni rimangono delle questioni sospese. Sapevo che il reverendo era un critico feroce della politica estera ed interna americana? Certamente. Ho mai sentito delle affermazioni considerate controverse mentre stavo seduto in Chiesa? Si. Ero fortemente in disaccordo con molte sue idee politiche? Assolutamente – proprio come sono sicuro che molti di voi avete ascoltato i discorsi dei vostri pastori, preti o rabbini trovandovi profondamente in disaccordo.
Ma i commenti che hanno causato la recente pioggia di fuoco non erano solo causa di polemiche. Non erano nemmeno dettati dalla volontà di una figura religiosa ad esprimere un’opinione contro l’ingiustizia. Anzi, esprimono una visione estremamente distorta di questa Nazione – una visione che definisce il razzismo bianco come endemico, elevando il peggio dell’America sopra a tutto ciò che sappiamo giusto in America; una visione secondo la quale il conflitto in Medio Oriente sarebbe radicato principalmente nelle azioni di alleati fedeli come Israele, invece che essere una opportunità di scacciare da lì le perverse ed odiose ideologie appartenenti all’Islam radicale.
In quanto tali, i commenti del Reverendo Wright erano sia errati che disgregativi, origini di divisioni in un momento in cui abbiamo bisogno di unità; carichi di razzismo quando abbiamo bisogno di metterci assieme e risolvere una serie di problemi poderosi – due guerre, la minaccia di terrorismo, un’economia in declino, la crisi cronica del sistema sanitario e un cambiamento climatico potenzialmente devastante; problemi che non sono né neri né bianchi né ispanici o asiatici, ma piuttosto problemi che riguardano tutti.
Visto il mio retroscena, le mie politiche, i miei valori ed ideali professati, senza dubbio ci sarà chi troverà insufficiente la mia presa di distanza dalle affermazioni del reverendo. Perché mai mi sono unito al Reverendo Wright, si chiederanno? Perché non frequentare un’altra Chiesa? Confesso che se io conoscessi il reverendo Wright solamente attraverso gli stralci di sermoni trasmessi a ripetizione in televisione e su You Tube, o se la Trinity United Church of Christ fosse effettivamente quella caricatura descritta dai commentatori, non vi è alcun dubbio che reagirei di conseguenza.
Ma la verità è che la mia conoscenza di quest’uomo va oltre. Il reverendo che conobbi più di vent’anni fa è l’uomo che mi ha introdotto alla mia fede cristiana, un uomo che m’insegnò il valore dell’amore e il dovere ad assistere malati e poveri.
[…]
Nel mio primo libro, Dreams from my father, ho descritto l’esperienza durante la mia prima messa al Trinity:
«Le persone si misero ad urlare, alzandosi dalle loro sedie, battendo le mani e invocando, mentre un vento forte trasportava la voce del reverendo fino alle travi…. in una sola parola – speranza! – ho percepito dell’altro; al piede di quella croce, nelle migliaia di Chiese sparse per la città, ho immaginato le storie di semplici persone di colore che si fondevano con le storie di Davide e Golia, Mosè e il Faraone, i Cristiani nella fossa dei leoni, le ossa di Ezechiele. Quelle storie – di sopravvivenza, di libertà, di speranza – diventavano la nostra storia, la mia storia; il sangue versato era il nostro, le lacrime le nostre lacrime; fino a quando, in quella splendida giornata, quella chiesa nera mi apparve piuttosto un veliero in grado di trasportare la storia di un popolo alle generazioni future e ad un mondo più ampio. Le nostre disgrazie e i nostri trionfi diventavano unici ed universali, al di là del colore della pelle; nel narrare il nostro cammino, e attraverso le storie e il canto, ci siamo riappropriati di una memoria storica senza doverci più vergognare….un passato che tutti possono studiare ed apprezzare – e col quale potremmo dar vita ad una ricostruzione».
Questa è stata la mia esperienza al Trinity. Come altre chiese nere di questa nazione, il Trinity incarna la comunità nera nella sua totalità – il dottore e la mamma a carico dello stato, lo studente modello e l’ex gangster. Le messe al Trinity, come in altre chiese nere, si distinguono per risate fragorose e umorismo. Sono piene di balli, applausi, invocazioni ed entusiasmo partecipe che può turbare un orecchio non avvezzo. La Chiesa raccoglie in sé la gentilezza e la crudeltà, l’intelligenza feroce e l’ignoranza sconcertante, le sfide ed i successi, l’amore e, sì, anche l’amarezza ed il pregiudizio che fa parte dell’esperienza neroamericana.
Tutto questo, forse, aiuta a comprendere il mio rapporto con il Reverendo Wright. Per quanto imperfetto possa apparire, egli è stato come una famiglia per me. Ha rafforzato la mia fede, ufficializzato il mio matrimonio e battezzato i miei figli.
[…]
Io credo che la razza sia una questione che questa nazione non si può permettere d’ignorare. Sarebbe come commettere lo stesso errore che il Reverendo Wright fa nei suoi sermoni offensivi sull’America – che banalizzano e stereotipano la realtà, amplificandone il lato negativo.
I commenti e le questioni venute a galla nelle ultime due settimane riflettono le complessità di questo paese legate alla razza, che non abbiamo risolto – una parte della nostra nazione che dobbiamo ancora perfezionare.
[…]

Ma la rabbia è reale; è viva; e aspettarsi che svanisca, condannarla senza comprenderne le sue radici, favorisce l’incomprensione che esiste tuttora tra le razze.
Di fatto, una rabbia simile esiste anche in segmenti della comunità bianca. La maggioranza di bianchi americani di ceto medio basso non si sente privilegiato dalla sua razza. La loro esperienza è l’esperienza dell’"immigrato" – per quanto li riguarda, nessuno ha regalato loro niente, si sono costruiti tutto da zero. Hanno lavorato sodo per tutta la vita, spesso per vedere il loro lavoro trasferito all’estero o la loro pensione annullata dopo una vita di stenti. Sono preoccupati per il loro futuro, hanno l’impressione che i loro sogni svaniscano. In un’epoca di salari fissi e competizione globale, l’opportunità viene vista come una partita a punteggio nullo, dove i propri sogni si realizzano a proprie spese. […]
Così come la rabbia dei neri si è spesso mostrata controproducente, i risentimenti bianchi ci hanno distratto dalle vere cause della contrazione della classe media – discordie aziendali interne, pratiche di rendicontazione discutibili, avidità a breve termine ed una Washington dominata da lobbisti, interessi particolari e politiche economiche che favoriscono una minoranza rispetto alla maggioranza. Ma se liquidiamo il risentimento dei bianchi americani, etichettandolo come mal indirizzato o razzista senza riconoscerne le cause legittime – anche questo incrementa la divisione razziale e blocca il cammino verso la comprensione.
La situazione in cui ci troviamo adesso è questa, uno stallo della questione razziale in cui siamo bloccati da anni. Contrariamente alle constatazioni di alcuni miei critici, sia bianchi che neri, non sono mai stato così ingenuo da credere che si possano superare le divisioni razziali in una singola tornata elettorale e neanche in un solo mandato presidenziale – soprattutto in un mandato imperfetto come sarebbe il mio.
Ma ho un profondo convincimento – un convincimento radicato nella mia fede in Dio e nella fede nel popolo americano – che lavorando assieme possiamo andare oltre i vecchi rancori razziali, e che quindi non abbiamo altra scelta che continuare sul cammino per un’unione migliore.
Per la comunità afro-americana, questo cammino verso il futuro significa abbracciare il peso del nostro passato senza diventarne vittime. Significa continuare a battersi continuamente per una piena giustizia in ogni aspetto della vita americana. Ma significa anche legare le nostre rimostranze – per avere un servizio sanitario migliore, scuole migliori, lavori migliori – alle aspirazioni di tutti gli americani – la donna bianca che si sforza di rompere il tetto di vetro, l’uomo bianco licenziato, l’immigrato che prova a dare da mangiare alla propria famiglia. Questo significa assumersi le proprie responsabilità – chiedendo di più ai nostri padri e passando più tempo coi nostri figli, e leggere e insegnare loro che anche se affronteranno sfide e discriminazioni nella loro vita, non dovranno mai soccombere alla disperazione o al cinismo; essi dovranno sempre credere di essere autori del loro destino. […]
Il grave errore dei sermoni del Reverendo Wright non è che egli parlò di razzismo nella nostra società. Ma piuttosto che ne parlò come se la nostra società fosse statica; come se il progresso non fosse avvenuto; come se questa nazione – una nazione che ha reso vera la possibilità che un semplice cittadino possa correre per la carica più alta del nostro paese e costruire una coalizione di bianchi e neri, ispanici ed asiatici, ricchi e poveri, giovani e vecchi – fosse ancora inevitabilmente legata ad un passato tragico. Ma quello che sappiamo – quello che abbiamo visto – è che l’America può cambiare. Questo è il vero spirito di questa nazione. Quello che abbiamo già conquistato ci dà speranza – l’audacia di sperare – per ciò che possiamo e dobbiamo realizzare domani.

(traduzione di Giorgia Ferro e Sonia Ter Hovanessian)

Discorso tenuto a Chicago il 4 novembre 2008
«Abbiamo fatto tanta strada. Questa vittoria appartiene a voi»

Ciao Chicago!
Se ancora c’è qualcuno che dubita che l’America non sia un luogo nel quale nulla è impossibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è tuttora vivo in questa nostra epoca, che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava.
La risposta sono le code che si sono allungate fuori dalle scuole e dalle chiese con un afflusso che la nazione non aveva mai visto finora. La risposta sono le persone, molte delle quali votavano per la prima volta, che hanno atteso anche tre o quattro ore in fila perché credevano che questa volta le cose dovessero andare diversamente, e che la loro voce potesse fare la differenza. La risposta è la voce di giovani e vecchi, ricchi e poveri, Democratici e Repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d’America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili: tutti americani che hanno inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati un insieme di Stati Rossi e Stati Blu. Noi siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America. La risposta è ciò che ha spinto a farsi avanti coloro ai quali per così tanto tempo è stato detto da così tante persone di essere cinici, impauriti, dubbiosi di quello che potevano ottenere mettendo di persona mano alla Storia, per piegarla verso la speranza di un giorno migliore. È occorso molto tempo, ma stanotte, finalmente, in seguito a ciò che abbiamo fatto oggi, con questa elezione, in questo momento preciso e risolutivo, il cambiamento è arrivato in America.
Poco fa, questa sera ho ricevuto una telefonata estremamente cortese dal Senatore McCain. Il Senatore McCain ha combattuto a lungo e con forza in questa campagna, e ha combattuto ancora più a lungo e con maggiore forza per il Paese che ama. Ha affrontato sacrifici per l’America che la maggior parte di noi nemmeno immagina e noi oggi stiamo molto meglio anche grazie al servizio reso da questo leader coraggioso e altruista. Mi congratulo con lui e con la governatrice Palin per tutto quello che hanno ottenuto, e non vedo l’ora di lavorare con loro per rinnovare nei prossimi mesi la promessa di questa nazione.
Voglio qui ringraziare il mio partner in questa avventura, un uomo che ha fatto campagna elettorale col cuore, parlando per le donne e gli uomini con i quali è cresciuto nelle strade di Scranton, con i quali ha viaggiato da pendolare ogni giorno per tornare a casa propria nel Delaware, il vice-presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden. Io non sarei qui questa sera senza il sostegno continuo della mia migliore amica degli ultimi sedici anni, la roccia della mia famiglia, l’amore della mia vita, la prossima first lady della nazione Michelle Obama. Sasha and Malia, vi amo entrambe moltissimo e vi siete guadagnate il cucciolo che verrà con noi alla Casa Bianca... E mentre siamo qui e lei non è più con noi, so che mia nonna ci sta guardando, insieme a tutta la famiglia che ha fatto di me ciò che io sono. In questa sera così unica mi mancano tutti, e so che il mio debito verso di loro non è neppure quantificabile. A mia sorella Maya, mia sorella Alma, tutti i miei fratelli e le mie sorelle, voglio dire grazie per il sostegno che mi avete dato. Vi sono veramente molto grato.
Al manager della mia campagna David Plouffe, il protagonista senza volto di questa campagna che ha messo insieme la migliore campagna elettorale – credo – nella Storia degli Stati Uniti d’America. Al mio capo stratega David Axelrod che è stato mio partner in ogni fase di questo lungo cammino... proprio il miglior team di una campagna elettorale mai messo insieme nella storia della politica... Voi avete reso possibile tutto ciò, e io vi sarò eternamente grato per i sacrifici che avete affrontato per riuscirci.
Ma più di ogni altra cosa, non dimenticherò mai a chi appartiene veramente questa vittoria: appartiene a voi. Io non sono mai stato il candidato più ideale per questa carica. Non abbiamo mosso i primi passi nella campagna elettorale con finanziamenti o appoggi ufficiali. La nostra campagna non è stata pianificata nelle grandi sale di Washington, ma nei cortili di Des Moines, nei tinelli di Concord, sotto i portici di Charleston. È stata realizzata da uomini e donne che lavorano, che hanno attinto ai loro scarsi risparmi messi da parte per offrire cinque dollari, dieci dollari, venti dollari alla causa. Il movimento ha preso piede e si è rafforzato grazie ai giovani, che hanno rigettato il mito dell’apatia della loro generazione, che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per un’occupazione che offriva uno stipendio modesto e sicuramente poche ore di sonno; ai non più tanto giovani che hanno sfidato il freddo pungente e il caldo più soffocante per bussare alle porte di perfetti sconosciuti; ai milioni di americani che si sono adoperati come volontari, si sono organizzati, e hanno dimostrato che a distanza di oltre due secoli, un governo del popolo, fatto dal popolo e per il popolo non è sparito dalla faccia di questa Terra. Questa è la vostra vittoria. So che quello che avete fatto non è soltanto vincere un’elezione e so che non l’avete fatto per me. Lo avete fatto perché avete compreso l’enormità del compito che ci sta di fronte. Perché anche se questa sera festeggiamo, sappiamo che le sfide che il futuro ci presenterà sono le più ardue della nostra vita: due guerre, un pianeta in pericolo, la peggiore crisi finanziaria da un secolo a questa parte. Anche se questa sera siamo qui a festeggiare, sappiamo che ci sono in questo stesso momento degli americani coraggiosi che si stanno svegliando nei deserti iracheni, nelle montagne dell'Afghanistan dove rischiano la loro vita per noi.
Ci sono madri e padri che resteranno svegli dopo che i loro figli si saranno addormentati e si arrovelleranno chiedendosi se ce la faranno a pagare il mutuo o il conto del medico o a mettere da parte abbastanza soldi per pagare il college. Occorre trovare nuova energia, creare nuovi posti di lavoro, costruire nuove scuole. Occorre far fronte a nuove sfide e rimettere insieme le alleanze.
La strada che ci si apre di fronte sarà lunga. La salita sarà erta. Forse non ci riusciremo in un anno e nemmeno in un solo mandato, ma America! Io non ho mai nutrito maggiore speranza di quanta ne nutro questa notte qui insieme a voi. Io vi prometto che noi come popolo ci riusciremo! Ci saranno battute d’arresto e false partenze. Ci saranno molti che non saranno d’accordo con ogni decisione o ogni politica che varerò da Presidente e già sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarò sempre onesto con voi in relazione alle sfide che dovremo affrontare. Vi darò ascolto, specialmente quando saremo in disaccordo. E soprattutto, vi chiedo di unirvi nell’opera di ricostruzione della nazione nell’unico modo con il quale lo si è fatto in America per duecentoventi anni, ovvero mattone dopo mattone, un pezzo alla volta, una mano callosa nella mano callosa altrui. Ciò che ha avuto inizio ventuno mesi fa, nei rigori del pieno inverno, non deve finire in questa notte autunnale. La vittoria in sé non è il cambiamento che volevamo, ma è soltanto l’opportunità per noi di procedere al cambiamento. E questo non potrà accadere se faremo ritorno allo stesso modus operandi.
Il cambiamento non può aver luogo senza di voi. Troviamo e mettiamo insieme dunque un nuovo spirito di patriottismo, di servizio e di responsabilità, nel quale ciascuno di noi decida di darci dentro, di lavorare sodo e di badare non soltanto al benessere individuale, ma a quello altrui. Ricordiamoci che se mai questa crisi finanziaria ci insegna qualcosa, è che non possiamo avere una Wall Street prospera mentre Main Street soffre: in questo Paese noi ci eleveremo o precipiteremo come un’unica nazione, come un unico popolo. Resistiamo dunque alla tentazione di ricadere nelle stesse posizioni di parte, nella stessa meschineria, nella stessa immaturità che per così tanto tempo hanno avvelenato la nostra politica. Ricordiamoci che c’è stato un uomo proveniente da questo Stato che ha portato per la prima volta lo striscione del partito Repubblicano alla Casa Bianca, un partito fondato sui valori della fiducia in sé, della libertà individuale, dell’unità nazionale. Sono questi i valori che abbiamo in comune e mentre il partito Democratico si è aggiudicato una grande vittoria questa notte, noi dobbiamo essere umili e determinati per far cicatrizzare le ferite che hanno finora impedito alla nostra nazione di fare passi avanti. Come Lincoln disse a una nazione ancora più divisa della nostra, «Noi non siamo nemici, ma amici, e anche se le passioni possono averlo allentato non dobbiamo permettere che il nostro legame affettivo si spezzi». E a quegli americani il cui supporto devo ancora conquistarmi, dico: forse non ho ottenuto il vostro voto, ma sento le vostri voci, ho bisogno del vostro aiuto e sarò anche il vostro presidente.
A coloro che ci guardano questa sera da lontano, da oltre i nostri litorali, dai parlamenti e dai palazzi, a coloro che in vari angoli dimenticati della Terra si sono ritrovati in ascolto accanto alle radio, dico: le nostre storie sono diverse, ma il nostro destino è comune e una nuova alba per la leadership americana è ormai a portata di mano. A coloro che invece vorrebbero distruggere questo mondo dico: vi sconfiggeremo. A coloro che cercano pace e tranquillità dico: vi aiuteremo. E a coloro che si chiedono se la lanterna americana è ancora accesa dico: questa sera noi abbiamo dimostrato ancora una volta che la vera forza della nostra nazione non nasce dalla potenza delle nostre armi o dal cumulo delle nostre ricchezze, bensì dalla vitalità duratura dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e tenace speranza. Perché questo è il vero spirito dell’America: l’America può cambiare. La nostra unione può essere realizzata. E quello che abbiamo già conseguito deve darci la speranza di ciò che possiamo e dobbiamo conseguire in futuro.
In queste elezioni si sono viste molte novità e molte storie che saranno raccontate per le generazioni a venire. Ma una è nella mia mente più presente di altre, quella di una signora che ha votato ad Atlanta. Al pari di molti altri milioni di elettori anche lei è stata in fila per far sì che la sua voce fosse ascoltata in questa elezione, ma c'è qualcosa che la contraddistingue dagli altri: Ann Nixon Cooper ha 106 anni. È nata a una sola generazione di distanza dalla fine della schiavitù, in un’epoca in cui non c’erano automobili per le strade, né aerei nei cieli. A quei tempi le persone come lei non potevano votare per due ragioni fondamentali, perché è una donna e per il colore della sua pelle. Questa sera io ripenso a tutto quello che lei deve aver visto nel corso della sua vita in questo secolo in America, alle sofferenze e alla speranza, alle battaglie e al progresso, a quando ci è stato detto che non potevamo votare e alle persone che invece ribadivano questo credo americano: Yes, we can. Nell’epoca in cui le voci delle donne erano messe a tacere e le loro speranze soffocate, questa donna le ha viste alzarsi in piedi, alzare la voce e dirigersi verso le urne. Yes, we can. Quando c’era disperazione nel Dust Bowl e depressione nei campi, lei ha visto una nazione superare le proprie paure con un New Deal, nuovi posti di lavoro, un nuovo senso di ideali condivisi. Yes, we can. Quando le bombe sono cadute a Pearl Harbor, e la tirannia ha minacciato il mondo, lei era lì a testimoniare in che modo una generazione seppe elevarsi e salvare la democrazia. Yes, we can. Era lì quando c’erano gli autobus di Montgomery, gli idranti a Birmingham, un ponte a Selma e un predicatore di Atlanta che diceva alla popolazione : «Noi supereremo tutto ciò». Yes, we can. Un uomo ha messo piede sulla Luna, un muro è caduto a Berlino, il mondo intero si è collegato grazie alla scienza e alla nostra inventiva. E quest'anno, per queste elezioni, lei ha puntato il dito contro uno schermo e ha votato, perché dopo 106 anni in America, passati in tempi migliori e in ore più cupe, lei sa che l'America può cambiare. Yes, we can.
America, America: siamo arrivati così lontano. Abbiamo visto così tante cose. Ma c’è molto ancora da fare. Quindi questa sera chiediamoci: se i miei figli avranno la fortuna di vivere fino al prossimo secolo, se le mie figlie dovessero vivere tanto a lungo quanto Ann Nixon Cooper, a quali cambiamenti assisteranno? Quali progressi avremo fatto per allora? Oggi abbiamo l'opportunità di rispondere a queste domande. Questa è la nostra ora. Questa è la nostra epoca: dobbiamo rimettere tutti al lavoro, spalancare le porte delle opportunità per i nostri figli, ridare benessere e promuovere la causa della pace, reclamare il Sogno Americano e riaffermare quella verità fondamentale: siamo molti ma siamo un solo popolo. Viviamo, speriamo, e quando siamo assaliti dal cinismo, dal dubbio e da chi ci dice che non potremo riuscirci, noi risponderemo con quella convinzioni senza tempo e immutabile che riassume lo spirito del nostro popolo: Yes, We Can. Grazie. Dio vi benedica e possa benedire gli Stati Uniti d'America.

(Traduzione di Anna Bissanti)