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Che cos’è l’esperienza estetica? Una risposta indiana - Abhinavagupta





lunedì 07 maggio 2007 legge Saverio Marchignoli
Abhinavagupta, uno dei massimi pensatori indiani, nacque in Kashmir nella seconda metà del X secolo d.C. Si occupò di filosofia, di religione e di estetica. In campo filosofico continuò il lavoro del maestro della scuola del “riconoscimento” Utpaladeva. In ambito religioso fu originalissimo esponente dello scivaismo tantrico. Con i suoi lavori di estetica portò alla sua formulazione conclusiva la teoria della “risonanza” (dhvani) come essenza della poesia. 



Che cos’è l’esperienza estetica?
Una risposta indiana
nelle parole del filosofo Abhinavagupta. 


Abhinavagupta, uno dei massimi pensatori indiani, nacque in Kashmir
nella seconda metà del X secolo d.C. Si occupò di filosofia, di
religione e di estetica. In campo filosofico continuò il lavoro del
maestro della scuola del “riconoscimento” Utpaladeva. In ambito
religioso fu originalissimo esponente dello çivaismo tantrico nondualista.
Con i suoi lavori di estetica portò alla sua formulazione
conclusiva la teoria della “risonanza” (dhvani) come essenza, o
anima, della poesia. Nella sua visione l’esperienza estetica è
autonoma e si eleva al di sopra dell’esperienza ordinaria per divenire
gustazione di un piacere universale e temporaneamente appagante,
analogo a quello conseguente all’esperienza spirituale suprema.
Abhinavagupta non riduce tuttavia l’esperienza estetica all’esperienza
mistica, ma individua le caratteristiche che rendono la poesia e il
teatro capaci di produrre nel fruitore dotato di “cuore” uno stato di
coscienza libero e meravigliato che, nel temporaneo accesso al
godimento supremo e pacificato, costituisce la premessa per una
trasformazione interiore.
Le sue opere dedicate espressamente all’estetica si presentano, come
spesso si verifica nella storia del pensiero indiano, sotto la forma di
commenti ad altre opere, a precisamente allo Dhvanyåloka (“Principî
dello dhvani”) di Ånandavardhana (IX sec. d.C.) e al Nå¥yaçåstra
(“Scienza del teatro”) attribuito al mitico Bharata. Questi commenti
sono intitolati rispettivamente Dhvanyålokalocana e Abhinavabharatî.
In italiano sono state tradotte da Raniero Gnoli le sue più importanti
opere di ambito filosofico-religioso (Tantråloka, etc.).


0) Introduzione
Da: Ânandavardhana, Dhvanyâloka. I
principî dello dhvani, tr. it. di V. Mazzarino,
strofe senza parte in prosa I.2 – I.19- 


I.2 Quel significato che è gradito alle persone sensibili è
stato definito l’anima della poesia. Esso, si insegna, è di due
specie: esplicitato [våcya] e implicitato [pratîyamåna].
I.3 Di questi, l’esplicitato è già ben noto: le diverse forme
che esso assume (similitudine, ecc.) sono state ampiamente
esposte da altri;
I.4 Ma l’implicitato è una cosa del tutto diversa, nelle opere
dei grandi poeti. Esso infatti è quello che risplende al di
sopra degli elementi già noti, come il fascino risplende nelle
donne.
I.5 Solamente questo significato [implicitato] è l’anima della
poesia. Fu così che anticamente il dolore del primo poeta
dinanzi alla separazione dei due chiurli si trasformò in versi.
I.6 Sarasvatî, che effonde questo dolce contenuto nei grandi
poeti, rende manifesto il loro genio straordinario, di
eccezionale splendore, e non comune in questo mondo.
I.7 Esso non viene compreso attraverso la sola conoscenza
delle parole e dei loro significati; ma viene compreso
soltanto da coloro che risonoscono il vero senso della poesia
I.8 Questo significato [implicitato], e qualunque parola abbia
la capacità di comunicarlo: questi sono il significato e la
parola che con cura devono essere studiati da un grande
poeta.
I.9 Come un uomo che desideri vedere [qualcosa] si volge
alla ricerca della fiamma di una lampada, poiché essa è il
mezzo per ottenere il suo scopo, allo stesso modo chi si
interessa a tale significato [implicitato] si volge al significato
esplicitato.
I.10 Come il significato di un enunciato viene compreso
completamente attraverso i significati delle singole parole,
allo stesso modo la comprensione di tale significato
implicitato è preceduta dalla comprensione del significato
esplicitato.
I.11 Come il significato di una parole, in forza di una
potenza sua propria, permette la comprensione del significato
dell’enunciato e, esercitata questa sua funzione, non è più
percepito per se stesso;
I.12 così questo significato [implicitato] risplende
improvvisamente alla mente delle persone sensibili, che non
si fermano al significato esplicitato, ma ne riconoscono la
vera essenza.
I.13 I saggi hanno chiamato dhvani quella particolare forma
di poesia nella quale un significato o una parola, resisi
subordinati, implicitano quest’altro significato.
I.14 Tale dhvani non è identico al traslato, poiché è di
natura diversa; e lo dhvani non può essere definito mediante
il traslato, poiché ne risulterebbe una definizione o troppo
ampia o troppo ristretta.
I.15 Sarà un caso di ciò che chiamiamo dhvani quella parola
che porta con sé la capacità di implicitare e mette in luce
una bellezza che non si può rendere con un’altra espressione.
I.16 Le catacresi, cioè quelle parole che hanno acquistato,
nell’uso comune, una applicazione diversa da quella loro
propria, come låva±ya ecc., non sono casi di dhvani.
I.17 Quando, abbandonando la funzione primaria, si
comunica un significato attraverso la funzione tropica, si
rivela lo scopo [di un tale traslato]. Nel rivelare questo
scopo, la parola non è oggetto [per la seconda volta] di una
significazione indiretta.
I.18 La funzione tropica si basa, insomma, sulla
esplicitazione: come può essa definire lo dhvani, che è
radicato unicamente sulla implicitazione?
I.19 Ma essa potrebbe essere una caratteristica secondaria di
qualche varietà dello dhvani; se altri avessero già dato una
definizione dello dhvani, ciò non farebbe che convalidare la
nostra tesi.

1) Da: Abhinavagupta, Commento allo
Dhvanyâloka di Ânandavardhana, I, 18; tr. it. di
R. Gnoli 
(con qualche modifica).

La gustazione estetica è provocata come da una spremitura
della parola poetica. Come tutti sanno, le persone
esteticamente sensibili leggono e gustano più e più volte la
stessa poesia. Una poesia, in effetti, diversamente dalle
parole di prosa che “dopo esser state usate non servono più
a nulla” (Vâkyapadîya II, 38), non perde il suo valore dopo
che è stata percepita. In poesia, dunque, le parole hanno un
altro potere, il potere di risonanza [dhvani] Quello che
alcuni ci obiettano, che, cioè, in questo caso, una stessa
frase verrebbe ad avere più significati, non fa altro che
rivelare la loro ignoranza. Quest’obiezione, ha, in effetti,
ragione di sussistere solo nei riguardi del linguaggio
ordinario, ma non della poesia. Dato, infatti, che non ci si
può ricordare insieme di più convenzioni opposte e
contrastanti, un pezzo di prosa non può evidentemente, dopo
essere stato pronunciato ed inteso per mezzo appunto della
convenzione in un dato senso, rivelare, contemporaneamente,
un altro senso, opposto al primo. Se, d’altra parte, i due
sensi non sono opposti, il significato della frase è uno solo.
Né è, inoltre, possibile ammettere che i due sensi siano
appresi l’uno dopo l’altro, poiché le parole, dopo che hanno
espresso una data cosa, non hanno più il potere di
esprimerne un’altra. Ed anche se la frase viene pronunciata
due volte, il senso rimane lo stesso: le convenzioni e il
contesto sono, infatti, sempre i medesimi. Se, finalmente,
una frase avesse il potere di esprimere un senso
indipendentemente da quello che è il senso che esprimono le
convenzioni ed il contesto, «quale criterio ci sarebbe allora
(diremmo con Dharmakîrti) per dire che, udita la frase: “chi
desidera il cielo offra sacrifici”, il senso di essa non sia,
invece: “egli mangi carne di cane”?» (Pramânavârttika I,
318). A questi possibili sensi non ci sarebbe, insomma, più
limite alcuno e nessuno sarebbe più sicuro di nulla. Dire,
perciò, che la stessa frase abbia più sensi è indubbiamente
un errore.
Nel caso della poesia le cose stanno, invece, altrimenti. Le
stesse cose descritte tendono, percepite, a diventare oggetto
di gustazione. Il senso poetico non è, perciò, dovuto a
un’ulteriore convenzione che si sovrapponga e contrasti con
la prima. La conoscenza estetica non è, inoltre, simile alla
conoscenza suscitata da un testo etico o scientifico, e cioè:
“mi si ordina di fare ciò”, “lo voglio fare”, e “ho fatto
quanto dovevo fare”. Tutte queste forme di conoscenza
tendono, infatti, ad un fine estrinseco, successivo nel tempo,
e sono, quindi, di ordine pratico. La gustazione delle cose
descritte, ecc., che, come un fiore sorto per virtù di magia,
nasce davanti a una poesia, è, invece, tutta conclusa nel
presente, non è in relazione né con un prima né con un poi.
La gustazione estetica è, dunque, diversa sia da ogni forma
di piacere ordinario, sia da quello degli yogin.


2) Da Abhinavagupta, Abhinavabhâratî [commento al
Nâtyaçâstra di Bharata] I, 266-7; tr. it. di R. Gnoli. 


(Il sostrato dell’esperienza estetica) è un dato movimento
mentale che, come tutti gli altri, è vincolato dalle idee di
proprio e di altrui ed è specificato da molteplici altri
movimenti mentali secondari. Tale movimento mentale
mercé l’opera della poesia e della rappresentazione scenica
cessa tuttavia di essere quello che ha come suo sostrato un
essere particolare, ma, generalizzato, pervade, in quanto tale,
anche gli spettatori e, a causa di tale stato di partecipata
identità, appare come diverso dai movimenti mentali
ordinari, i quali nati per mezzo del ragionamento, della
scrittura, della percezione yoghica ecc., sono oggetto di
conoscenza da parte di soggetti conoscenti che ad essi non
partecipano in prima persona e sono quindi sentiti come
altrui. Non apparendo poi come quello che ha, per sostrato,
il proprio sé limitato, esso è, appunto per questa ragione,
immune dal sorgere di altri movimenti mentali, come di
guadagnare, di lasciare e via esemplificando, giusto al
contrario di quanto accade rispetto ai propri ordinari
movimenti mentali di dolore, di amore, ecc. suscitati da una
donna e così via. Questo movimento mentale è dunque
percepito per mezzo di un’attività chiamata “gustazione”, la
quale è caratterizzata da un riposo materiato di una
esperienza di sé priva di ostacoli ed è perciò chiamato col
nome di gusto [rasa].

3) Esemplificazione: da Kålidåsa, Kumårasa
µbhava VI, 84. 


«Mentre così parlava il divino veggente,
Parvatî, accanto al padre, col volto basso,
contava per gioco i petali di un loto.»

4) Origine della teoria del rasa: da Bharata,
Nå¥yaçåstra VI, prosa dopo il verso 33 (rasasûtra
o rasanißpattisûtra): 


vibhåvånubhåvavyabhicårisaµyogåd rasanißpatti¿
“Dall'unione dei determinanti (vibhåva), dei
conseguenti (anubhåva) e degli stati mentali
transitori (vyabhicårin), si ha la nascita del rasa”.
vibhåva (determinanti, kåra±a = cause)
anubhåva (conseguenti, kårya = effetti)
vyabhicåribhåva (stati mentali transitori, sahacara
= elementi concomitanti)
sthåyibhåva rasa
rati ç®°ºgåra
(piacere) (erotico)
håsa håsya
(riso) (comico)
çoka karu±a
(dolore) (patetico)
krodha raudra
(ira) (furioso)
utsåha vîra
(eroismo) (eroico)
bhaya bhåyanaka
(paura) (terribile)
jugupså bîbhatsa
(disgusto) (odioso)
vismaya adbhuta
(stupore) (meraviglioso)
çama Çånta
(serenità) (pacificante)

5) Da Abhinavagupta, Abhinavabharatî I, 36-37
(tr. ingl. in Gnoli, R., The Aesthetic Experience
according to Abhinavagupta, Roma 1956, pp. 112-
114). 

Nel dramma è assente la traccia mentale dell'intenzione
"Oggi devo fare qualche cosa di pratico", mentre è presente
al suo posto l'intenzione "Oggi godrò di visioni e di suoni di
carattere non-ordinario, che producono uno stato di libertà
dagli interessi mondani e la cui essenza è un piacere
generalizzato condiviso da tutti gli spettatori". Durante lo
spettacolo, lo spettatore si dimentica dell' esistenza saµsårika
e si immerge nella gustazione della musica, vocale e
strumentale, che accompagna la recitazione. Il cuore di
questo spettatore deve, naturalmente, essere limpido come
uno specchio privo di macchie; solo in questo caso egli sarà
in grado di identificarsi con gli stati mentali di dolore,
piacere, etc..., prodotti dalla visione delle [quattro specie di]
rappresentazione (gestuale, etc...* ). Sentendo la recitazione
del dramma lo spettatore entra nelle vita di un personaggio
diverso da lui, e, per questo motivo, cresce in lui una
cognizione il cui oggetto è Råma, Råva±a, etc... Questa
cognizione non è circoscritta spazialmente o temporalmente,
ed è libera da ogni nozione delle cose che costituiscono
oggetto di forme di conoscenza reali, errate, incerte,
probabili, etc... Lo spettatore è accompagnato dalle
impressioni di questa congnizione ( il cui oggetto è Råma,
etc...) per parecchi giorni; esse sono evidenziate a loro volta
dalle impressioni prodotte dalla percezione diretta della
musica vocale e strumentale e dalle immagini delle donne.
Questi elementi che producono piacere e che accompagnano
lo spettacolo sono essi stessi la causa della continuazione di
queste impressioni. Lo spettatore, la cui consapevolezza del
proprio sé si perde negli eventi rappresentati, dotato di
camatkåra [= riposo in se stesso, nello stato di fruizione del
rasa] continua tramite il proprio sé a vedere ogni cosa in
questa luce. Gli spettatori, dunque, rimangono in possesso di
una particolare forma di coscienza consentita loro dalla
seguente affermazione, che per così dire rimane loro sulle
labbra dove possono gustarla leccandola: "Questo e
quest'altro accade alla gente così e così". Questa forma di
coscienza è libera da ogni specificazione temporale e
spaziale. Grazie alla percezione del rasa prodotta dalle
tracce di tutti gli elementi che producono piacere - musica
vocale e strumentale, etc...- che accompagnano la sua
gustazione (il rasa colora la coscienza in un modo
* Le quattro specie di abhinaya (rappresentazione) sono:
åºgika (gestuale), våcika (vocale), sattvika (mentale,
interiore) e åhårya (esterna).
particolare, che è diversa da quello dell'amata), questa forma
di coscienza rimane profondamente attaccata al cuore, come
una freccia, in modo tale che non è possibile, anche col
massimo sforzo, ignorarla, e tanto meno estirparla.. Così il
soggetto che ne gode (e ciò accade semplicemente perché la
mente desidera naturalmente acquisire il bene e abbandonare
la malvagità) fa il bene ed evita il male.