Per la prima volta, probabilmente, viene proposta una antologia di testi nei quali, in forma indiretta e diretta, emerge l’idea di Virginia Woolf sullo scrivere.
Al faro e Le onde: tra il 1925 e il 1931 Virginia Woolf scrive i romanzi che l’hanno resa famosa al grande pubblico. Sono gli anni della creatività, ma anche del tormento. Perché scrivere è un’avventura pericolosa e la Woolf lo sa benissimo. L’amico Morgan Forster così si espresse, alla sua morte: “non c’è scrittore al mondo che più di lei abbia amato scrivere” - l’epitaffio più semplice e commovente, che la rappresenta pienamente. La vita di Virginia è infatti scandita da tanti tipi di scrittura, ognuna con un grado diverso di intensità, ma tutte con un intento preciso. Scrivere un saggio, un racconto, un romanzo, una recensione, una lettera, il diario fa comunque parte di un unico, incessante lavoro di ricerca sulla parola, sulla forma, per “dare ordine all’esperienza”, per rappresentare quelle figure che si affollano nella mente e che “premono, opprimono, cercano sfogo in parole”. Scrivere è al contempo la ricerca di un punto di equilibrio, ma significa anche affacciarsi sull’orlo dell’abisso. Questa lettura propone un’immagine forte del tormentato lavoro intorno ai suoi libri più importanti, anche attraverso la scrittura intima e privata delle lettere, dei diari, degli scritti autobiografici. Scopriremo una Virginia Woolf allegra e tenerissima, ironica e spiritosa, ma anche disperata e infelice. Il gioco della scrittura ce la riconsegna in tutti i suoi aspetti.
Diario (I)
giovedì 14 maggio 1925 Volevo registrare meglio la temperatura dei miei libri. Common Reader non si vende; ma è lodato. Mi fece molto piacere questa mattina aprire il “Manchester Guardian” e leggere un articolo [...] sull’arte di Virginia Woolf; spirito brillante e insieme integro; profondo quanto eccentrico. Ora, se il “Times” parlasse in questi termini, ma il “Times” bofonchia e borbotta come uno che stia succhiando ciottoli. Ho già detto che mi ha dedicato due colonne di borbottii? Ma la cosa singolare è questa: onestamente debbo dire che provo appena un’ombra di nervosismo per Mrs Dalloway. Perché questo? Davvero mi annoia un poco, per la prima volta, pensare quanto dovrò parlarne quest’estate. Ma in verità scrivere è il piacere profondo, essere letti quello superficiale. Ora sono tutta tesa dal desiderio di abbandonare il giornalismo e mettermi a Al faro. Questo sarà piuttosto corto; vi sarà un ritratto completo di papà; della mamma; e poi St. Ives; e l’infanzia; e tutte le cose che mi ingegno di metterci dentro; vita, morte, ecc. Ma il centro è il personaggio di papà, seduto in barca, che recita Noi perimmo, ciascuno era solo, mentre schiaccia uno sgombro morente. Comunque debbo frenarmi. Debbo prima scrivere qualche piccolo racconto e lasciare che il Faro raggiunga il bollore, aggiungendovi qualcosa tra il tè e la cena, finché sia completo e solo da scrivere.
Momenti di essere (I)
[…] E’ di fiori rossi e viola su uno sfondo nero – il vestito di mia madre; è seduta in treno o sull’autobus, e io sono sulle sue ginocchia. Perciò vedevo i fiori del suo vestito molto da vicino: ed ancora li rivedo, viola e rosso e azzurro, credo, su uno sfondo nero; dovevano essere anemoni, credo. Forse stavamo andando a St. Ives; più probabilmente, dalla luce doveva essere sera e stavamo tornando a Londra. Ma per ragioni artistiche è più conveniente presumere che stessimo andando a St. Ives, perché così posso passare all’altro ricordo, che pure sembra essere il mio primo ricordo; anzi, è il più importante di tutti. Se la vita ha una base su cui poggia, se è una tazza che si riempie e riempie e riempie – allora la mia tazza senza dubbio poggia su questo ricordo. Mezza addormentata, mezza sveglia, sono nel mio letto nella stanza dei bambini a St. Ives. Sento le onde rompersi, uno, due, uno, due, mandando spruzzi d’acqua sulla spiaggia; le onde si rompono uno, due, uno, due, dietro la tenda gialla. Sento la tenda che strascina la sua piccola nappa a forma di ghianda sul pavimento, quando il vento la muove. Sto sdraiata e sento gli spruzzi e vedo la luce, e penso, sembra impossibile che io sia qui; e provo l’estasi più pura che riesca a concepire.
Cambiamento di prospettiva (I)
A Gerald Brenan 14 giugno 1925
Mio caro Gerald, sei stato molto gentile a scrivermi. Ma non risponderò alle tue critiche (e oserei dire che non te ne importa molto) perché in questo momento riesco solamente a contrapporle alle critiche di altri, e non riesco a metterle in relazione con Mrs Dalloway. [...] Intanto, visto che l’ho finito 8 mesi fa, e adesso sto lavorando a un’altra cosa [Al Faro], mi sento molto lontana ed è come se vedessi te e Roger dare ora una forma ora un’altra a un pezzetto di cera – qualcosa con cui, in questo momento, non c’entra molto. Forse è proprio la mancanza di critica, o piuttosto il fatto di suscitare reazioni così diverse nella gente, che mi rende tanto difficile scrivere un buon romanzo. Ho sempre la sensazione che nessuno [...] capisca quel che ho fatto: si scontrano tutti su cose campate in aria; e così devo creare ogni volta da sola tutto quanto da capo. Probabilmente gli scrittori sono adesso tutti sulla stessa barca. E’ il prezzo che paghiamo per rompere con la tradizione, e la solitudine fa sì che scrivere sia più stimolante anche se essere letti lo è meno. Bisognerebbe calarsi in fondo al mare, e vivere soli con le proprie parole. Ma non sono del tutto sincera, perché essere messi in discussione, essere lodati e criticati è uno stimolo notevole; conserverò la tua lettera e la leggerò con molta attenzione tra qualche mese. Per il momento lascerò che i diversi pareri [...] si accumulino, e poi, quando tutto sarà tranquillo, sguscerò fuori dal mio buco, e li cucirò insieme. [...] La tua V.W.
Diario (II)
lunedì 20 luglio 1925
[...] Dovrei ora considerare la mia lista di lavori. Credo un raccontino, forse una recensione, queste due settimane: perché ho un desiderio superstizioso di cominciare Al faro il primo giorno a Monk’s House. Credo che lo finirò nei due mesi laggiù. La parola “sentimentale” mi sta sul gozzo (me ne libererò scrivendola in un racconto [...]) Ma questo tema potrebbe essere anche sentimentale; padre madre bambina in giardino; la morte; la gita in barca al faro. Credo però che una volta incominciato lo arricchirò di mille cose diverse; lo addenserò, gli darò fronde e radici che ora non distinguo. Potrebbe contenere tutti i personaggi condensati e la fanciullezza; e poi questa cosa impersonale, che gli amici mi sfidano a raggiungere, il volo del tempo e la conseguente soluzione di continuità nel mio disegno. Quel passaggio (immagino il libro in tre parti: 1° alla finestra del salotto; 2° sette anni trascorsi; 3° il viaggio) m’interessa moltissimo. Un problema nuovo come questo scopre terreno fresco nel cervello; preserva dai soliti binari. [...]
Diario (III)
sabato 5 settembre 1925
Ma come potevo non capire o sentire, in tutto questo tempo, che mi stavo consumando e andavo avanti con una gomma a terra? Così era, e caddi svenuta a Charleston nel bel mezzo della festa per il compleanno di Quentin e da allora sono rimasta coricata qui intorno, in quella singolare esistenza anfibia del mal di testa, per circa due settimane. Si è aperta una gran falla nelle otto settimane che avevo riempito fino all’orlo. Non fa nulla. Serviti di qualunque pezzo ti capiti sottomano. Mai farsi sconvolgere dagli scarti di quel bruto malfido che è la vita, già oppressa com’è dall’incubo del mio strano e difficile sistema nervoso. A 43 anni non so ancora come questo funzioni, perché tutta l’estate mi dicevo: ”Ora sono proprio di diamante. Posso attraversare in santa pace un parapiglia di emozioni che appena due anni fa mi avrebbe scuoiata.
lunedì 13 settembre, forse Un fatto vergognoso: scrivo questo alle dieci di mattina, a letto, nella stanzetta che guarda sul giardino; il sole irraggia costante le foglie di vite, sono di un verde trasparente, e le foglie del melo così brillanti che, facendo colazione, ho inventato una storiella su un uomo che scrisse una poesia, mi pare, comparandola a diamanti, e le tele di ragno (che lampeggiano e svaniscono in modo sorprendente) e non so che alto. [...] Scrivo questo un po’ per mettere alla prova il mio povero fascio di nervi – reggeranno o cederanno di nuovo, come tante altre volte? – giacché sono ancora anfibia, ora in letto ora fuori del letto; e un po’ per saziare il mio prurito (“saziare” un “prurito”!) di scrivere. E’ il più grande conforto e il più grande flagello.
Momenti di essere (II)
Ed eccoci qui una delle difficoltà dello scrittore di memorie – una delle ragioni per cui, sebbene io ne legga tante, tante, troppe sono dei fallimenti. Tralasciando la persona a cui le cose sono accadute. La ragione essendo che è troppo difficile descrivere un essere umano. Perciò dicono: “Ecco quello che è capitato”; ma non dicono com’era la persona a cui è capitato. E gli eventi significano molto poco, se non conosciamo la persona a cui capitano. Chi ero io, allora? Adeline Virginia Stephen, seconda figlia di Leslie e Julia Prinsep Stephen, nata il 25 gennaio 1882, discesa da numerosi antenati, in parte famosi, in parte oscuri; nata in una famiglia molto ramificata, da genitori non ricchi ma agiati, in un ambiente tardo ottocentesco molto articolato e comunicativo, letterario, dove ci si scriveva, ci si incontrava, si parlava; sicché, se me ne dessi la pena, se proprio volessi, potrei scrivere a lungo non solo di mia madre e mio padre, ma di zie e zii, di cugini e amici. Ma io non so quanto di tutto ciò, o quale aspetto di tutto ciò, mi fece provare quello che provai nella stanza dei bambini di St. Ives Non so quanto sia diversa dagli altri. Questa è un’altra difficoltà per chi scrive memorie. Ma per descrivere se stessi in modo veritiero, si deve pur avere un criterio di paragone: ero intelligente, stupida, bella, brutta, appassionata, fredda? Forse per il fatto che non sono mai andata a scuola e non ho mai dovuto competere con dei bambini della mia età, non ho perciò mai avuto modo di confrontare le mie doti e i miei difetti con quegli degli altri. C’era poi anche una ragione esterna che spiegava l’intensità di quella prima impressione: l’impressione delle onde e della nappa; la sensazione, come talvolta la descrivo a me stessa, di stare dentro un acino d’uva e di vedere attraverso una pellicola gialla semitrasparente.
Al Faro (I)
“Sì, certamente, se domani è bello” disse la signora Ramsay. “Ma ti dovrai svegliare con l’allodola” aggiunse. Al figlio queste parole dettero una gioia straordinaria, come se fosse ormai deciso che la spedizione ci sarebbe stata senz’altro, e il miracolo atteso, gli sembrava, da anni e anni, fosse ora a portata di mano, dopo le tenebre di una notte e la navigazione di un giorno. All’età di sei anni, apparteneva già a quel vasto gruppo di persone che non sanno tener separato un sentimento dall’altro, ma piuttosto lasciano che le immaginazioni del futuro, con le loro gioie e dolori, offuschino ciò che è già qui; perché fin dalla prima infanzia qualsiasi oscillazione nella ruota della sensibilità ha il potere di cristallizzare e fissare l’attimo, da cui la tristezza o l’euforia dipendono. Perciò James Ramsay, seduto lì sul pavimento, intento a ritagliare le figurine dal catalogo illustrate dei Magazzini dell’Unione Militare, alle parole della madre riversò un’ondata di felicità paradisiaca sulla figura del frigorifero. Gli orli sprizzavano gioia. La carretta, la falciatrice, il fruscio dei pioppi, le foglie che prima della pioggia schiariscono, le cornacchie che gracchiano - ogni cosa nella mente di lui aveva il suo proprio colore e carattere, di tutto s’era fatto già il suo codice personale, la sua lingua segreta, anche se a guardarlo sembrava l’immagine della severità incorruttibile, assoluta, con la fronte alta, i fieri occhi azzurri, impeccabilmente candidi e schietti, leggermente accigliati al cospetto della fragilità umana: tanto che sua madre osservandolo mentre guidava con mosse precise le forbici intorno alla figura che ritagliava, se lo immaginò tutto vestito di porpora e d'ermellino a presiedere una corte di giustizia, o alla guida di una qualche impresa ardua e decisiva, in un momento di crisi della vita pubblica.
Momenti di essere (III)
[...] E’ assolutamente vero che mia madre mi ha ossessionato fino a quarantaquattro anni. Poi un giorno mentre attraversavo Tavistock Square, come a volte mi succede coi libri che scrivo, concepii Al faro; con un grande, apparentemente involontario impeto. Una cosa traboccava nell’altra. Come soffiare bolle di sapone da un cannello; ecco, questo può rendere il senso del rapido affollarsi di scene e di idee che mi sgorgavano dalla mente, sicché le mie labbra sembravano sillabare parole per conto loro mentre camminavo. Che cosa aveva mosso quell’effervescenza? Perché proprio allora? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto rapidamente; e quando l’ebbi scritto, smisi di essere ossessionata da mia madre. Non sento più la sua voce, non la vedo. [...] Eccola lì, senz’altro, al centro di quella grande cattedrale che era l’infanzia; lì, fin dall’inizio. Il mio primo ricordo è del suo grembo; il graffio della collana sulla mia guancia premuta contro il suo vestito. Poi la rivedo con la sua vestaglia bianca sul balcone; e la passiflora con la stella viola sui petali. La sua voce ce l’ho ancora nell’orecchio – decisa, rapida; in particolare risento i toni bassi con cui finiva la sua risata, tre “ah” discendenti, “ah, ah, ah...”. Io stessa, a volte, finisco così una risata.
Al faro (II)
"Ma," disse il padre, in piedi di fronte alla finestra del salotto, "non sarà bello." Ci fosse stato lì accanto un'accetta, un attizzatoio, o un qualsiasi altro arnese per squarciare il petto del padre e ucciderlo lì, all'istante, James l’avrebbe afferrato. Così estrema era l'emozione che Ramsay suscitava nel petto dei figli con la sua sola presenza, semplicemente stando lì in piedi, come adesso, asciutto che pareva un coltello, affilato che sembrava una lama, con quella smorfia sarcastica di piacere all'idea di deludere il figlio, e contraddire la moglie, che era diecimila volte meglio di lui sotto ogni aspetto (cosi pensava James); ma anche con un certo gusto segreto per la propria accuratezza di giudizio. Quello che diceva era vero. Era sempre vero. Era incapace di falsità. Non corrompeva i fatti, non alterava una parola sgradevole per assecondare il piacere o l'interesse di un altro, meno che mai dei suoi figli, che generati dai suoi lombi dovevano rendersi conto fin dall'infanzia che la vita è difficile, i fatti incorruttibili, e il passaggio a quella terra favolosa - dove si estinguono le nostre speranze più luminose e naufragano nelle tenebre le nostre fragili scorze (qui Ramsay raddrizzava la schiena e aguzzava le fessure strette degli occhi azzurri verso l'orizzonte) - un passaggio che richiede soprattutto coraggio, amore di verità, e forza di resistenza. "Ma potrebbe anche essere bello. Io credo proprio che sarà bello," disse la signora Ramsay, piegando leggermente spazientita il calzerotto marrone che stava facendo. Se lo finiva stasera, e riuscivano ad andare al Faro il giorno dopo, avrebbe dato i calzerotti al guardiano per il suo bambino, che era minacciato di tubercolosi all'anca; insieme, gli avrebbe portato una pila di vecchie riviste, un po' di tabacco, e in più qualsiasi cosa avesse trovato per casa di superfluo, che stava lì a impicciare le stanze, mentre avrebbe fatto piacere a quella povera gente che doveva annoiarsi a morte, a stare tutto il giorno senza far nulla, se non ripulire il fanale, pareggiarne il lucignolo, setacciare quel fazzoletto d’orto. A voi piacerebbe stare rinchiusi un mese intero per volta, e magari col brutto tempo, su uno scoglio non più grande di un campo da tennis? Senza lettere, senza giornali, senza vedere nessuno? Se uno è sposato, senza vedere la moglie, senza sapere come stanno i bambini, se si sono ammalati, se sono caduti e si sono rotti una gamba o un braccio? Sempre lì a guardare la stessa onda che si rompe monotona settimana dopo settimana e poi magari viene una tempesta tremenda, e le finestre si coprono di schiuma, e gli uccelli sbattono contro il fanale, e tutto rulla e non si può neppure mettere il naso fuori della porta per paura di essere travolti? Vi piacerebbe? domandava, rivolgendosi soprattutto alle figlie. Perciò, aggiungeva cambiando tono, bisogna portar gli più cose che si può.
Momenti di essere (IV)
Ma per fissare la mente sulla stanza dei bambini – c’era un balcone; che oltre la parete divisoria continuava fino alla camera da letto di mio padre e mia madre. Mia madre si affacciava al balcone con indosso una vestaglia bianca. Sul muro cresceva la passiflora, coi suoi grandi fiori a stella con venature viola, le grosse gemme verdi, in parte piene , in parte vuote.
Se fossi un pittore queste prime impressioni le dipingerei giallo pallido, argento e verde. C’era la tenda giallo pallido; il mare verde; l’argento della passiflora. Farei un quadro sferico, semitrasparente. Farei dei petali ricurvi, conchiglie, oggetti che fossero semitrasparenti; forme tutte curve che facciano trasparire la luce, senza però restituire dei profili nitidi. Tutto sarebbe vasto e indistinto; e ciò che si vedeva lo si dovrebbe anche sentire; dal petalo, dalla foglia verrebbero dei suoni – suoni indistinguibili da ciò che si vedeva.
Diario (V)
giovedì, 30 settembre 1926
Volevo aggiungere qualche osservazione, sul lato mistico di questa sollecitudine; come non si rimanga con se stessi, ma con qualcosa che è nell’universo. E’ questo l’eccitante e il pauroso, in mezzo alla mia profonda tristezza, depressione, tedio, o quello che sia. Si vede una pinna passare in lontananza. Quale immagine posso raggiungere per suggerire ciò che intendo? In realtà non ce n’è, direi. La cosa interessante è che in tutto il mio sentire e pensare non mi ero mai incontrata con questo. La vita è (per dirla con cura e misura) la più strana faccenda; ha in sé l’essenza della realtà. Da bimba sentivo questo: non riuscivo a valicare una pozzanghera una volta, perché pensavo “Che strano, che cosa sono” ecc. Ma scrivendo non raggiungo nulla. Tutto ciò che voglio fare è prender nota di un curioso stato d’animo. Azzardo l’ipotesi che si tratti di quell’impulso che è dietro un nuovo libro. Nel momento il mio cervello è del tutto bianco, vergine di libri. Voglio stare attenta a come capita per la prima volta l’idea. Voglio seguire la traccia del mio segreto processo.
Al faro (III) Ma che ho fatto io della mia vita? pensò la signora Ramsay, prendendo posto a capotavola e guardando i piatti che vi disegnavano sopra dei cerchi bianchi. "William, vicino a me," disse. "Lily," ripete stanca, "laggiù." Sì, loro - Paul e Minta - avevano quello; lei, invece, ormai non aveva che questo: questo tavolo che non finiva mai, con sopra i piatti e le posate. All'altro capo sedeva suo marito, cupo, minaccioso. Perché? Non sapeva. Non gliene importava. Non riusciva a capire come avesse potuto provare emozione o affetto per lui. Mentre serviva la minestra, aveva la sensazione di essere al di sopra di tutto, fuori da tutto - come se ci fosse un vortice lì - e si poteva o starci dentro, o rimanerne fuori, e lei ne era fuori. E’ tutto finito, pensò, mentre uno dopo l'altro entravano: Charles Tansley - "Si sieda qui, prego"; Augustus Carmichael, lei lì, grazie. Lei intanto aspettava, passivamente, che qualcuno le rispondesse, che qualcosa accadesse. Ma servendo la minestra, pensò: non è una cosa che si può dire. Inarcando le ciglia all'idea della discrepanza - ecco a che pensava, ecco quello che faceva: serviva la minestra - si sentì sempre più fuori del vortice. Come se fosse caduta un'ombra, vedeva ora le cose com'erano, senza colore. La stanza (si guardò intorno) era squallida. Non c'era nessuna bellezza, da nessuna parte. Si proibì di guardare Tansley. Niente all'apparenza era legato. Sedevano separati gli uni dagli altri. E lo sforzo del legare e del fluire e del creare poggiava tutto su di lei. Di nuovo sentì, come un dato di fatto puro, non ostile, la sterilità degli uomini; perché se quello sforzo non lo faceva lei, non lo avrebbe fatto nessuno. Si dette allora la scossa leggera che si dà all'orologio che s'e fermato, e la vecchia familiare pulsazione riprese a battere, come l'orologio riprende a ticchettare - uno, due, tre, uno, due, tre. Forza, forza, ripeté, ascoltando, proteggendo, e alimentando la pulsazione ancora debole, come con un giornale si protegge una debole fiamma. E sia, concluse, rivolgendosi con un silenzioso cenno a William Bankes - poveretto! Senza moglie né figli, cenava sempre solo dall'affittacamere, eccetto stasera. Piena di compassione, ora che la vita era tornata in lei a battere così forte da sostenerla, cominciò il suo daffare, come un marinaio non senza stanchezza vede il vento gonfiare la vela, ma non vorrebbe salpare di nuovo e pensa che se la nave fosse affondata, trascinato nel suo turbine, lui ora sarebbe nel fondo del mare, a riposo.
Momenti di essere (V)
Molti colori brillanti; molti suoni distinti; alcuni esseri umani, caricature; risate; parecchi violenti momenti di essere, sempre inclusivi della scena che ritagliavano; il tutto racchiuso in uno spazio immenso – ecco un’approssimativa descrizione visiva dell’infanzia. Così me la raffiguro; così vedo me stessa bambina, che girovago in quello spazio di tempo che durò dal 1882 al 1895. A un grande salone potrei paragonarla; con finestre che filtrano strane luci; e mormorii e spazi di profondo silenzio. Ma nel quadro bisogna introdurre anche il senso del movimento e del mutamento. Nulla rimaneva stabile a lungo. [...] E tuttavia è per la forza di tali invisibili presenze che “il soggetto di queste memorie” è trascinato ora in questa, ora in quella direzione ogni giorno della sua vita; sono loro che lo muovono. [...] Se non sappiamo analizzare queste presenze invisibili, sapremo ben poco del soggetto delle memorie; e allora, che attività futile diventa scrivere biografie. Mi vedo come un pesce nella corrente; trasportato; trattenuto; ma non so descrivere la corrente.
Al faro (IV) Ma che significa, che può significare? Si chiedeva Lily Briscoe incerta se, visto che l'avevano lasciata sola, dovesse andare giù in cucina a prendersi una tazza di caffè, o aspettare. Che significa? - era una frase fatta, ripresa da qualche libro, che non si adattava bene al suo pensiero; ma questa prima mattina dai Ramsay non riusciva ancora a concentrare le sue emozioni, poteva solo pronunciare una frase che coprisse il vuoto della mente, finché quei vapori non fossero svaniti. Ma che cosa provava davvero, tornando qui dopo tanti anni, dopo che la signora Ramsay era morta? Nulla, nulla - niente che potesse esprimere. Era arrivata tardi ieri notte ed era tutto misterioso, buio. Ora era sveglia, seduta al suo solito posto al tavolo della colazione, ma sola. Era molto presto, non erano neppure le otto. Ma c'era la spedizione - Ramsay, Cam, e James dovevano andare al Faro. Avrebbero dovuto essere già partiti - dovevano approfittare della marea, le sembrava. Ma Cam non era pronta e neppure James e Nancy si era dimenticata di far preparare i panini e Ramsay s'era arrabbiato ed era uscito sbattendo la porta. "A che serve andarci adesso?" s'era infuriato. Nancy era scomparsa. E lui era lì che marciava avanti e indietro sul terrazzo, irato. Sembrava di sentire porte che sbattevano e voci che chiamavano in tutta la casa. Nancy irruppe con violenza nella stanza e, dandosi un'occhiata intorno, con aria mezzo imbambolata, mezzo disperata, chiese "Che mandiamo al Faro?" come se volesse forzarsi a fare qualcosa che disperava lei stessa di saper fare. Già, che si deve mandare al Faro? [...] Seduta lì sola [...] alla lunga tavola, tra le tazze pulite, si sentì tagliata fuori dagli altri, capace solo di continuare a guardare, a chiedere, a interrogarsi. La casa, il luogo, la mattina, tutto le sembrava estraneo. Qui non aveva legami, sentì, nessun rapporto, poteva accadere di tutto, e qualunque cosa, un passo da fuori, una voce che chiamava ("Non è nella credenza; è nel pianerottolo" qualcuno strillò), era una domanda, come se il filo che prima annodava le cose fosse stato tagliato, e ora le cose galleggiassero qui, là, a caso. [...] D'un tratto Ramsay passando tirò su la testa, e la guardò diritto negli occhi, con quel suo sguardo sconvolto, da pazzo, che era però così penetrante, come se ti vedesse quell'istante per la prima volta. E lei fece finta di bere dalla tazza vuota per evitarlo - per evitare che le chiedesse qualcosa, per allontanare per un attimo ancora quel bisogno imperioso. Le fece un cenno col capo, e s'allontanò ("Solo" lo sentì che diceva, "Scomparsa"); e come tutto il resto in quella strana mattina le parole divennero simboli, si stamparono tutt'intorno sulle pareti grigio-verdi. Se soltanto fosse riuscita a metterle insieme, a scrivere una frase intera, pensò, sarebbe arrivata alla verità delle cose. D'un tratto si ricordò. L'ultima volta che s'era seduta qui, dieci anni fa, sulla tovaglia c'era un ramo o una foglia, che aveva notato in un momento d'illuminazione. Aveva un problema su come risolvere il primo piano di un quadro. Muovi l'albero nel mezzo, s'era detta. Non aveva più finito quel quadro; ma le era rimasto in mente per tutti quegli anni. Ora sentiva di volerlo finire. [...] Prese una sedia. Piazzò il cavalletto con mosse precise, da vecchia zitella, sull'orlo del prato, non troppo vicino a Carmichael, ma abbastanza perché la proteggesse. Sì, era proprio questo il punto preciso in cui s'era messa dieci anni fa. Ecco la parete, la siepe, l'albero. Il problema riguardava il rapporto tra quelle masse. Le era rimasto nella mente tutti quegli anni. Le sembrò ora che la soluzione fosse arrivata: ora sapeva ciò che voleva fare.
Diario (VI)
3 settembre 1926 [...] II romanzo è ormai in vista della fine, ma questa, misteriosamente, non s'avvicina. Scrivo di Lily sul prato; ma se questo sia il suo ultimo respiro non so. Né sono certa della qualità: la sola certezza sembra essere questa, che dopo aver vagamente tentato l'aria con le mie antenne per un'ora tutte le mattine, generalmente scrivo, con calore e facilità, fino alle 12,30; e cosi faccio le mie due pagine. Sarà dunque finito (riscritto, voglio dire) in tre settimane, per quanto posso prevedere, da oggi. Che ne rilevo? In questo momento sono alla ricerca di un finale. II problema è come riunire Lily e il signor Ramsey e creare un accordo interessante alla fine. Mi gingillo con varie idee. L'ultimo capitolo, che comincio domani, è "Nella barca": volevo terminarlo con Ramsey che si arrampica sullo scoglio. Ma se è così, che avviene di Lily e del suo quadro? Occorre forse una pagina finale di lei e Carmichael che guardano il quadro e riassumono il personaggio di Ramsey? Ma così perdo l'intensità del momento. Se questo avviene tra Ramsey e il faro, ci sono troppe fratture e mutamenti, credo. Potrei farlo in una parentesi? Cosi da dare la sensazione di leggere le due cose insieme? Risolverò in qualche modo, penso. Poi debbo dedicarmi alla questione della qualità. Temo possa procedere troppo veloce e libero, e risultare così piuttosto tenue. [...] E la mia sovrabbondanza mentre scrivo mi incoraggia. E’ provato, mi sembra, che quello che ho da dire va detto in questo modo. [...]
Diario (VII)
15 settembre 1926 […] Oh, comincia, arriva – l’orrore – fisicamente è come un’onda di dolore che monta intorno al cuore – e mi aggredisce. Sono infelice, infelice! Giù – Dio come vorrei essere morta. Pausa. Ma perché sento così? Ecco, ora voglio osservare l’onda che sale. La osservo. Vanessa. I bambini. Fallimento. Sì, ecco che cosa scopro. Fallimento, fallimento (l’onda monta). Oh, hanno riso di me, perché mi piace il verde! L’onda si rovescia. Vorrei essere morta. Mi restano pochi anni da vivere, spero. Non posso pensare di affrontare questo orrore – (e qui l’onda mi travolge).
Al faro (V)
"Dev'essere arrivato, disse a voce alta Lily Briscoe, sentendosi d'improvviso assolutamente esausta. Perché il Faro era diventato quasi invisibile, s'era dissolto in un vapore azzurro; e lo sforzo di guardare, e lo sforzo di pensare a lui che sbarcava laggiù come fossero uno stesso e unico sforzo, avevano teso il suo corpo e la mente fino all'estremo. Ah, ma ora si sentì sollevata. Qualunque fosse la cosa che voleva dargli quand'era partito la mattina, ora finalmente gliel'aveva data. "E’ sbarcato," disse a voce alta. "E’ finita." A quel punto, rizzandosi su con un leggero affanno, Carmichael le fu accanto, simile nell'aspetto a un dio pagano, irsuto, con alghe intrecciate tra i capelli, e il tridente in mano (era solo un romanzo francese). Le si avvicinò all'orlo del prato, dondolandosi un po' nel corpo pesante e, facendosi ombra con la mano, disse: "Saranno approdati," e lei sentì di avere avuto ragione. Non c'era stato bisogno di parlare. Avevano per tutto il tempo pensato le stesse cose e lui ora le rispondeva senza che lei gli avesse chiesto nulla. Stava lì con le braccia aperte al dolore, e alla debolezza umana. Lily pensò che stesse valutando con tolleranza, con compassione, il loro destino finale. E quando la mano di lui ricadde giù lenta, pensò, ecco, ha coronato l'evento; come se avesse fatto cadere dalla sua grande altezza una ghirlanda di violette e asfodeli che svolazzando pian piano erano infine scivolati a terra. Alla svelta, come se qualcosa di là la chiamasse, si voltò verso la tela. Eccolo, il suo quadro. Si, con i verdi e gli azzurri, le linee che correvano in alto e di traverso, la volontà di qualcosa. L'avrebbero appeso in soffitta, pensò; forse distrutto. Ma che importava? si chiese, prendendo di nuovo in mano il pennello. Guardò i gradini; erano vuoti. Guardò la tela; era confusa. Con intensità repentina, come se per un istante tutto le apparisse chiaro, tirò una linea lì, nel centro. Era fatto; finito. Sì, pensò, mettendo giù il pennello spossata, ho avuto la mia visione.
Diario (VIII)
venerdì 14 gennaio 1927 Questo è fuor delle mie abitudini, ma non ho quaderno nuovo e così devo notare qui (poiché qui ho notato l’inizio di Al Faro) debbo notare qui anche la fine. Ho terminato in questo momento la sgobbata finale. Ora è completo e pronto per la lettura di Leonard, lunedì prossimo. Così l’ho scritto in un anno meno qualche giorno e ringrazio il Cielo di esserne fuori di nuovo. Dal 25 ottobre non ho fatto che rivederlo e ricopiarlo (certe parti fino a tre volte) e senza dubbio dovrei lavorarci ancora; ma non posso. Lo sento come un libro duro e muscoloso, prova, a questa età, che ho qualcosa dentro. Non s’è esaurito, non s’è afflosciato: almeno questo è il mio sentimento.
Diario (IX)
domenica 23 gennaio 1927 Bene, Leonard ha letto Al faro e dice che è di gran lunga il mio miglior libro e che è un “capolavoro”. Me l’ha detto senza che glielo chiedessi. Tornavo da Knole e mi misi a sedere, senza chiedergli nulla. Egli lo definisce interamente nuovo; “poema psicologico” è il nome che gli ha dato. Un progresso dalla Dalloway; più interessante. Ottenuto questo grande sollievo, il mio cervello licenzia tutto, come al solito; ora lo dimentico e solo mi ridesterò e mi tormenterò di nuovo sulle bozze e poi quando il libro esce.
Diario (X)
giovedì 5 maggio 1927 Uscito il libro. Ne abbiamo vendute su prenotazione (credo) 1690 copie prima della pubblicazione: due volte la Dalloway. Scrivo comunque all’ombra di quell’umida nube che è la recensione del Times Literary Supplement, copia esatta di quella di Jacob’s e di Mrs. Dalloway |