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Cos’è la scuola - Rousseau, Kant, Capitini e altri



lunedì 29 novembre 2004 legge Franco Frabboni
Cos’è la scuola? Per ritrovare la bussola dell’insegnamento occorre riprendere in mano i classici.
Nella notte delle “riforme”, chi fa scuola è di fronte a difficili interrogativi, così anche il cittadino partecipe, come chi più in generale fa il mestiere di adulto.
La scuola per tutti? Anche per chi è arrivato in Italia da poco o per quelli più deboli? Anche per chi ha una famiglia nella quale non si legge o per chi ha già assaggiato la strada? E, soprattutto, come?
Forse ha ragione chi dice che non possiamo buttare energie e denari per insegnare ai tacchini ad arrampicarsi sugli alberi, quando ci sono tanti scoiattoli che lo sanno già fare benissimo… O forse no… Di sicuro, non si possono lasciare le cose alla deriva umiliante di oggi.
Il pedagogista Franco Frabboni proporrà un percorso attraverso le pagine di Rousseau, Freinet, Dewey, Feuerstein, Kant, Montessori, Capitini, Rodari. 


J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1995

Osservate la natura, seguite la strada che essa traccia per voi. La natura mette continuamente alla prova i bambini, temprando il loro carattere con insidie di ogni genere perché si familiarizzino al più presto con fastidi e dolori. I denti che spuntano provocano la febbre, coliche acute scatenano le convulsioni, tossi sfibranti li soffocano, i vermi li tormentano, la pletora corrompe il loro sangue in cui, fermentando, germi di vario genere provocano pericolose eruzioni. La prima età è quasi esclusivamente caratterizzata dalla malattia e dal rischio: la metà dei bambini che nascono muore prima dell’ottavo anno di vita. Ma attraverso queste prove il bambino si irrobustisce ed è proprio cimentandosi con la vita che acquista vitalità.
Ecco la regola della natura. Perché la contrariate? Non capite che, pensando di correggere la natura, distruggete la sua opera e rendete vano l’effetto delle sue cautele? Ritenete che fare all’esterno ciò che la natura fa all’interno raddoppierebbe il pericolo, invece lo ridurrebbe creando un diversivo. L’esperienza insegna che la mortalità cresce tra i bambini allevati tra eccessive precauzioni. A condizione di non superare il limite delle loro forze, si rischia di meno ad impiegarle che a risparmiarle. Preparateli agli attacchi che dovranno sostenere un giorno. Temprate il loro corpo alle intemperie delle stagioni, del clima, degli elementi; alla fame, alla sete, alla fatica; immergeteli nell’acqua dello Stige. Prima che il bambino acquisisca abitudini fisiche radicate, possiamo fargli assumere senza pericolo quelle che ci sembrano più opportune; ma una volta che le abitudini si sono consolidate, qualsiasi mutamento può essere pericoloso.
È dunque possibile rendere robusto un bambino, senza mettere a repentaglio la sua vita e la sua salute ma, se anche fosse necessario correre qualche rischio, non si dovrebbe esitare. Trattandosi di rischi intrinseci alla vita umana, che cosa si può fare di meglio che concentrarli nella fase dell’esistenza in cui sono meno svantaggiosi?
Crescendo il bambino diventa sempre più prezioso: al valore della sua persona occorre aggiungere quello delle cure che ha ricevuto; con il consumarsi della vita si sviluppa la sua consapevolezza della morte. Provvedendo alla sua conservazione è dunque soprattutto all’avvenire che bisogna pensare. Occorre renderlo agguerrito contro i mali della gioventù prima ancora che la raggiunga; se infatti il prezzo della vita cresce fino all’età in cui può essere utilmente impiegata, non è pura follia risparmiare gli esseri umani durante l’infanzia per renderli più vulnerabili una volta raggiunta l’età della ragione? Sono forse queste le lezioni del maestro?
Il destino dell’uomo è dominato da una perenne sofferenza e la sua stessa conservazione è garantita dal dolore. Fortunato chi, nel corso della sua infanzia, non conoscerà che mali fisici, cioè mali assai meno crudeli e dolorosi degli altri e che molto più raramente di quelli morali ci inducono a rinunciare alla vita. Nessuno si è mai ucciso per i dolori provocati dalla gotta; soltanto i mali dell’animo possono condurre alla disperazione. Ci impietosiamo sulla sorte dell’infanzia mentre è la nostra che dovremmo compiangere. Noi stessi siamo la causa dei nostri mali peggiori.
Il bambino nasce urlando e trascorre la prima infanzia piangendo. A volte ci preoccupiamo e cerchiamo di blandirlo perché si calmi, altre volte lo minacciamo e lo percuotiamo per farlo tacere. O lo accontentiamo, o pretendiamo che sia lui ad accontentarci, o ci pieghiamo ai suoi capricci, o pretendiamo che egli si sottometta ai nostri. Ignoriamo il giusto mezzo: il bambino deve impartire ordini o riceverne. In tal modo le prime idee che nascono in lui sono quelle di dominio e di soggezione. Prima di saper parlare comanda, prima di poter agire ubbidisce e talvolta viene punito quando non è ancora in grado di capire le sue mancanze, o piuttosto prima di commetterne. In tal modo si instillano precocemente nel suo giovane cuore passioni che vengono in seguito attribuite alla natura e dopo aver provveduto a renderlo cattivo ci si rammarica che lo sia.
Il bambino trascorre in questo modo i primi sei o sette anni della sua vita, in continuo contatto con le donne, vittima dei loro e dei propri capricci; dopo avergli fatto imparare questo e quello, ossia dopo aver appesantito la sua memoria o di parole che non può capire o di nozioni che non gli servono a niente, dopo aver soffocato la sua indole naturale con le passioni che gli sono state inculcate, consegniamo questo essere artefatto nelle mani di un precettore che provvede a completare la maturazione dei germi artificiosi che già esistono nel suo animo, e che gli insegna tutto tranne che a conoscersi, a trarre vantaggio da se stesso, a vivere degnamente raggiungendo la felicità.

Si discute molto sulle qualità che deve avere un buon educatore. La prima che io esigerei da lui, perché ne comporta molte altre, è di non essere un uomo che si vende. Ci sono delle professioni così nobili che chiunque le scelga per il compenso che ne deriva si rende indegno di svolgerle: tale è quella del militare, tale quella del precettore. Chi dunque educherà mio figlio? Ti ho già risposto: tu stesso. Ma io non posso. Non puoi!… Allora fatti sostituire da un amico. Non vedo altre soluzioni.
Un educatore! O anima sublime! Non possono esservi dubbi: per formare un uomo occorre un padre o un uomo che trascenda se stesso. Ecco il compito che voi affidate serenamente ad un mercenario.
Più si riflette sull’argomento, più si affacciano nuove difficoltà. L’educatore dovrebbe essere stato formato in funzione del suo allievo; bisognerebbe che i domestici, e tutti coloro che lo circondano, fossero educati tenendo presenti le esigenze del bambino e le impressioni che è necessario comunicargli; passando da un’educazione all’altra chissà fin dove bisognerebbe risalire. Come può un bambino essere educato correttamente da chi non ha a sua volta ricevuto una buona educazione?
Questo straordinario mortale è dunque introvabile? Non saprei dirlo
Ciò che posso anticipare è che un padre veramente consapevole del ruolo dell’educatore finirebbe col farne a meno. Dovrebbe infatti dispiegare maggiori fatiche a cercarlo che ad assumerne i compiti. Vuole dunque acquistare un amico? Educhi suo figlio perché lo diventi: sarà così dispensato dal cercare altrove e la natura avrà già provveduto a metà dell’opera.
Un personaggio di cui non conosco che il rango mi ha proposto di educare suo figlio. Sono lusingato da tanto onore ma, lungi dal rammaricarsi del mio rifiuto, egli dovrebbe rallegrarsi della mia discrezione. Se avessi accettato la sua offerta e sbagliato metodo, avremmo assistito ad un fallimento educativo; se fossi riuscito nel mio intento, le conseguenze sarebbero state ancora più gravi. Suo figlio avrebbe rinnegato il titolo, rifiutandosi di essere principe.
Sono troppo compreso della nobiltà dei compiti di un precettore e troppo consapevole dei miei limiti per poter accettare un simile compito da chiunque me lo proponesse e l’interesse stesso dell’amicizia costituirebbe per me un ulteriore motivo di rifiuto. Credo che pochi, dopo aver letto questo libro, saranno ancora tentati di farmi una proposta del genere e prego anche coloro che il libro non scoraggerà, di desistere evitando così un rifiuto.


C. Freinet Le mie tecniche Firenze, La Nuova Italia 1969

Nel mio lavoro pedagogico mi ritorna spesso in mente la scuola della mia infanzia.
Arrivavamo a scuola attraverso le strade e i sentieri, ebbri di aria aperta, nutriti delle opere che per noi avevano un gran significato, opere legate alla nostra vita presente e futura, nutriti di giochi naturali e di canti di uccelli Le preoccupazioni? Ben di rado ci accompagnavano. Il ragazzo in libertà fra i suoi compagni non è mai preoccupato, a meno che sia malato, oppure dominato da problemi insormontabili. La vita lo accaparra e lo sospinge avanti con un ottimismo fiducioso e promettente.

Eccoci giunti a scuola. Le idee non ci mancavano certo, e originali; la parola ci soccorreva veloce, con sottigliezza e arguzia; si incrociavano le iniziative, buone o cattive. Ma, bruscamente, la campana suonava, producendoci ad un tratto una specie di vuoto interiore. La vita si fermava lì, la scuola cominciava: un mondo nuovo, totalmente differente da quello che vivevamo con altre regole, altri obblighi, altri interessi, o cosa più grave, un’assenza di interessi talvolta drammatica. Un’ultima volta contavamo le palline nelle nostre tasche, nascondevamo una bella conchiglia trovate per la strada e che avremmo ritrovato all’uscita delle lezioni. Dovevamo scacciare il cane che ci aveva seguito e che si mostrava ben sorpreso di vederci divenire anonimi tutti in riga e scomparire in questo luogo separato dal mondo e dove era proibita ogni vita. La porta si richiudeva.
A quei tempi si diceva la preghiera. Oggi si canta, il che è meno austero, ma non impedisce che un mondo si sia chiuso, e che subentri un ambiente non familiare, che non si preoccupa del nostro essere familiare, pretendendo fornirci di “ricchezze” insospettabili, e che non potremo trovare altrove: l’istruzione e la scienza.

John Dewey, Il mio credo pedagogico Firenze,La Nuova Italia, 1954

Cos’è la scuola

Io credo che
la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale, la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno più efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali;
l’educazione è, perciò, un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro.
La scuola deve rappresentare la vita attuale – una vita altrettanto reale e vitale per il fanciullo di quella che egli conduce a casa, nel vicinato o nel recinto dei giochi.
Quell’educazione che non si compie per mezzo di forme di vita, forme che vale la pena di vivere per loro stesse, è sempre un inadeguato sostituto della realtà genuina e tende a impastoiare e a intorbidire.
La scuola, come istituzione, deve semplificare la vita sociale esistente; deve ridurla in certo modo a una forma embrionale. La vita esistente è così complessa che il fanciullo non può venirvi portato a contatto senza confusione o distrazione. Esso o è sopraffatto dalla molteplicità di attività che hanno luogo, sì che smarrisce la sua capacità di reagire ordinatamente, oppure è stimolato da queste varie attività in modo che le sue facoltà vengono attivate prematuramente ed esso o diventa indebitamente specializzato oppure si disintegra.
Intesa come vita sociale semplificata, la vita di scuola deve svolgersi gradualmente dalla vita domestica; che deve riprendere e continuare le attività che già in casa sono familiari al fanciullo.
Molta parte dell’educazione attuale fallisce poiché trascura questo principio fondamentale della scuola come forma di vita di comunità. Essa concepisce la scuola come il luogo dove si impartisce una certa somma di informazioni, dove devono essere apprese certe lezioni e dove devono venire formati certi abiti. Il valore di questi si concepisce come collocato in gran parte in un futuro remoto; il fanciullo deve fare queste cose in vista di qualche altra cosa che dovrà fare, e di cui esse sono la semplice preparazione. Per conseguenza esse non diventano una parte dell’esperienza vitale del fanciullo e pertanto non sono veramente educative.
L’educazione morale s’incentra in questa concezione della scuola come un modo di vita sociale, che l’addestramento morale migliore e più profondo è precisamente quello che uno ottiene dovendo entrare in giusti rapporti cogli altri in un’unità di lavoro e di pensiero. Gli attuali sistemi educativi, in quanto distruggono ovvero trascurano questa unità, rendono difficile o impossibile l’ottenere una genuina e regolare educazione morale.
Il fanciullo deve essere stimolato e controllato nel suo lavoro attraverso la vita della comunità.
Nella situazione attuale tale simbolo e controllo proviene in misura troppo grande dall’insegnante, poiché si trascura l’idea della scuola come forma di vita sociale.
Il posto e l’opera dell’insegnante nella scuola devono essere intesi partendo dalla medesima base. L’insegnante non è nella scuola per imporre certe idee al fanciullo o per formare in lui certi abiti, ma è lì come membro della comunità per selezionare le influenze che agiranno sul fanciullo e per assisterlo convenientemente a reagire a queste influenze.
La disciplina scolastica deve derivare dalla vita della scuola intesa come un tutto e non direttamente dall’insegnante.
Compito dell’insegnante è semplicemente quello di determinare, sulla scorta di un’esperienza più grande e di una più matura saggezza, come la disciplina della vita dovrà giungere al ragazzo.
Tutti i problemi della classificazione e della promozione del ragazzo devono essere esaminati in rapporto alla medesima misura. Gli esami servono solo se vagliano l’attitudine del fanciullo alla vita sociale e rivelano il posto nel quale esso può riuscire massimamente utile e nel quale può ricevere il maggior aiuto.


R. Feuerstein, Y. Rand, J.E. Rijnders Non accettarmi come sono Firenze, Sansoni 1995

Il modellamento degli ambienti modificanti

Quali sono le caratteristiche di un ambiente modificante? Per prima cosa esso è definito da un alto grado di apertura e mancanza di pregiudizi, che consente a ogni persona, anche con basso rendimento, di avere lo stesso accesso all’intera serie di opportunità della vita.
L’uguaglianza, in questo caso, è basata sull’universalità dei bisogni umani e sul rispetto di ciascuno, non sulla distribuzione dei beni. Allo stesso tempo, un ambiente modificante impone responsabilità relativamente uguali a ogni persona e fornisce gli strumenti necessari per mettere in grado ogni individuo di adempiere a queste responsabilità. Esso è assimilabile al principio della normalizzazione, che postula la creazione di condizioni favorevoli alle persone con ritardo, simili a quelle accessibili, in generale, a tutti i cittadini.
Secondo, un ambiente modificante crea le condizioni di tensione positiva verso il nuovo, al quale l’individuo ha bisogno di adattarsi. E’ solo quando il cambiamento è un bisogno reale dell’individuo, e la ricompensa, che segue l’adattamento, è significativa per la sua esistenza, che la modificabilità si realizza. L’ambiente protettivo che viene generalmente offerto alle persone con rendimento ritardato, nelle classi speciali, nei laboratori protetti, e nei campi “estivi per “soli disabili”, può limitate le loro capacità di adattamento. L’ambiente modificante ricorre a situazioni protette per lo stretto tempo necessario.
Terzo, un ambiente modificante organizza situazioni programmate e controllati di confronto con i compiti nuovi, producendo una tensione positiva tra ciò che è conosciuto e ciò che deve ancora essere appreso; tra ciò di cui si ha padronanza e quello di cui non lo si ha ancora. Lo scopo della mediazione, con soggetti con ritardo di apprendimento, è migliorare la loro capacità di adattamento alle situazioni nuove; la loro collocazione in u ambiente troppo prevedibile è controproducente. ‘adattamento alle condizioni di vita implica il bisogno di trasformarsi sostanzialmente e rapidamente in modo da riuscire a cavarsela in situazioni inaspettate. Il comfort “facilitato” che l’accettazione passiva offre nel presente, diventerà verosimilmente una fonte di grande disagio nel futuro. Proteggere l’individuo con rendimento ritardato da un impiego collettivo , per risparmiargli la tensione, è certamente umano, ma non ‘ un modo costruttivo per aiutarlo a modificare se stesso verso livelli più alti di efficienza. Osservando il modo in cui alcuni dipendenti con difficoltà di apprendimento non vengono stimolati dai loro datori di lavoro e dai colleghi, possiamo capire il loro basso livello di efficienza e la mancanza di motivazione, e perché siano – nel migliore dei casi – tollerati, piuttosto che ricercati per il loro contributo.
Talvolta i datori di lavoro e i colleghi evitano di creare situazioni e le pressioni necessarie a far sentire all’individuo che c’è bisogno di lui, che è importante che lavori bene e che arrivi al lavoro in orario. Chiunque sia coinvolto nella modificazione di una situazione professionale ha bisogno di capire che le nuove esigenze professionali devono cambiare di pari passo con la prontezza dell’individuo a cambiare, per rispondervi. Le condizioni ambientali debbono dunque essere strutturate in modo che rendano essenziale la modificabilità.
La quarta caratteristica di un ambiente modificante è l’intervento individualizzato e la mediazione.

Una squadra di baseball, potenziale campione del mondo, riceve l’ammirazione da parte dei suoi fans, che ne facilita la modificazione; allo stesso tempo, però, i membri della squadra continuano ad avere i loro compiti specifici (battere, correre alla base, ricevere) come punto forte. Un giardiniere coltiva tutto il suo appezzamento di terra, allo stesso tempo utilizza uno specifico tipo di fertilizzante per i pomodori diverso da quello che usa per la lattuga. Il proprietario di un nuovo ristorante, interessato a modificare l’aspetto generale del locale, cerca di caratterizzare anche ogni piatto del suo menù.
Come avviene per il baseball, il giardinaggio e la gestione di un ristorante, l’esperienza educativa valida deve contenere sia un’atmosfera di modificazione che opportunità di sviluppo di tecniche individualizzate per migliorare la modificazione. Ciascuna è complementare all’altra; ciascuna è essenziale all’altra.
E’ chiaro che, senza bisogno di dimostrazione, che la spinta a modificarsi deve essere dosata con cura, comprensione e amore, anche se non è facile. Senza modificazione attiva non c’è modo di aiutare le persone con rendimento ritardato a diventare capaci di adattarsi a ogni situazione.


Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Milano, Feltrinelli 1991

Terzo articolo definitivo per la pace perpetua
“Il diritto cosmopolitico deve essere limitato
alle condizioni dell’ospitalità universale”

Qui, come negli articoli precedenti, non è in discussione la filantropia, ma il diritto, e allora ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, se ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando sta pacificamente al suo posto non si deve agire verso di lui in senso ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi (per questo si richiederebbe un particolare e benevolo accordo per farlo diventare per un certo periodo un abitante della stessa casa), ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di offrire la loro società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro; questo diritto di ospitalità, questa raccolta propria degli stranieri in arrivo, a sua volta non va al di là delle condizioni che rendono possibile tentare il commercio con gli ambienti di quei paesi. In questo modo parti del mondo lontane possono pacificamente entrare in rapporti reciproci che alla fine diventano pubblicamente legali, avvicinando così sempre di più il genere umano verso una costituzione civile universale.
Se a ciò si confronta la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l’ingiustizia, di cui essi danno prova visitando paesi e popoli stranieri (visite che essi immediatamente identificano con la conquista), è tale da rimanere inorriditi.
La cosa peggiore (o la cosa migliore, se la si considera dal punto di vista di un giudizio morale) è che da queste azioni di violenza non traggono alcun profitto, e tutte queste compagnie commerciali sono vicine alla rovina; che la più crudele e la più raffinata delle schiavitù non producono alcun beneficio reale, e non servono che indirettamente per uno scopo molto poco lodevole, ossia a fornire marinai per le flotte militari e dunque a intraprendere nuove guerre in Europa, e a fare questo sono proprio gli Stati che fanno grande mostra della loro religiosità e, mentre per loro l’ingiustizia è facile come bere un bicchiere d’acqua, vogliono essere considerati come gli eletti dell’ortodossia.
Ora, poiché con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della Terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti, allora l’idea di un diritto cosmopolitico non appare più come un tipo di rappresentazione chimerica ed esaltata del diritto, ma come un necessario completamento del codice non scritto sia del diritto politico sia del diritto internazionale verso il diritto pubblico dell’umanità, e quindi verso la pace perpetua, e solo a questa condizione possiamo lusingarci di essere in costante cammino verso di essa.


Maria Montessori Educazione e pace, Milano, Garzanti, 1949

L’ educazione costruttiva della pace non può limitarsi alla scuola e all’ istruzione: è un’ opera di portata universale. Essa non consiste soltanto in una riforma dell’uomo, che permetta lo sviluppo interiore della personalità umana: ma è anche un orientamento verso i fini dell’ umanità e le condizioni presenti della vita sociale. Perché non soltanto l’uomo è pressoché sconosciuto a se stesso, ma egli ignora anche, nella generalità, il segreto di quei meccanismi sociali da cui dipendono oggi i suoi interessi e la sua salvezza immediata.
L’educazione assume oggi, nel particolare momento sociale che attraversiamo, un’ importanza veramente illimitata. E questa accentuazione del suo valore pratico si può esprimere in una sola frase :
l’ educazione è l’ arma della pace.
Io non discuto sull’ opportunità degli armamenti meccanici, non entro nella questione politica ; dico soltanto che la vera difesa dei popoli non può poggiare sulle armi: giacché le guerre si succederanno sempre l’una all’altra, e non potranno mai assicurare la pace e la prosperità di nessun popolo, finché non si ricorrerà a questo grande “ armamento per la pace ” che è l’ educazione.
Perché l’educazione costituisca veramente la salvezza dell’ umanità e della civiltà, essa non può mantenersi nei limiti e nella forma che oggi presenta. Oggi l’ educazione è rimasta troppo indietro rispetto alle esigenze attuali.
Per usare un paragone in carattere con l’ argomento, si potrebbe dire che l’educazione è rimasta a livello del lancio della freccia, rispetto all’attuale armamento bellico: come è possibile combattere a mezzo di frecce contro cannoni potentissimi e bombardamenti aerei ?
Perciò è necessario costruire e perfezionare l’ armamento dell’educazione.
E’ evidente che un’ educazione intesa a fondare la pace non può consistere solo nella ricerca dei mezzi atti a sottrarre il bambino alle suggestioni della guerra. Non sarebbe sufficiente evitare che i suoi giocattoli simulino le armi, o che egli studi la storia dell’ umanità come una successione di imprese guerresche, e consideri la vittoria sui campi di battaglia come un supremo onore. E neppure sarebbe sufficiente inculcare nel bambino l’ amore e il rispetto per tutti gli esseri viventi, e per tutte le cose che essi hanno costruito attraverso secoli di civiltà.
Gli uomini non fanno la guerra perché da bambini furono suggestionati da un giocattolo.
E l’insegnamento scolastico della storia, basato sull’ apprendimento mnemonico di date e di avvenimenti, non costituisce certo il metodo più indicato per infiammare all’ eroismo.
Evidentemente la guerra è un fenomeno complesso, che è importante conoscere e comprendere, soprattutto nel nostro tempo. Oggi l’ umanità è sopraffatta da avvenimenti di portata universale, che l’ educazione non ha ancora affrontati. L’ uomo di oggi è veramente come un fanciullo che si trovi solo e smarrito in un bosco, in balìa delle tenebre e dei rumori misteriosi della notte.
L’ uomo non conosce gli eventi che lo travolgono, e quindi non può assolutamente difendersene. La società si è evoluta in un senso puramente esteriore: ha saputo costruire enormi meccanismi, creare complesse vie di comunicazione, lasciando l’ umanità ancora ignara e disorganizzata. Sì, sono disorganizzati questi popoli, i cui individui pensano ciascuno al proprio benessere immediato.
L’ educazione, come oggi è intesa, incoraggia gli individui all’isolamento e al culto dell’ interesse personale : oggi si insegna agli scolari a non aiutarsi l’ un l’ altro, a non suggerire a chi non sa, a preoccuparsi solo della promozione, a conquistare un premio nella competizione con i compagni.
E questi poveri egoisti, stanchi mentalmente, si trovano poi nel mondo l’ uno accanto all’ altro come granelli di sabbia nel deserto: ciascuno è isolato dall’ altro, e tutti sono sterili; se si scatena un vento potente, questi pulviscoli umani, privi di una spiritualità che li vivifichi, verranno travolti e formeranno un turbine sterminatore.
L’ uomo nondimeno ha compiuto un altro miracolo, che sta alla base di tutto ed è la chiave di tutto : si tratta del miracolo più grande, e anche del più inconsapevole: l’ elevazione dell’ intelligenza umana Gli uomini possono comunicare fra loro con enorme facilità: nel corso della storia essi si sono organizzati in gruppi sempre più vasti, così che tutta l’ umanità oggi costituisce un gruppo solo; essi non ne hanno coscienza, e nondimeno è questa una realtà. Si può dire che tutta l’ umanità oggi abbia un comune funzionamento.
Tutta l’ umanità forma un solo organismo, eppure essa continua a vivere in un mondo di sentimenti superati. L’ umanità forma oggi un’ unità sola : una Nazione Unica .
La Nazione Unica ha scoperto tutta la terra ed ha riunito tutti gli uomini ; tutte le ricchezze.
La paura della povertà deve sparire, ma l’ uomo libero da questa paura deve comprendere che la ricchezza non va più cercata nella terra o nelle miniere o sulla superficie terrestre. Il Tesoro Unico
dell’ uomo, la materia prima che tutto gli promette, è l’ intelligenza umana, inesauribile tesoro.
Ecco perché l’ educazione non deve mirare soltanto alla protezione della personalità, ma ad orientare l’ uomo verso quelli che sono i tesori capaci di dargli una vita felice: l’ intelligenza dell’ umanità e la normalità della persona. Non bisogna perdere il benché minimo grammo di questa ricchezza, come nulla si è perso in passato delle ricchezze della terra. Tutto deve essere tesaurizzato.
La ricchezza dell’ uomo è la sua intelligenza, è l’ equilibrio della personalità e l’ organismo dell’ unità. Ciò che oggi occorre è quindi un’ educazione che orienti la personalità verso la grandezza dell’ uomo.


A.Capitini, In cammino per la pace, Einaudi 1962, p. 47.

“Per preparare la pace durante la pace è necessario diffondere nell’ educazione e nei rapporti con tutti, a tutti i livelli, una capacità di dialogo, una sincera apertura alla coesistenza e alla pacifica competizione di ideologie e di vari sistemi politici e sociali, nel comune sviluppo civile, ed affermare il lavoro come elemento costruttivo fondamentale.”

A.Capitini, Educazione aperta, la nuova Italia 1968, p. 412.

“L’ autonomia dei giovani non è qualcosa che nasce bell’ e fatta; (…) perché essa sia autentica e perché si consolidi nell’ adulto, occorre una lunga formazione (…) : il dominio su se stessi (…) il condursi secondo principi ragionevoli, il decidere contro l’ interesse personale quando esso si opponga all’ interesse pubblico, il riconoscere i propri torti, il non farsi trascinare a fare leggi ingiuste, l’ eleggere i capi che vogliono il bene generale, l’ abitudine e il desiderio della sincerità, la solidarietà nel bene, la tolleranza per le idee altrui, il rispetto delle minoranze, l’ arte di persuadere.”

A.Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa , Einaudi 1950, p.154.

“Sulla società viene applicato il criterio dell’ apertura. La società che sta lì chiusa nelle sue fruizioni e nel suo numero di esistenti è società per la morte. Società aperta significa società il cui carattere è di non escludere nessuno come persona esistente, di migliorarsi continuamente nei valori, apertura questa verticale, oltre quella orizzontale; società che dà e non chiede, società pervasa di libertà e di dedizione.”

Gianni Rodari, in F. Cambi Rodari pedagogista,
Roma, Editori Riuniti 1990


Perché in silenzio, bambino di Modena
Il gioco di ieri non hai continuato?
“Non è più ieri: ho visto la Celere
quando sui nostri babbi ha sparato.
Non è più ieri, non è più lo stesso:
ho visto, e so tante cose, adesso.
So che si muore una mattina
Sui cancelli dell’officina,
e sulla macchina di chi muore
gli operai stendono il tricolore.”