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Delusione - Thomas Mann



Introduce Vittorio Franceschi   
lunedì 15 dicembre 2008
Già interprete protagonista dell’omonimo mediometraggio presentato al Festival di Locarno 2001 per la regia di Nuccio Ambrosino, Vittorio Franceschi, fresco di «Nettuno d’Oro», regala alla Bottega dell’Elefante la lettura di Delusione (Enttäuschung), densissimo quadretto impressionistico composto da Paul Thomas Mann nella giovane età di ventun anni (1896) che dipinge il tormento d’un genere umano perseguitato dai propri stessi limiti, in un tempo in cui il mondo è destinato ad essere vitalmente deluso dalla propria stessa morte.«[Il poeta] era ancora in grado di comporre, nella solitaria dedizione alla descrizione della spaventosa immoralità della nostra società: ma la profonda oscurità, in cui le sue stesse raffigurazioni lo gettavano, ha spazzato via ogni piacere di contemplazione poetica nella quale egli potrebbe oggi giorno deludersi sempre meno; essa lo ha spinto fuori verso la nuda realtà, laddove lottare per quello che oggi è riconosciuto come il vero Bisogno della società umana» [Richard Wagner, Oper und Drama, LXXVI, 1851].Alla lettura seguirà la proiezione del mediometraggio, così da poter confrontare lo stesso interprete alle prese con lo stesso testo, ma attraverso media e linguaggi differenti.


Thomas Mann, Cane e padrone e altri racconti, Torino, Einaudi 1980, trad. Clara Bovero
Delusione
(Titolo originale Enttäuschung)
Confesso che i discorsi di quell’originale mi sconvolsero; e neanche ora, temo, sarò in grado di ripeterli in modo che impressionino gli altri come impressionarono me quella sera.
Forse il loro effetto dipendeva soltanto dalla sorprendente schiettezza con cui me li espose uno sconosciuto.
Lo vidi circa due mesi fa, una mattina d’autunno, in piazza San Marco. C’era poca gente nella vasta piazza, ma le bandiere garrivano alla lieve brezza marina davanti al meraviglioso edificio variopinto; gli opulenti contorni fiabeschi e gli ornamenti d’oro risaltavano mirabilmente chiari su un delicato cielo azzurro; proprio davanti al portale maggiore, intorno a una fanciulla che spargeva granturco, s’era raccolto un enorme branco di piccioni, mentre altri, ancor più numerosi, accorrevano fa ogni parte: uno spettacolo incomparabile, di una bellezza fulgida e festosa.
L’incontrai allora, e, mentre scrivo, l’ho davanti agli occhi con straordinaria chiarezza. Era di statura appena media e camminava in fretta, curvo, tenendosi con le due mani la canna sul dorso. Portava una bombetta nera, un chiaro soprabito estivo e pantaloni a righe scure. Non so perché, lo presi per un inglese. Poteva avere trent’anni come cinquanta. Il volto, col naso un po’ grosso e due occhi grigi dallo sguardo vuoto, era perfettamente glabro; e sulle labbra gli guizzava di continuo un sorriso inesplicabile e un po’ ottuso. Ogni tanto, inarcava le sopracciglia, volgeva intorno uno sguardo indagatore, poi fissava di nuovo gli occhi a terra, diceva qualche parola tra sé e sé, scoteva il capo e sorrideva. Andava su e giù per la piazza, senza requie.
Da allora lo osservai ogni giorno, perché pareva non avesse altro da fare che andar su e giù per la piazza, trenta, cinquanta volte, col buono e col cattivo tempo, mattina e pomeriggio, sempre solo e sempre con quello strano contegno.
Quella sera, una banda militare aveva dato un concerto. Io ero seduto a uno di quei tavolini, che il caffè Florian dispone sulla piazza; finito il concerto, la folla, che sino a quel momento era andata su e giù ondeggiando fitta, cominciò a disperdersi; e lo sconosciuto, sorridendo come sempre con aria distratta, prese posto a un tavolino che s’era fatto libero accanto al mio. Passò il tempo; il silenzio si fece sempre più profondo e i tavolini intorno a noi era già tutti vuoti; ogni tanto s’avvicinava lemme lemme qualche ritardatario; una pace maestosa avvolgeva la piazza, il cielo si era coperto di stelle e sulla splendida teatrale facciata di San Marco brillava il mezzo disco della luna.
Io leggevo il mio giornale voltando a schiena al mio vicino, e stavo per lasciarlo solo quando fui costretto a volgermi a mezzo verso di lui; perché, mentre sino allora non gli avevo sentito fare un solo movimento, egli di punto in bianco si mise a parlare.
- È a Venezia per la prima volta, signore? – domandò in cattivo francese; e, quando mi sforzai di rispondergli in inglese, proseguì in un tedesco dialettale, con una voce bassa e roca, che cercava di schiarire tossicchiando:
- Tutto questo, lo vede per la prima volta? Ed è pari alla sua aspettativa? – Forse persino la supera? – Ah! non l’aveva immaginato più bello? – Davvero? – Non lo dice soltanto per apparire invidiabile e felice? – Ah! – S’appoggiò all’indietro e mi osservò ammiccando con un’espressione indefinibile.
La pausa che subentrò durò a lungo, e, non sapendo come continuare quella strana conversazione, stavo di nuovo per alzarmi quando egli si sporse precipitosamente in avanti.
- Sa, signore, che cos’è la delusione? – domandò a voce bassa e penetrante, mentre s’appoggiava alla sua canna con ambo le mani. – Non un insuccesso parziale, non un colpo fallito, ma la grande completa delusione, la delusione, che procurano tutte le cose, tutta la vita? Certo non la conosce. Ma io me la sono trascinata con me sin dalla fanciullezza, e mi ha reso solitario, infelice e anche un po’ strambo, non lo nego.
- Come potrebbe capirmi, signore? Ma forse mi capirà, se posso pregarla di ascoltarmi per due minuti. Perché a dirlo si fa presto.
- Mi permetta di ricordare che sono stato allevato in una piccolissima città, in casa di un pastore; nelle stanze linde regnava un patetico ottimismo da eruditi all’antica e vi si respirava una particolare atmosfera di retorica da pulpito, piena di quelle gran parole che servono per il bene e per il male, per il bello e per il brutto: parole che io odio ferocemente, perché esse, e forse esse sole, sono responsabili della mia sofferenza.
-Tutta di paroloni consisteva la mia vita, perché ne conoscevo soltanto i presagi immensi e chimerici, ch’essi suscitavano in me. Aspettavo dagli uomini il bene divino o il male diabolico; aspettavo dalla vita l’entusiasmo e l’orrore; mi struggevo di desiderio e bramavo angosciosamente quella realtà così vasta, l’esperienza, qualunque fosse: la felicità splendida e inebriante, il dolore più atroce ineffabile e imprevedibile.
- Ricordo con malinconica chiarezza la prima delusione della mia vita; e non fu, badi, il fallire di una bella speranza, ma il sopraggiungere di una sventura. Ero quasi un bambino ancora, quando una notte scoppiò un incendio nella mia casa paterna.
- Il fuoco si era propagato in segreto, perfidamente: tutto il piano bruciava, fino alla porta della mia camera, e anche la scala stava per incendiarsi. Me ne accorsi per primo e ricordo che mi diedi a correre per la casa gridando senza tregua: «Brucia! brucia!» Ricordo questa parola con gran precisione e so anche qual sentimento celasse, benchè allora non ne avessi coscienza: «È un incendio, ecco lo vedo coi miei occhi! Non è peggio? È tutto qui?»
- Dio sa che non era una piccolezza: tutta la casa fu ridotta in cenere, noi scampammo a stento all’estremo pericolo e io stesso ne riportai lesioni considerevoli. E mentirei se dicessi che la mia fantasia aveva anticipato gli eventi, dipingendomi a tinte più fosche un incendio della casa paterna. Ma avevo nutrito un vago presentimento, un’idea informe di qualcosa di molto più orribile e in confronto la realtà mi appariva sbiadita. L’incendio fu la mia prima, grande esperienza; una terribile speranza delusa.
- Non tema che continui a raccontarle le mie delusioni una per una. Mi basti dire che, con triste zelo, alimentavo le mie grandiose speranze con una quantità di libri, le opere dei poeti.
Ah, ho imparato ad odiarli, quei poeti, che vorrebbero scrivere le loro gran parole su tutti i muri e dipingerle sulla volta celeste, intingendo un cedro sul Vesuvio! mentre io non posso non sentire ogni parolone come una menzogna o come uno scherno!
-Poeti estatici mi hanno cantato che il linguaggio è povero, ah così povero! Oh no, signore! Il linguaggio secondo me è ricco, straricco in confronto alla meschinità e alla ristrettezza della vita. Il dolore ha i suoi limiti: nell’incoscienza il dolore fisico, quello spirituale nell’apatia; e non altrimenti avviene con la felicità! Ma l’umano bisogno di esprimersi ha inventato suoni che superano questi confini con la menzogna.
- È colpa mia? Soltanto a me l’effetto di certe parole fa correre per la schiena un brivido, che mi fa presagire realtà inesistenti?
- Sono entrato in questa vita tanto celebrata anelando a un’esperienza, una sola, che corrispondesse ai miei grandi presagi. Povero me! non mi è stato concesso! Ho viaggiato in lungo e in largo per visitare le regioni più celebri della terra, mi sono accostato alle opere d’arte, intorno a cui l’umanità tripudia con le sue più gran parole; mi sono fermato là davanti e mi son detto: «Bello. Eppure: non è più bello? è tutto qui?»
- Non ho il senso del reale: questo forse dice tutto. Una volta, non so più in quale parte del mondo, ero sull’orlo di uno stretto profondo burrone, in montagna. Le pareti di roccia cadevano a piombo, nude, e là sotto l’acqua scrosciava sui massi. Guardai nel fondo e pensai: «E se mi buttassi giù?» Ma avevo abbastanza esperienza per rispondermi: «Se lo facessi, cadendo mi direi: Precipiti, è un fatto. Che cos’è, in fondo?»
- Creda, ho vissuto abbastanza per poter dire la mia. Anni fa, amai una ragazza, una creatura delicata e soave, che avrei voluto proteggere e guidar per mano; ma ella non mi amava; nulla di strano, e un altro ebbe il diritto di proteggerla. Ci può essere sofferenza maggiore? C’è qualcosa che sia più tormentoso di questa pena acerba, cui si unisce un’atroce voluttà? Passai molte notti bianche; e più triste, più straziante di ogni altra cosa era pur sempre il pensiero: «Ecco il grande dolore! ora lo provo. Che cos’è, in fondo?»
- È necessario che le parli anche della mia felicità? Anche la felicità ho provato, anche la felicità mi ha deluso. Non è necessario: sono tutti esempi grossolani e non le spiegheranno che mi ha deluso la vita nel suo complesso, la vita nel suo corso meschino, insipido e fiacco: mi ha deluso, deluso, deluso.
- Che cos’è l’uomo, questo semidio tanto celebrato? scrive una volta il giovane Werther. Non gli mancano le forze proprio quando ne ha più bisogno? Si esalti nella gioia o si abbatta nel dolore, non viene in ogni caso fermato, ricondotto all’ottusa, gelida consapevolezza, proprio quando anelava a smarrirsi nell’infinito?
- Penso spesso al giorno in cui vidi il mare per la prima volta. Il mare è grande, il mare è vasto, il mio sguardo spaziava lungi dalla riva e sperava di trovare la libertà: ma in fondo c’era l’orizzonte. Perché ho un orizzonte? Dalla vita io attendevo l’infinito.
- Forse è più ristretto, il mio orizzonte, di quello degli altri uomini! Ho detto che mi manca il senso del reale, o forse ne ho troppo? Mi do per vinto troppo presto? Mi esaurisco troppo presto? Conosco gioia e dolore soltanto in infima misura, soltanto diluiti?
- Non credo; e non credo agli uomini, tanto meno a quelli che, di fronte alla vita, acconsentono ai paroloni dei poeti; viltà e menzogna! Del resto, ha notato, signore, che certi son così vanitosi, così avidi della stima e della segreta invidia altrui, che sostengono di aver provato soltanto i paroloni della felicità, non quelli del dolore?
- È buio, e ormai lei non mi ascolta più; perciò oggi voglio confessare ancora una volta che anch’io, persino io, ho cercato un tempo di mentire insieme con loro, per fingermi felice di fronte a me e di fronte agli altri. Ma da anni questa vanità è crollata; e io sono solo, e infelice, e sono diventato un po’ strambo, non lo nego.
- La mia occupazione preferita è guardare, la notte, il cielo stellato; non è il modo migliore di astrarsi dalla terra, dalla vita? E non è forse perdonabile che io mi sforzi di salvare almeno i miei presagi? di sognare una vita libera, in cui la realtà consista nei mei grandi presagi, senza il residuo tormentoso della delusione? Una vita libera da orizzonti?
- La sogno e aspetto la morte. Ah, la conosco così bene la morte, quest’ultima delusione! «Ecco la morte, - dirò a e stesso nell’istante supremo, ora la provo! che cos’è, in fondo?»
- Ma ormai qui in piazza fa freddo, signore; questo sono in grado di sentirlo, eh eh! La riverisco! Adieu!
(1896)

Vittorio Franceschi
Nell’ottobre scorso la Giunta comunale ha approvato, su proposta del sindaco Sergio Cofferati, il conferimento per l’anno 2008 del premio «Il Nettuno d'Oro» a Vittorio Franceschi. Il premio viene assegnato a cittadini che abbiano onorato con la propria attività professionale e pubblica la città di Bologna. Paolo Bollini, che aveva a lungo auspicato questo riconoscimento per l’amico Vittorio, ne sarebbe felice.
Noi della Bottega dell’Elefante, che abbiamo trovato in Vittorio Franceschi, sin dal 2001, oltre ad un grande professionista, un amico sincero e un appassionato sostenitore della nostra attività, ne riportiamo ora con orgoglio la motivazione:

Vittorio Franceschi, attore, autore, regista teatrale e poeta, è nato a Bologna dove tuttora risiede. Intellettuale intenso e discreto è tra i migliori autori-attori che calcano le scene teatrali italiane. E’ davvero difficile riassumere il fitto e vario percorso artistico, lungo quasi cinquanta anni, nel corso del quale Vittorio Franceschi ha spaziato dal cabaret all’impegno politico, dal monologo alla commedia, e che lo ha visto lavorare come attore nei principali Teatri Stabili italiani (Roma, Genova, Torino, Bologna, Trieste, Bolzano, Palermo e Piccolo di Milano) e all’estero con la Comédie de Genève.
Dopo le prime esperienze di teatro-cabaret all’inizio degli anni ’60, nel 1968 con Dario Fo e Franca Rame è tra i fondatori di Nuova Scena, associazione che darà vita a un circuito teatrale alternativo, primo passo di quel decentramento teatrale che da lì a poco interesserà la maggior parte delle regioni italiane.
Vittorio Franceschi resta alla guida di Nuova Scena fino al 1981, anche dopo l’uscita di Fo e Rame, e ne trasferisce la sede da Milano a Bologna trasformandola in cooperativa.
"L’Amleto non si può fare" (1976), "Scacco Pazzo" (1991), "Il sorriso di Daphne"(2005), produzioni realizzate a Bologna con il Teatro stabile Nuova Scena-Arena del Sole, sono solo alcune delle sue opere che hanno ricevuto i premi più prestigiosi.
I suoi lavori sono stati rappresentati in Francia, Germania, Svizzera, Polonia, Russia, Finlandia, Scozia e Spagna. Non si può dimenticare infine l’importante attività didattica che continua a svolgere tuttora presso la Scuola di Teatro di Bologna
Con Vittorio Franceschi la scrittura drammatica affronta le grandi questioni dell'umanità, senza mai rinunciare a far sorridere, a sbozzare ritratti di uomini e donne veri, vicini, con una capacità di sondare l’animo umano straordinariamente lucida e delicata, in una struttura sintattica fluida, pulita e ben orchestrata nella distribuzione dei dialoghi e dei monologhi.
Per questo suo straordinario percorso nella parola teatrale, intrecciato con il territorio, e che valorizza ulteriormente l’immagine culturale della città di Bologna, l’Amministrazione gli è grata.