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Crackpot - Adele Wiseman



Introduce Maria Teresa Cassini e Gabriella Morisco   
lunedì 19 gennaio 2009
Crackpot è il secondo romanzo di Adele Wiseman (1928-1992), una delle più note scrittrici della letteratura anglo-canadese del Novecento. La vita di Hoda, la protagonista, è descritta fin dalla sua prima infanzia ed è ambientata nella cittadina di Winnipeg. Figlia di ebrei ucraini emigrati all’inizio del secolo, Hoda è una bambina irruente e precoce, poi donna astuta e ingenua al tempo stesso, che tuttavia si dimostra vitale nelle sue contraddizioni: è bella perché grassa, onesta perché prostituta, madre perché bambina, amante perché madre. Crackpot è la stessa Hoda, la pazza, l’anticonvenzionale, la definizione di crackpot è anche, nella Kabbalah, il vaso rotto del creato dalle cui crepe esce la luce che illumina l’universo. Ricco di miti e superstizioni, di humour e realismo drammatico, questo romanzo celebra la vita e il mistero nascosto in ogni esperienza umana. Sarà presente la traduttrice.

Adele Wiseman, Crackpot, (Editore Le Lettere 2008.) [1974] Traduzione di Gabriella Morisco

(dal cap. V)
"Ho mal di pancia, " disse infine al padre con paura.
" E continua a tornare."
E il babbo la confortava con una formula che era diventata quasi un gioco fra loro, qualsiasi piccola malattia avesse uno di loro. Se uno si lamentava, l’altro diceva con solennità, "Sento che si aggira qui attorno." Allora potevi rispondere con un altro piccolo scherzo che ti faceva stare meglio. Se per caso Hoda diceva – perché era di solito lei che amava tirar fuori i suoi disturbi perché il padre li minimizzasse – se lei diceva, "Ohi, stamattina ho mal di testa, " e il babbo rispondeva, "Sento che si aggira qui attorno" lei rispondeva, "No babbo, sta saltando su e giù, " e tutti e due ci ridevano sopra. Oppure, quando lei si svegliava sentendosi tutta stonata e poi si lamentava "Ho mal di pancia, babbo, " e il babbo diceva "Sento che si aggira qui attorno" lei rispondeva "Ascolta bene, babbo, sta facendo una capriola, " e sebbene si sentisse ancora uno straccio, in qualche modo stava meglio per essere capace di fare e procurare una piccola risata.
E anche adesso, all’inizio ne fu sollevata perché dopo tutto, i dolori non erano così forti, e neppure costanti e il babbo non sembrava pensare che fosse qualcosa di cui doversi preoccupare, anche se lui era stato lì quando la mamma era malata, e avrebbe notato se ci fosse stato qualcosa di veramente grave. Quindi questo doveva essere qualcosa di diverso.
Daniele la fece andare a letto, e portò il suo lavoro in camera e chiuse la porta ripromettendosi per la millesima volta di non cantare e correre così il rischio di svegliarla, specialmente stanotte, perché la povera bambina aveva senz’altro qualche problema di digestione, forse aveva preso freddo o era stato qualcosa che aveva mangiato che l’aveva fatta stare male in queste ultimi giorni. Tutto sembrava concentrarsi nella pancia, dalla lotta con i cosacchi ad un qualsiasi raffreddore. Ma doveva essersi addormentata profondamente perché più tardi Daniele, non così ottimista come era parso, andò a mettersi fuori della camera da letto di lei per ascoltare qualsiasi suono che potesse indicare il suo stato di malessere. Ma tutto era fermo. E lui tornò al suo lavoro e alle sue inconsce melodie, per ancora un’ora o più prima di raggiungere quel grado di stanchezza particolare che sapeva gli avrebbe assicurato qualche ora di sonno profondo.
Hoda fu strappata al sonno da un dolore più acuto di quanti avesse avuti prima, e poi un altro e un altro, in un mondo che si era contratto, mentre dormiva, per contenere nient’altro all’infuori del suo corpo, a galla sul suo letto, un mondo che era il suo corpo che cercava di rovesciarsi, il dentro con il fuori, che combatteva con dei movimenti delle budella che sembrava l’evacuazione dei continenti. L’oceano si era già riversato fuori. Spaventata, ancora mezzo assonnata, cercò di sollevarsi sul letto bagnato, ma gli spasmi la trattenevano, e rimase sdraiata con lunghi e rochi mugolii, non sapendo che cosa fosse che si era staccato dentro di lei e che stesse sforzandosi di aiutare ad uscire fuori, o se lei stesse stringendo disperatamente per trattenere la vita "Babbo" chiamò ansante, la lingua stranamente impastata e grossa, come in un sogno quando si prova a chiamare aiuto, ma non si riesce. La sua voce era compressa, ritirata fino ad emettere piccoli piagnucolosi lamenti, costretti dallo sforzo generale su cui il suo corpo era tutto concentrato. "Babbo" gridò senza emettere alcun suono, dentro se stessa, mentre dalla bocca provenivano grugniti senza parole, irriconoscibili, suoni animaleschi che si strozzavano sul nascere mentre lei si tendeva. Non poteva neppure cercare di chiamarlo di nuovo. Tutto ciò che era sveglio in lei era concentrato, selvaggiamente, disperatamente, su quel grosso grumo che la stava rompendo in due. Non sapeva cosa fosse, ma sapeva che non succedeva, ma era lì, un castigo divino. Stava urlando, o sussurrando, o non facendo alcun suono? Ancora e ancora e ancora "Mamma, mamma, mamma." Perché faceva così male? Povera mamma! Povera Hoda! Che qualcuno mi aiuti! Sto morendo. ‘E’ così orrendo. Che cos è? Perdonami. Babbo; Perdonami Mamma; non volevo; cosa ho fatto? Non importava più. Spingi! Aiuto! Quella palla da incubo mi strappa per uscire, spingila fuori nella grondante oscurità bagnata. O grazie a Dio è solo un sogno. Spingi. Spi-i-ingi Muoio! Muoio! Oh muoio! Era il babbo che stava gridando dalla tranquillità del suo sonno ben guadagnato, come risposta alle sue rauche strida, le parole familiari, smorzate come nel suo stesso sogno, "Studiate" "Studiate!"
Ma io muoio, Babbo. Sono morta. Hoda ricadde indietro, rilassata improvvisamente nella morte, e giacque là, fino a che il rumore del suo stesso respirò disturbò la sua morte. Forse non era morte ma la lunga attesa trasformazione, e la grassa Hoda era uscita fuori da dentro tutta in una volta, una tonnellata e mezzo di budella, che aveva lasciato solo il suo vero io più bello, trasfigurata da questo sisma venuto da dentro. Quando si svegliava al mattino, il letto sarebbe stato asciutto e pulito, e si sarebbe totalmente ripresa da questo faticoso sogno. Ma c’era ancora qualcosa che continuava, che non le permetteva di chiudere gli occhi, qualcos’altro al di là del suo stesso respiro, un piccolo rumore frusciante che le sembrava di sentire proveniente da quella massa dei suoi budelli che in sogno giacevano fra le sue gambe aperte. Esausta si sollevò e cercò di vedere nell’oscurità. Quella calda e scura confusione che odorava e si dimenava. Si dimenava?
Impaurita Hoda si fece forza e afferrò con una mano quella cosa appiccicosa, e con l’altra la tastò con l’indice, scosse la cosa che acquistò una forma in miniatura paurosamente familiare, la tastò di nuovo.
Ci fu uno stridio rauco. Il grumo era vivo.

Hoda non aveva nessuna possibilità di capire, e né in quel momento l’avrebbe potuta aiutare il rendersi conto che, per come vanno abitualmente certe cose, lei si poteva ritenere fortunata. Era stata una nascita facile. Era avvenuta molto in fretta, condensata, come avviene in un sogno: il dolore improvviso, atroce; gli spasmi estenuanti, a cui mezza addormentata si era sottomessa istintivamente, come in sogno; l’esplosivo lacerante lasciar andare; il sollievo del puro sfinimento; tutti questi furono i meccanismi dell’evento seguito a fatica, tuttavia, da una consapevolezza che non era così facile da sopportare.
E allora cosa importava se era vivo? Era solo un sogno, in ogni modo. Ma Hoda non poteva impedire a se stessa di tornare dentro al sogno. Ritirò indietro le mani che avevano toccato quella cosa, richiuse le gambe facendogli fare un largo giro attorno alla cosa e si ritirò tutta in cima al letto, dove si raggomitolò dolorante. Basta il sogno! Vattene via! Cercò di girarsi per uscire dal letto ma improvvisamente sentì uno strattone. Le stava venendo dietro! Era legato a lei da dentro! Se si muoveva ancora avrebbe sciolto il resto del suo intestino, oppure quella cosa sarebbe saltata giù seguendola se cercava di correre, e avrebbe strillato svegliando il babbo. Il babbo non deve venire! Fece oscillare di nuovo le gambe sul letto con attenzione. Si chinò avanti, cercò tastoni la corda viscida che la legava insieme, l’afferrò con ambedue le mani e cercò di spezzarla. Ma non si rompeva. Non riusciva ad afferrarla strettamente. La cosa strillò di nuovo. Frenetica Hoda lo gli sibilò un "Ssshh!" se non se ne liberava subito quel pazzo sogno sarebbe continuato per sempre! Rannicchiandosi di nuovo sul letto portò la corda ai denti, sapeva di ferro, melma, odorava delle sue stesse interiora, trattenne il respiro, e rosicchiò, masticò emettendo piccoli grugniti disperati, sentì il sapore del sangue che sgocciolava nel tubo quando vi affondò i denti. Il sangue stava colando. Avrebbe insanguinato tutto. Ma non poteva tenere la corda in quel modo fra le dita per sempre. Fai un nodo! Goffamente riuscì ad annodare quella corta corda di carne che usciva fuori dalla palla, la annodò una due volte, fino a giù, il più che poteva, per trattenere il sangue, almeno fino a che si sarebbe sbarazzata della cosa.
Intanto la sua stessa parte di corda si sistemò grazie ad un altro penoso movimento interno fatto di contorcimenti e sobbalzi. Ma perché non finisce mai? Perché non mi sveglio e chiamo il babbo. No! Il babbo non deve sapere. Qualcosa è andato storto. Non si sa come quelli erano riusciti a metterle dentro tanti pezzi da farli combaciare. Hoda si trascinò fuori dal letto fino all’interruttore della luce. Accese e sbattendo gli occhi e trattenendo il respiro, si voltò e guardò il terribile disordine sul letto. Era così incredibile da consolare, quasi, come a volte succede con i sogni perché non possono assolutamente essere veri. Non credeva in quello che vedeva ma nondimeno era costretta a fare, come succede spesso in sogno. Si sentì costretta ad andare vicino a quella cosa. Si chinò per osservarla attentamente. Cercò di rivoltarla, ma questa girò in su la sua brutta faccia per urlare, e allora la dovette prendere su, con paura e tenerla vicina al suo petto per farla star zitta. Le sue dita continuavano ad esplorarla con attenzione. Contò le dita delle mani e dei pedi, osservò gli orecchi e il pene. Non mancava nulla, di fuori almeno, e tutte le parti sembravano corrispondere, in modo buffo, che sebbene non fosse carino e la sua pancia con quella sciocca cosa extra e piena di nodi era in fuori quasi come la sua. Perché era così gommoso? Perché veniva dal suo didentro? E perché gli occhi gli stavano incollati in quel modo? Se era cieco avrebbero capito che era suo!
Il pensiero la riempì di panico. Lo voleva buttare via da qualche parte, o nasconderlo sotto il letto, o scaricarlo nella tazza del cesso e dimenticarlo. Ma era vivo e avrebbe soffocato! Cosa succedeva se il babbo lo scopriva, se la gente lo sapeva? A quel punto il babbo avrebbe capito tutto. Si sarebbe vergognato. Non sarebbe stato più capace di affrontare tutte le voci in sinagoga, o per strada, o tutto attorno a lui, voci che avrebbe capito infine che parlavano di lei e di cosa faceva e cosa le era successo. E allora sarebbe stato costretto a crederci. Babbo, non è vero, non è proprio vero, Babbo, credimi. E’ qualcosa di diverso. Come avrebbe sopportato di stargli davanti, di starle persino vicino e… Fai qualcosa. Puoi fare qualcosa. Tu devi fare qualcosa. Stava ancora lì tenendo in braccio la cosa contro il suo seno. Dentro era tutto un dolore e non poteva far niente, poteva sedere appena per metà, e per metà stare distesa cercando di far diminuire quei crampi così forti. Si sforzò di pensare. La cosa si era rannicchiata comodamente e anche lei era a proprio agio tenendola. Si lasciò andare mezza sdraiata. Ma improvvisamente si rialzò con uno scatto, attenta.
Pulisci tutto. Fai in fretta. La voce che dava gli ordini proveniva da qualche parte e sbatté rapidamente gli occhi guadandosi attorno nella stanza prima di capire che proveniva dalla sua testa. In alto in una qualche parte dissociata del suo cervello. A fatica si mise in piedi. Cosa poteva fare con quella cosa in braccio? Era molto tranquilla. Morta? Un guizzo di gioia, uno spasmo di orrore, poi il sollievo. Stava dormendo. Mise il cuscino per terra in un angolo e ce lo appoggiò sopra.
Mentre puliva la sua mente martellava, accuse sconnesse, incoerenti, negazioni, frammenti di inutili preghiere, preghiere rivolte al padre, alla mamma, anche a Dio, affinché per favore distogliessero le loro facce, ma che l’aiutassero, adesso! In qualche modo al di là dei pianti e delle imprecazioni e dell’incoerenza impotente, in un altro regno di pensiero una parte di lei osò per la prima volta dare un nome alla cosa, un bambino. Lei non deve avere un bambino. Non adesso. Non era ancora il momento. Le cose buone non erano ancora arrivate! Cosa avrebbe fatto con un bambino? Dove avrebbe messo un bambino? Dove l’avrebbe nascosto? Da nessuna parte. Darlo via? Come? Nessuno deve sapere. Non era lei sua madre. I suoi padri? Forse dieci, o forse più? Nessuna madre. Nessun padre. Come un orfano… un orfano… un orfano…
[…]
(dal cap. VII)
Tutto successe a causa della sua abitudine di insistere a comprare i cesti del padre. All’inizio era stato un modo molto utile e vantaggioso di evitare che la casa si riempisse anche troppo della produzione paterna dovuto alla sua infaticabile industriosità. Permetteva inoltre ai clienti di bilanciare qualsiasi eventuale senso di disagio avessero provato nell’essersi concessi un piccolo vizio, con un grazioso contrappeso di virtù, sotto forma di una prova di affetto, totalmente inaspettata e apparentemente gratuita, verso le loro mogli. Ma una volta che la natura professionale dell’attività di Hoda fu nota a tutti, le donne incominciarono a chiedersi cosa ci facessero i loro uomini in quel luogo. Con il tempo il possedere uno dei graziosi e robusti cesti di Daniele divenne praticamente l’equivalente di un’aperta ammissione che un marito o un figlio aveva sconfinato dalla retta via. La frase astutamente gentile "Ma che bel cesto di paglia! Vostro marito vi ha fatto questo regalo?" diventava, più di una volta, l’equivalente di un ago conficcato in un cuore umiliato per ricevere poi una risposta con un sorrisino a denti stretti "No, ce l’ho da molto tempo. In realtà l’ho comprato io stessa da quel povero cieco un po’ scemo. Mi fa tanto pena perché non può fare niente se sua figlia è una puttana". E quindi l’attaccante rispondeva abilmente con un qualche commento ironico su quale tragedia significasse l’essere cieco. Durante il periodo di transizione, quando il ruolo di Hoda stava diventando sempre più noto nel rione, più di un marito colpevole dovette rimpiangere quel suo minuto di espansività, una volta che si era lasciato andare alla tentazione di regalare anche alla moglie qualcosa di piacevole.
Sulle prime a Hoda dispiacque trovare quei cesti che aveva appena venduto la sera prima, lasciati abbandonati la mattina dopo nel cortile o lungo il sentiero. Malediva i clienti per aver insultato il lavoro prezioso del padre e continuando ad imprecare radunava di nuovo tutti quei bei cesti e oggetti di paglia odiando la meschinità e l’ottusità della gente che poteva buttare senza scrupolo cose così belle e ben fatte. Ci volle un po’ di tempo prima che lei capisse che la sua maggiore fonte di vendita si era esaurita dato che i clienti erano disposti a darle anche dei soldi extra, pur che lei non cercasse più di far loro portare a casa quella roba. Alla fine si accordò per una specie di tassa del cesto, che per lo meno manteneva stabile le sue entrate, ma ancora una volta dovette arrovellarsi per trovare un modo di ridurre tutta quella produzione che continuava ad accumularsi.
Comunque ogni tanto era ancora capace di vendere un cesto a qualche cliente più innocente. Successe la mattina dopo una breve visita di un cliente del genere, un nuovo amico, che offrì l’occasione di quella grande caccia. Il padre, grazie a Dio, era ancora in sinagoga per le sue preghiere mattutine e Hoda stava rifacendo il suo letto quando sentì la donna di fuori che gridava. La voce divenne rapidamente sempre più vicina fino a che non ebbe difficoltà nel comprendere le parole in yiddish, "Dov’è la puttana? Dov’è quella puttanona?". Hoda si avvicinò alla finestra, i vicini di fronte avevano già aperto le loro porte d’entrata e stavano guardando in giù sulla strada. La donna urlante, con una voce stridula e sovraeccitata, apparve sventolando un cesto di paglia e sbattendolo contro il cancello. Doveva aver iniziato già da lontano a strillare per strada perché c’era già un codazzo di gente che la seguiva. "Dov’e quella là, la mangiatrice di mariti?" strillava piantandosi davanti al cancello, una donna sfiorita e logorata dal troppo lavoro, che Hoda conosceva soltanto di vista come una che abitava nelle vicinanze. Questa si mise ad annunciare ad alta voce che era venuta per sistemare quella puttana, che aveva intenzione di svergognarla davanti a tutti i vicini, quella grassa gatta che stava sdraiata leccandosi la panna del latte mentre le donne per bene lavoravano come schiave fino a morire, e per che cosa? Così i loro mariti potevano rubare un po’ di soldi dal denaro di casa per andare a tuffarsi in letti più corrotti. "Mi ha portato un regalo? Glielo do io il regalo! Anche a lei do un regalo! Dov’è la puttana, la Dalila, la rinnegata? Faccio un tale scandalo che avrà vergogna di mostrare ancora la faccia in pubblico. Racconterò a quel povero vecchio scemo di un cieco una storia tale che le dita gli si rattrappiscono tutte tanto che non potrà più intrecciare nessuno stupido cesto! Vieni fuori! Dove ti nascondi, sporca puttana!"
Dapprima Hoda poteva credere a stento che quella estranea si stesse realmente rivolgendo a lei. Andò alla porta con l’intenzione di andare fuori come tutti gli altri per vedere cosa stesse succedendo e a chi si stesse rivolgendo. Ma quando la donna rimase davanti al suo cancello continuando a strillare si rese conto con disagio che quella dama ce l’aveva proprio con lei. Hoda era stupita e si mise ad ascoltare senza riuscire a credere. Prima di allora non aveva mai dato troppa importanza alle mogli o alle fidanzate dei suoi clienti, tranne occasionalmente quando si innamorava di qualcuno e si chiedeva con un po’ di nostalgia come sarebbe stato essere davvero importante per un uomo. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe stata svergognata e insultata, davanti a tutta la strada da qualcuno a cui non aveva neppure rivolto la parola in tutta la sua vita. Di sicuro Hoda non aveva niente a che fare su come quella vecchia signora accettasse o no ciò che aveva fatto il marito.
Ma cosa sarebbe successo, però, se il babbo avesse sentito quegli urli e in yiddish, tanto che non avrebbe più potuto sbagliarsi su quello che diceva? C’era già ogni tipo di persona lì fuori. Presto qualcuno sarebbe andato a dire in sinagoga che stava succedendo qualcosa lì vicino e allora tutti avrebbero affrettato le preghiere per andare a vedere. No, non poteva permetterlo. Quale diritto aveva quella donna di urlare e sbraitare riguardo al babbo e ai suoi cesti? Chi pensava di essere per venire e rovinare tutto? Cosa ne sapeva lei di Hoda, di Daniele e tutto il resto? Hoda non sapeva neppure chi fosse il marito, ma se voleva venire ed essere suo cliente non era certo lei a fermarlo, perchè qualcuno veniva a urlare e strillare davanti a tutto il quartiere insultando lei e il babbo!
Dopo il primo impulso di chiudere a chiave la porta e nascondersi dentro fino a ché quella estranea se ne fosse andata, Hoda decise di rendere pan per focaccia. Spalancò all’improvviso la porta precipitandosi giù per le scale e tuonando lungo il sentiero, "Chi pensi di poter insultare?" si mise a sbraitare "adesso ti faccio vedere io cosa vuol dire rompere i cesti di mio padre!" E, infatti, il cesto che la donna stava brandendo incominciava a sfilacciarsi dato che l’aveva sbattuto ripetutamente contro il cancello. Hoda non si fermò mentre urlava ma la investì come una giovane amazzone alla prima battaglia. "Insultami ancora che ti rompo il collo! Nessuno deve osare insultarmi!" Si fermò con un tonfo proprio davanti al cancello, con gli occhi che lanciavano scintille, i pugni serrati, torreggiante sopra quella anziana donnetta che aveva indietreggiato in fretta di alcuni passi sia dal cancello, sia dal suo approccio turbolento. Per un momento stettero ambedue in silenzio confrontandosi l’una l’altra e Hoda stessa era sbigottita di essere lì in piedi a spaventare quella donna piccola, vecchia e la metà della sua altezza, con una faccia tutta tremante e gli occhi che sbattevano. Ma perché non se ne andava prima che il babbo arrivasse? E anche tutta quella gente curiosa e impicciona che vedeva con la coda dell’occhio, mentre sogghignava e si divertiva sui guai degli altri.
Ma la sua antagonista non poteva essere defraudata del suo momento. " Vedete? Vedete?" disse girandosi verso gli spettatori "Vedete questa puttana svergognata, ha il coraggio di venirmi davanti! Non ho certo paura di te, vacca grassona, che dormi con qualsiasi luridume, sta lontana da mio marito, hai sentito?".
"Chi chiami vacca tu?" urlò Hoda e aprì con uno strattone il cancello scagliandosi con tutto il suo peso in avanti in modo minaccioso, come se stesse per caricare ma si fermò abbastanza a lungo da dare alla sua avversaria l’opportunità di voltarsi e correre prima che lei riuscisse ad afferrarla. L’idea di scontrarsi con quella donna e perfino di farla cadere a terra senza volerlo sgomentò Hoda, tanto quanto a quella droghiera sgomentava l’idea di subire una violenza fisica. Nei suoi sogni su un possibile drammatico confronto in cui lei avrebbe pubblicamente riversato sulla prostituta un po’ dell’amarezza che aveva nel cuore non era inclusa alcuna idea di un’umiliazione fisica. Con una certa trepidazione si rese conto che la puttana potesse avere altre idee e quindi fu combattuta fra il desiderio di rendere pubblico questo ennesimo affronto e l’incertezza riguardo alla sua incolumità fisica. Non le mancava certo l’immaginazione, e già, nel battere frettolosamente in ritirata lanciando insulti dietro le spalle, si poteva già vedere trascinarsi su per le scale della drogheria tutta rotta e insanguinata per poi crollare davanti a suo marito stordito e implorante con una frase finale: "Guarda, vedi cosa mi ha fatto la tua puttana?"
In quanto a Hoda, tutto quello che voleva era allontanare dalla casa sia la vecchia che gli spettatori prima che suo padre tornasse dalle sue preghiere. Così la inseguì minacciosa lungo due isolati, "Se mi insulti ancora ti uccido, mi senti?" e poi svoltando l’angolo attraversò la strada e si infilò giù per un altro vicolo tanto che la donna correva davanti terrorizzata, ma non tanto terrorizzata da smettere di rivolgersi alle teste che da destra e da sinistra continuavano a sbucare fuori dalle porte e dalle finestre. "La sentite? La sentite? Vuole uccidermi! Voi siete testimoni! Testimoni!" E nel frattempo continuava a correre con Hoda che le zoccolava pesantemente dietro, gridando obbligatoriamente a più non posso e voltandosi a destra e a sinistra, per essere sicura che la sentissero, dato che era così che l’altra voleva, "Certo che l’ammazzo! Viene a casa mia e m’ insulta, certo che l’ammazzo!"
Hoda aveva già dovuto rallentare in modo abbastanza cospicuo per lasciare che la vecchia potesse riprendere fiato, provando una vera fitta di pietà nel vedere quell’altra portare le mani al petto. Presto Hoda semplicemente trottava al fianco della sua antagonista, lanciando ogni tanto un forte urlo simbolico mentre l’altra ansante riusciva a trovare fiato per un insulto sempre più tiepido, e una volta, quando la sua nemica inciampò, Hoda automaticamente le si avvicinò per rimetterla in piedi. La donna tradita bofonchiò un automatico "grazie" allontanando la sua mano senza troppa convinzione, come se ambedue dovessero continuare la pantomima della rincorsa.
Quando finalmente giunsero alla drogheria, il marito, a causa del quale era stata allestita tutta quella litigata pubblica, fece l’errore di affacciarsi dalla porta proprio nel momento in cui sua moglie stava a fatica salendo gli scalini, ancora tenendo in mano il cesto ormai a brandelli. Hoda, che si era fermata sulla strada, dalla parte opposta del marciapiede, riconoscendo il suo cliente lo apostrofò senza pensare " A sei tu? Vivi da queste parti?"