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La Globalizzazione e i suoi oppositori - Joseph E. Stiglitz

lunedì 13 dicembre 2004 legge Lorenzo Casaburi
La globalizzazione rappresenta il fenomeno economico, politico e culturale più importante e più controverso dell’inizio del Terzo Millennio.
Ne La globalizzazione e i Suoi Oppositori, Joseph Stiglitz, Premio Nobel per L’Economia nel 2001, esprime una radicale critica delle istituzioni internazionali che governano tale processo
Le sue accuse alle politiche del Fondo Monetario Internazionale e del WTO, ed in particolare al loro ruolo rispetto ai paesi in via di sviluppo, rappresentano un autorevole riferimento intellettuale per tutti coloro che credono in un’altra globalizzazione. L’autore, consapevole dell’irreversibilità del fenomeno in corso, propone infatti una nuova “strada da percorrere”, individuando le riforme necessarie per rendere più democratiche e trasparenti le istituzioni che regolano la politica economica internazionale. 


Per quali motivi una forza come la globalizzazione, che ha portato tanti vantaggi, si è trasformata in un tema così controverso? L’apertura al commercio internazionale ha aiutato tanti paesi a crescere in modo molto più rapido di quanto avrebbero potuto altrimenti. Il commercio internazionale favorisce lo sviluppo economico quando le esportazioni di un paese spingono la sua crescita economica. La crescita basata sulle esportazioni è stata l’orgoglio della politica industriale che ha arricchito gran parte dell’Asia, migliorando sensibilmente le condizioni economiche di milioni di individui. Per gli effetti della globalizzazione, molte persone vivono oggi più a lungo e con un tenore di vita nettamente superiore al passato. Gli occidentali possono anche accusare la Nike di sfruttamento per il basso livello salariale, ma per molte persone nei paesi in via di sviluppo un lavoro in fabbrica rappresenta un’alternativa decisamente più vantaggiosa rispetto a una vita da bracciante agricolo.
La globalizzazione ha ridotto il senso di isolamento percepito in gran parte del mondo in via di sviluppo, consentendo a molti di accedere a conoscenze di gran lunga superiori a quelle di cui cent’anni fa erano in possesso i ricchi di qualsiasi altro paese. Le contestazioni antiglobalizzazione in quanto tali sono il frutto di questa interconnessione. I collegamenti tra gli attivisti in diverse parti del mondo, in particolare quelli stabiliti via Internet, hanno generato la pressione che ha portato al trattato internazionale sulla messa al bando delle mine antiuomo, malgrado l’opposizione di molti potenti governi; sottoscritta nel 1997 da centoventuno paesi, la convenzione limita il rischio che bambini e altre vittime innocenti rimangano mutilati dalle mine. Un’analoga e ben orchestrata pressione pubblica ha costretto la comunità internazionale a cancellare il debito di alcuni dei paesi più poveri. Agli aspetti negativi della globalizzazione si affiancano spesso anche dei vantaggi: se da una parte l’apertura del mercato del latte giamaicano alle importazioni dagli Stati Uniti, decisa nel 1992, può aver danneggiato gli allevatori di bovini locali, dall’altra ha fatto sì che i bambini poveri potessero usufruire di latte più a buon mercato. È possibile che le nuove società estere nuocciano alle aziende di stato protette, ma è altrettanto probabile che possano contribuire a introdurre nuove tecnologie, oltre che a creare l’accesso a nuovi mercati e sviluppare nuovi settori.
Pur con mille difetti e anomalie, gli aiuti dall’ estero – un altro aspetto della globalizzazione – hanno comunque creato beneficio a milioni di persone, spesso in modi che sono passati quasi inosservati: i guerriglieri delle Filippine, deposte le armi, hanno trovato un lavoro grazie a un progetto finanziato dalla Banca mondiale; i progetti di irrigazione hanno più che raddoppiato il reddito degli agricoltori che hanno avuto la fortuna di ricevere l’acqua; i progetti educativi hanno portato l’alfabetizzazione nelle zone rurali; in alcuni paesi, i programmi di lotta contro l’Aids hanno contribuito a limitare la diffusione di questa terribile malattia.
Chi denigra la globalizzazione troppo spesso ne sottovalutata i vantaggi, ma i suoi fautori sono stati, se possibile, ancor meno imparziali. Per loro, la globalizzazione (associata tipicamente all’accettazione del capitalismo trionfante, sul modello americano) è progresso; i paesi in via di sviluppo devono accettarla se vogliono crescere e combattere la povertà in maniera efficace. Ma per molti nel mondo in via di sviluppo la globalizzazione non ha portati i vantaggi economici sperati.
Un divario progressivamente più accentuato tra ricchi e poveri ha ridotto in miseria un numero sempre maggiore di persone del Terzo mondo, costrette a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Malgrado le reiterate promesse di ridurre la povertà fatte negli ultimi dieci anni del XX secolo, il numero effettivo di persone che vivono in povertà è invece aumentato di quasi cento milioni mentre, allo stesso tempo, il reddito mondiale complessivo è cresciuto in media del 2,5 per cento annuo. […]
Non a torto, i critici della globalizzazione accusano i paesi occidentali di ipocrisia. Questi ultimi hanno spinto i paesi poveri a eliminare le barriere commerciali, ma hanno mantenuto le proprie, impedendo così ai paesi in via di sviluppo di esportare i loro prodotti agricoli e privandoli di fatto del reddito delle esportazioni di cui invece hanno disperato bisogno. Gli Stati Uniti, naturalmente, sono tra i principali colpevoli e la questione mi ha toccato profondamente. Quando ero presidente del Consiglio dei consulenti economici, ho combattuto strenuamente contro questa ipocrisia che non soltanto ha danneggiato i paesi in via di sviluppo, ma è costata miliardi di dollari agli americani che, come consumatori, hanno dovuto affrontare aumenti dei prezzi e, come contribuenti, sono stati chiamati a finanziare sovvenzioni per miliardi di dollari. Tuttavia, nella maggior parte dei casi le mie battaglie non hanno sortito alcun risultato. Gli interessi particolari, commerciali e finanziari hanno sempre avuto il sopravvento e quando sono passato alla Banca mondiale ho potuto valutarne a pieno le conseguenze sui paesi in via di sviluppo.
Anche quando non si è macchiato di ipocrisia, l’ Occidente ha sempre tenuto in mano le redini della globalizzazione facendo ben attenzione a trarne il massimo dei vantaggi, a spese del mondo in via di sviluppo. Non vi è stato soltanto il rifiuto da parte dei paesi più avanzati di aprire i propri mercati alle merci provenienti dai paesi in via di sviluppo – mantenendo, per esempio, i loro contingenti su moltissime merci, dai prodotti tessili allo zucchero – e l’insistenza affinché questi ultimi aprissero invece le loro frontiere ai beni prodotti dai paesi più ricchi, ma anche il fatto che i paesi industrializzati hanno continuato da una parte a sovvenzionare l’agricoltura, mettendo così in difficoltà i paesi in via di sviluppo che non riescono a essere competitivi, e dall’altra a insistere che questi abolissero i sussidi sui beni industriali. Analizzando i “termini di scambio” – i prezzi che i paesi più e meno sviluppati ottengono per le merci che producono – dopo l’ottavo e ultimo protocollo commerciale del 1995, l’effetto netto è stato la riduzione degli introiti di alcuni dei paesi più poveri rispetto a ciò che invece pagavano per le importazioni, con il risultato che alcuni di essi hanno visto peggiorare notevolmente la loro situazione.
Le banche occidentali hanno tratto vantaggio dall’attenuazione dei controlli sui mercati finanziari in America Latina e in Asia, ma queste regioni hanno subito un contraccolpo quando improvvisamente si è interrotto l’afflusso di capitali vaganti (denaro che entra ed esce da un paese, con operazioni a brevissimo termine che spesso si riducono a una scommessa sull’apprezzamento o il deprezzamento di una valuta) provenienti da operazioni speculative a cui certi paesi erano abituati. Il brusco deflusso di denaro ha provocato il tracollo di alcune valute e l’indebolimento dei sistemi bancari. L’Uruguay round ha anche rafforzato i diritti di proprietà intellettuale. Le case farmaceutiche americane e occidentali potevano ora impedire alle loro omologhe in India e in Brasile di “violare” la loro proprietà intellettuale. Ma queste industrie operanti nei paesi in via di sviluppo mettevano i farmaci salvavita a disposizione dei cittadini a un prezzo minimo rispetto a quello praticato dalle case farmaceutiche occidentali.
Le decisioni dell’Uruguay round, come tutte le medaglie, avevano il loro rovescio. I profitti delle industrie farmaceutiche occidentali sarebbero aumentati. I fautori di simili provvedimenti sostenevano che questo le avrebbe spinte a incentivare le innovazioni, anche se i profitti derivanti dalle vendite nei paesi in via di sviluppo rimanevano contenuti, dal momento che pochi potevano permettersi i farmaci e quindi, nella migliore delle ipotesi, l’effetto sarebbe stato limitato.
L’altro aspetto era che migliaia di persone, di fatto, sarebbero state condannate a morte perché né i governi né i singoli individui nei paesi in via di sviluppo potevano più permettersi di acquistare i farmaci ai prezzi richiesti. Nel caso dell’Aids, lo sdegno a livello internazionale è stato tale che le industrie farmaceutiche alla fine del 2001 si sono trovate costrette a fare marcia indietro e ad accettare una riduzione dei listini cedendo i medicinali a prezzo di costo. Ma il problema di fondo rimane irrisolto: il regime di proprietà intellettuale stabilito dall’Uruguay round non è equilibrato, in quanto riflette in modo preponderante gli interessi e il punto di vista dei produttori anziché degli utenti, sia nel mondo industrializzato sia in quello in via di sviluppo.
Non soltanto nel caso della liberalizzazione, ma in ogni altro aspetto della globalizzazione, misure apparentemente animate dalle migliori intenzioni spesso hanno sortito l’effetto opposto. Anche quando i progetti agricoli o infrastrutturali raccomandati dall’Occidente, messi a punto da consulenti occidentali e finanziati dalla Banca mondiale o da altre istituzioni, falliscono, i paesi poveri devono comunque restituire il prestito. […]
In questo libro mi occupo principalmente di FMI e di Banca mondiale perché, negli ultimi
vent’anni, si sono trovati al centro di importanti questioni economiche tra cui le crisi finanziarie e la transizione dei paesi ex comunisti verso l’economia di mercato. Entrambe le organizzazioni furono istituite durante la Seconda guerra mondiale a seguito della Conferenza monetaria e finanziaria tenutasi a Bretton Woods, nel New Hampshire, nel luglio 1944, nel contesto di uno sforzo concentrato per finanziare la ricostruzione dell’Europa dopo la devastazione del conflitto e salvare il mondo da future depressioni economiche. Il nome esatto della Banca mondiale – Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo – riflette la sua missione di origine; l’ultima parte, “sviluppo”, è stata aggiunta come per un ripensamento. All’epoca, molti dei paesi in via di sviluppo erano ancora colonie e qualsiasi piccolo sforzo potesse essere compiuto in termini di sviluppo economico era considerato un dovere dei dominatori europei.
Il compito più difficile par assicurare la stabilità economica globale fu assegnato all’FMI. I delegati che parteciparono alla conferenza di Bretton Woods avevano ben presente la depressione globale degli anni Trenta. Quasi settantacinque anni fa, il capitalismo affrontò la crisi più grave che l’abbia colpito fino ad ora. La Grande depressione avviluppò tutto il mondo e portò a un aumento senza precedenti della disoccupazione. Nel momento peggiore, un quarto della forza lavoro statunitense era disoccupata. L’economista britannico John Maynard Keynes, che sarebbe poi stato uno dei partecipanti chiave di Bretton Woods, offrì una spiegazione semplice e una serie altrettanto semplice di indicazioni: la mancanza di una domanda aggregata sufficiente spiegava le contrazioni economiche; le politiche dei governi potevano aiutare a stimolare la domanda aggregata. Nei casi in cui la politica monetaria è inefficace, i governi potrebbero fare ricorso a politiche fiscali, aumentando le spese o riducendo le imposte. Sebbene i modelli alla base dell’analisi di Keynes siano poi stati criticati e perfezionati e abbiano spiegato come mai le forze di mercato non operano velocemente per portare l’economia alla piena occupazione, la lezione di base rimane valida.
L’FMI fu incaricato di evitare una nuova depressione a livello mondiale esercitando una pressione internazionale sui paesi che, non facendo la loro parte nel mantenere la domanda globale, lasciavano sprofondare le loro economie. Quando fosse stato necessario, avrebbe anche fornito liquidità sotto forma di prestiti ai paesi vittime di una contrazione economica e incapaci di stimolare la domanda aggregata con risorse proprie.
Per come era stato concepito allora, l’FMI si basava sulla consapevolezza che i mercati spesso non funzionavano a dovere, che potevano produrre livelli elevati di disoccupazione e non essere in grado di mettere i fondi necessari a disposizione dei paesi in crisi per aiutarli a risollevarsi. L’FMI si basava sulla convinzione che per raggiungere la stabilità economica fosse necessaria un’azione collettiva a livello globale, così come l’ONU era stato fondato sul presupposto che occorresse un’azione collettiva a livello globale per garantire la stabilità politica. L’FMI è un’ istituzione pubblica, finanziata dai contribuenti di tutto il mondo. È importante sottolineare questo aspetto, perché di fatto questo organismo non risponde direttamente né ai cittadini che lo finanziano né alle persone coinvolte nelle sue politiche, bensì ai ministeri delle Finanze e alle banche centrali dei vari governi, i quali esercitano il loro controllo attraverso un complicato sistema di votazione basato principalmente su quello che era il potere economico dei diversi paesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Da allora, sono state introdotte alcune modifiche di modesta entità, ma sono le principali nazioni industrializzate a comandare e un solo paese, gli Stati Uniti, ad avere un effettivo diritto di veto. (In questo senso, la situazione è simile a quella dell’ONU, in cui anacronisticamente hanno diritto di veto le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale; ma perlomeno si tratta di cinque paesi).
Negli anni, l’FMI è cambiato profondamente. Nato sul presupposto che i mercati spesso funzionino male, ora sostiene con fervore ideologico la supremazia del mercato. Costruito sul convincimento che occorra esercitare una pressione internazionale sugli stati affinché adottino politiche economiche più espansive – aumentando per esempio le spese, riducendo le imposte oppure abbassando i tassi di interesse per stimolare l’economia – oggi l’FMI tende a fornire i fondi solo ai paesi che si impegnano a condurre politiche volte e contenere il deficit, ad aumentare le tasse oppure ad alzare i tassi di interesse e che pertanto conducono a una contrazione dell’economia. Keynes si rivolterebbe nella tomba se vedesse che ne è stato della sua creatura. […]
Le idee e le intenzioni che hanno animato la creazione delle istituzioni economiche internazionali erano buone, ma hanno subito un’evoluzione graduale nel tempo fino a trasformarsi completamente. L’orientamento keynesiano dell’ FMI, che sottolineava i fallimenti del mercato e il ruolo dei moderni nella creazione dei posti di lavoro, è stato sostituito dal ritornello del libero mercato degli anni Ottanta, nel contesto di un nuovo Washington Consensus – vale a dire un’ identità di vedute tra l’FMI, la Banca mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti circa le politiche “giuste” per i paesi in via di sviluppo – che ha segnato un approccio totalmente diverso allo sviluppo economico e alla stabilizzazione.
Molte delle idee del Consensus sono state sviluppate in risposta ai problemi dei paesi
latino-americani i cui governi avevano perso qualsiasi controllo sul bilancio dello Stato a causa di politiche monetarie spregiudicate che avevano provocato un’inflazione dilagante. L’ondata di crescita registrata in alcuni di quei paesi nei decenni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale non si era stabilizzata, presumibilmente a causa di un eccessivo intervento nell’economia da parte dello Stato. Tali idee, nate per affrontare quelli che si suppone fossero problemi specifici dei paesi latino-americani, sono poi state giudicate applicabili a tutti gli altri paesi del mondo. È stata spinta la liberalizzazione dei mercati finanziari malgrado nulla dimostri che sia in grado di stimolare la crescita economica. In altri casi, le politiche economiche confluite nel Washington Consensus e poi introdotte nei paesi in via di sviluppo si sono rivelate inadeguate per le nazioni che si trovano in una fase iniziale dello sviluppo della transizione. […]
L’applicazione di teorie economiche sbagliate non rappresenterebbe un così grave problema se la fine del colonialismo prima e del comunismo poi non avessero dato all’FMI e alla Banca mondiale l’occasione di ampliare i rispettivi mandati originari estendendo notevolmente il loro raggio
d’azione. Oggi, queste istituzioni sono diventate protagoniste dominanti dell’economia mondiale. Sono tenuti a seguire i loro dettami economici, dettami che riflettono le loro ideologie e teorie neoliberiste, non soltanto i paesi che ne chiedono l’aiuto, ma anche quelli che ne cercano
l’approvazione formale per poter accedere più facilmente ai mercati finanziari internazionali.
Per molti questo ha significato povertà e per numerosi paesi caos sociale e politico. L’FMI ha commesso errori in tutti i campi in cui ha operato : sviluppo, gestione delle crisi e transizione delle economie nazionali dal comunismo al capitalismo. I programmi di adeguamento strutturale non hanno recato benefici neppure a quei paesi che, come la Bolivia, si sono sottoposti alle sue limitazioni; in molti paesi, l’eccessiva austerità ha soffocato la crescita. Per riuscire, un programma economico deve prestare la massima attenzione alla sequenza di realizzazione delle riforme e ai tempi. Se, per esempio, si aprono troppo presto i mercati alla concorrenza, prima cioè che vengano fondate istituzioni finanziarie forti, saranno più i posti di lavoro perduti che non quelli creati. In molti paesi, errori nella sequenza delle riforme e nei tempi di attuazione dei programmi hanno causato un aumento della disoccupazione e della povertà. Dopo la crisi asiatica del 1997, le politiche dell’FMI hanno aggravato la situazione dell’Indonesia e della Thailandia. Le riforme neoliberiste in America Latina hanno registrato un paio di successi – il Cile viene ripetutamente citato –, ma molti paesi del continente devono ancora recuperare il decennio di mancata crescita seguito ai cosiddetti salvataggi riusciti dell’FMI nei primi anni Ottanta. Pur avendo ridotto
l’inflazione, molte nazioni latino-americane continuano ad avere livelli di disoccupazione molto elevati, come il tasso a due cifre che affligge l’Argentina dal 1995. La crisi Argentina del 2001 è uno dei più recenti di una serie di fallimenti avvenuti negli ultimi anni. Dato il tasso elevato di disoccupazione che si è protratto per quasi sette anni, non c’ è da stupirsi tanto del fatto che alla fine i cittadini siano insorti, quanto di come abbiano potuto soffrire in silenzio così a lungo. Anche i paesi che hanno registrato una certa crescita hanno visto poi andare i benefici nelle tasche dei benestanti, in particolar modo quel 10 per cento di persone già molto ricche, mentre la povertà è rimasta tale e, in alcuni casi, il reddito dei più sfortunati è addirittura diminuito.
Alla base dei problemi dell’FMI e delle altre istituzioni economiche internazionali c’è il tema della governance, cioè il modo in cui sono governate. Le istituzioni sono dominate non soltanto dai paesi industrializzati più ricchi, ma anche dagli interessi commerciali e finanziari di questi ultimi e le politiche delle istituzioni, ovviamente, riflettono tale situazione. La scelta dei capi di queste istituzioni simboleggia il problema delle istituzioni stesse e, molto spesso, ha contribuito al loro cattivo funzionamento. Sebbene quasi tutte le attività dell’FMI e della Banca mondiale si svolgano oggi nei paesi in via di sviluppo (di sicuro, tutta l’ attività creditizia), entrambe le istituzioni sono guidate da rappresentanti delle nazioni industrializzate. (Per consuetudine o per un tacito accordo, il capo dell’FMI è sempre europeo e quello della Banca mondiale è sempre americano). Essi si sono scelti il segreto e il fatto che il capo debba essere esperto delle problematiche dei paesi in via di sviluppo non è mai stato considerato fondamentale. Le istituzioni non sono rappresentative nelle nazioni che servono.
I problemi derivano anche da chi parla per il paese. All’FMI, sono i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali. Al WTO sono i ministri del Commercio. Ciascuno di questi è intimamente allineato con interessi particolari all’ interno del proprio paese. I ministri del Commercio si fanno portatori delle istanze della comunità commerciale – sia gli esportatori che auspicano l’ apertura di nuovi mercati per i loro prodotti sia i produttori di merci in concorrenza con le importazioni. Questi gruppi, naturalmente, cercano per quanto possibile di mantenere in vita le barriere commerciali e di ottenere tutte le possibili sovvenzioni che il Congresso (o i rispettivi parlamenti) sono disposti a concedere. Il fatto che le barriere commerciali facciano salire i prezzi al consumo oppure che le sovvenzioni impongano degli oneri ai contribuenti passa in secondo piano rispetto ai profitti dei produttori, mentre le questioni ambientali e relative al mondo del lavoro vengono considerate ancor meno e, semmai, solo come ostacoli da superare. I ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali sono tipicamente legati alla comunità finanziaria; essi provengono da società finanziarie ed è lì che ritornano dopo una parentesi professionale nelle istituzioni pubbliche. Robert Rubin, segretario del Tesoro americano per gran parte del periodo descritto in questo libro, proveniva dall’importantissima banca di investimento Goldman Sachs ed è poi tornato nel mondo della finanza entrando nella più grande banca commerciale del mondo, la Citibank, controllata di Citigroup. Il numero due dell’FMI in quello stesso periodo, Stan Fischer, passò direttamente dall’ FMI al Citigroup. È naturale che queste persone vedano il mondo attraverso gli occhi della comunità finanziaria. Le decisioni di qualsiasi istituzione riflettono naturalmente i punti di vista e gli interessi di chi prende le decisioni. Non c’è da stupirsi che, come avremo modo di constatare ripetutamente nei prossimi capitoli, le politiche delle istituzioni economiche internazionali siano spesso anche troppo allineate agli interessi commerciali e finanziari dei paesi industrializzati.



Priorità e strategie

E’ importante considerare non soltanto quello che l’FMI mette in agenda, ma anche quello che lascia fuori. La stabilizzazione è in agenda, la creazione di posti di lavoro no. L’imposizione fiscale è in agenda, la riforma fondiaria no. Si trovano i soldi per salvare le banche, ma non per migliorare la scuola e i servizi sanitari e men che meno per salvare i lavoratori licenziati per l’effetto della cattiva gestione macroeconomica dell’FMI.
Se affrontate molte questioni tra quelle ignorate dal Washington Consensus avrebbero potuto assicurare tanto una crescita più elevata quanto una maggiore uguaglianza. La stessa riforma fondiaria evidenzia le scelte in gioco in diversi paesi. In molte nazioni in via di sviluppo, pochi ricchi possiedono gran parte della terra. La maggioranza della popolazione lavora come fittavola trattenendo la metà, se non meno, di ciò che produce. Questo sistema di mezzadria indebolisce gli incentivi: infatti, quando il povero contadino divide il raccolto a metà con il proprietario terriero, è come se venisse gravato di un’imposta del 50 per cento. L’FMI si scaglia contro le tasse elevate imposte ai ricchi, sottolineando come distruggano gli incentivi, ma non spende nemmeno una parola su queste forme di imposizione fiscale occulta. Una riforma fondiaria realizzata correttamente, che garantisca ai contadini non soltanto la proprietà della terra, ma anche l’accesso al credito e a servizi di assistenza per l’apprendimento di nuove tecniche agricole, potrebbe dare un impulso formidabile alla produzione. Ma la riforma fondiaria rappresenta un mutamento radicale della struttura della società, non necessariamente apprezzato dall’élite che popola i ministeri delle Finanze e interagisce con le istituzioni finanziarie internazionali. Se queste istituzioni si preoccupassero davvero della crescita e della riduzione della povertà, avrebbero prestato maggiore attenzione al problema: la riforma fondiaria ha preceduto alcuni dei più riusciti modelli di sviluppo, com’è avvenuto per esempio in Corea e a Taiwan.
Un altro tema trascurato è quello della regolamentazione del settore finanziario. Prendendo in considerazione la crisi dell’America Latina dei primi anni Ottanta, l’FMI sosteneva che gli squilibri fossero causati da politiche fiscali imprudenti e politiche monetarie blande. Ma le crisi verificatesi in tutto il mondo avevano evidenziato una terza fonte di instabilità, vale a dire un’inadeguata regolamentazione del settore finanziario. Eppure, l’FMI premeva per allentare la regolamentazione, fino a quando la crisi nell’Est asiatico non lo costrinse a cambiare rotta.
Se la riforma fondiaria e la regolamentazione del settore finanziario erano sottovalutate dall’FMI e dal Washington Consensus, in molte sedi era sopravvalutata l’inflazione. Naturalmente, in regioni come l’America Latina perennemente afflitte da un’inflazione galoppante, era giusto tenere la situazione sotto controllo, ma un’attenzione eccessiva per l’inflazione da parte dell’FMI ha provocato l’aumento dei tassi d’interesse e dei tassi di cambio, producendo disoccupazione anziché crescita. Forse i mercati finanziari saranno anche stati soddisfatti del tasso di inflazione contenuto, ma i lavoratori – e tutti coloro che si preoccupano della povertà – non hanno apprezzato le cifre: crescita bassa, disoccupazione elevata.
Fortunatamente, la riduzione della povertà ha acquisito un’importanza sempre crescente nelle priorità per lo sviluppo. Abbiamo detto sopra che né le strategie del trickle down né quelle del trickle down plus hanno funzionato. Eppure, in media, i paesi che hanno registrato una crescita più veloce sono anche riusciti a ridurre maggiormente la povertà, come dimostrano ampiamente gli esempi della Cina e dell’Est asiatico. È altrettanto vero, però, che per sradicare la povertà occorrono risorse che si possono ottenere solo con la crescita. Non deve quindi sorprendere che esista una correlazione tra crescita e riduzione della povertà, ma questa correlazione non dimostra che le strategie del trickle down ( o del trickle down plus ) rappresentino l’arma migliore per aggredire la povertà. Al contrario, le statistiche dimostrano che certi paesi sono cresciuti senza diminuire la povertà, mentre alcuni sono riusciti – indipendentemente dal tasso di crescita – a ridurre la povertà più di altri. Il punto non è se essere a favore o contro la crescita. Per certi versi, il dibattito crescita/povertà sembra inutile. Dopotutto, quasi tutti credono nella crescita.
La questione riguarda l’impatto di alcune politiche particolari. Alcune politiche promuovono la crescita, ma hanno scarso effetto sulla povertà; altre promuovono la crescita, ma di fatto aumentano la povertà; altre ancora favoriscono la crescita riducendo al tempo stesso la povertà. Talvolta vengono adottate politiche doppiamente vincenti, come la riforma fondiaria o una maggiore scolarizzazione per i poveri, che promettono anche più crescita e più uguaglianza. Ma molto spesso si deve scendere a compromessi. Talvolta, la liberalizzazione del commercio può favorire la crescita, ma al tempo stesso, quanto meno nel breve periodo, provoca un aumento della povertà – soprattutto se realizzata in tempi rapidi – poiché alcuni lavoratori vengono licenziati. E altre volte vengono adottate politiche doppiamente svantaggiose, in cui la crescita aumenta pochissimo o non aumenta affatto, ma in compenso aumentano di molto le sperequazioni. Per molti paesi, la liberalizzazione dei mercati finanziari rappresenta un esempio. Il dibattito crescita/povertà riguarda le strategie di sviluppo – strategie che vadano alla ricerca di politiche capaci di ridurre la povertà da una parte e favorire la crescita dall’altra, strategie che escludano quelle politiche capaci soltanto di aumentare la povertà senza favorire la crescita e che, nel valutare le situazioni in cui necessariamente occorrono dei compromessi, diano la giusta importanza alle conseguenze che subiranno i poveri.
Per capire le scelte occorre capire le cause e la natura della povertà. Non è che i poveri siano pigri: spesso lavorano sodo, e con orari estenuanti, con una fatica nettamente maggiore rispetto ad altri che stanno economicamente molto meglio di loro. Molti sono prigionieri di un circolo vizioso: la mancanza di cibo indebolisce la salute, il che limita la capacità di produrre reddito, con ulteriori conseguenze negative sulla salute. Ai limiti della sopravvivenza, non possono mandare a scuola i loro figli che, privi d’istruzione, sono a loro volta condannati a una vita di povertà. La povertà è ereditaria: passa da una generazione all’altra. I contadini poveri non possono permettersi di acquistare i fertilizzanti e le sementi ad alta resa che potrebbero aumentare la loro produttività.
[…]
Non tutte le conseguenze negative che le politiche del Washington Consensus avrebbero avuto sui poveri erano prevedibili, ma ora sono chiare. Abbiamo visto come la liberalizzazione del commercio accompagnata da tassi d’interesse elevati sia una ricetta pressoché infallibile per distruggere posti di lavoro e creare disoccupazione a spese dei poveri. La liberalizzazione dei mercati finanziari non accompagnata da un’appropriata regolamentazione è un’altra ricetta quasi garantita per l’instabilità economica e può portare all’aumento, anziché alla diminuzione, dei tassi d’interesse rendendo così impossibile ai contadini l’acquisto delle sementi e dei fertilizzanti che potrebbero aiutarli a superare il livello di sussistenza. La privatizzazione, non accompagnata da politiche di regolamentazione della concorrenza capaci di impedire l’abuso dei poteri monopolistici, può provocare un aumento anziché una riduzione dei prezzi per i consumatori. L’austerità fiscale, perseguita ciecamente, nelle circostanze sbagliate, può portare a un aumento della disoccupazione e alla disgregazione del contratto sociale.
Se da una parte l’FMI ha sottovalutato i rischi per i poveri delle sue strategie di sviluppo, dall’altra ha anche trascurato i costi sociali e politici a lungo termine di provvedimenti che hanno devastato la classe media, arricchendo poche persone già al vertice, e sopravvalutato i vantaggi delle sue politiche ispirate al fondamentalismo del mercato. Da sempre, le classi medie sono state il gruppo che ha premuto per il primato della legge, per l’istruzione pubblica universale e per la creazione di una rete di tutele sociali. Questi sono elementi essenziali di un’economia sana e l’erosione della classe media ha portato a una concomitante erosione del sostegno a queste importanti riforme.
Mentre da una parte sottovalutava il costo dei suoi programmi, dall’altra l’FMI ne sovrastimava i vantaggi. Prendiamo per esempio il problema della disoccupazione. Per l’FMI e tutti quelli che credono che in un mercato funzionante la domanda debba equivalere all’offerta, la disoccupazione è il sintomo di un’interferenza nel libero funzionamento del mercato. I salari sono troppo alti (per esempio, per il potere dei sindacati). L’ovvio rimedio alla disoccupazione è quindi ridurre i salari; salari più bassi avrebbero fatto aumentare la domanda di manodopera, favorendo l’ingresso di molti nel mondo del lavoro.