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Fisiologia del gusto - A. Brillat-Savarin


lunedì 23 aprile 2007 leggono Raffaele Riccio e Graziano Ferrari
L’uomo può essere felice. I sensi gli indicano il cammino della felicità. Spetta, però, al filosofo di sapere utilizzare i sensi per equilibrare le passioni e differenziarsi da tutti gli esseri che si nutrono, amano e vivono. Solo così potrà usufruire di una felicità complessa e superiore. E’ questo l’assunto del trattato filosofico Fisiologia del gusto (1825), che ha come sottotitolo “meditazioni di gastronomia trascendente”. La nutrizione è il primo atto fisico ed intellettivo dell’uomo; senza nutrizione non si ha la vita e quindi neppure la possibilità della conoscenza. Sul finale del libro il suo autore, Anthelme Brillat-Savarin, si rivolge ad Adamo ed Eva:
“O progenitori della specie umana, dei quali era storica la golosità, che vi rovinaste per una mela da poco, che cosa mai avreste fatto per un tacchino tartufato? Ma nel paradiso terrestre non c'erano né cuochi né pasticceri. Come vi compiango!”


A. Brillat-Savarin, Fisiologia del Gusto, Rizzoli BUR, Milano 1985.


I SENSI AL SERVIZIO DELLA FELICITA’ DELL’UOMO. 


É possibile ripercorrere in modo complesso la nozione di gusto e verificare come si sia venuta a costituire ed a precisare l’idea di buon gusto dal ‘700 ad oggi? La Fisiologia del Gusto di Brillat-Savarin aiuta ad intraprendere questo percorso. In quest’opera è rappresentato con vivezza, forse più che in altri trattati di filosofi, che cosa si debba intendere per gusto in un’epoca a cavallo tra secolo dei Lumi, Rivoluzione e Restaurazione.
Chi era Brillat-Savarin? Un gentiluomo anzitutto, un magistrato, un esponente della noblesse de robe una sorta di epigono di Montesquieu, vissuto nel ‘700 maturo. Egli apparteneva alla generazione della piccola nobiltà aperta alle riforme, formatasi sulle idee degli illuministi, che partecipò, elaborando e stendendo i cahiers de doléance, alla prima fase della Rivoluzione. Molti esponenti di questa classe sociale, a differenza della grande aristocrazia, avevano trovato il proprio punto di riferimento culturale non nel regno di Luigi XIV, ma nell’epoca ben più spensierata e piacevolmente frivola della Reggenza conclusasi ufficialmente nel 1724 con l’ascesa al trono di Luigi XV, ma durata in sostanza fino a tutta la metà del ‘700.
Brillat-Savarin era il tipico rappresentante di questo spirito, anche se si troverà a vivere a cavallo tra i due secoli. Nasce nel 1755 e muore nel 1826 in piena Restaurazione, ma per molti versi, più che alla Rivoluzione ed all’Ottocento Brillat appartenne all’Illuminismo maturo ed alla cultura mondana che aveva in parte preceduto questo movimento. Il suo libro è in ogni modo figlio delle due epoche. Si ricollega all’Illuminismo nel presentare l’ottimismo e la fiducia tipica di questo movimento culturale: l’uomo tramite i sensi può essere felice. La ragione, le leggi. l’azione politica volta a realizzare il progresso devono garantire e rendere più sicura questa felicità. La fiducia nel progresso sociale è costantemente presente nella Fisiologia e proprio questa fiducia autentica nella vita collega Brillat a Saint Simon, a Fourier a Comte ed allo spirito positivo che investirà l’Ottocento fino agli anni ’70 del secolo.

(I) La FISIOLOGIA DEL GUSTO, o MEDITAZIONI DI GASTRONOMIA TRASCENDENTE.
Di che cosa tratta dunque questo libro? Il titolo desta immediata curiosità e richiama i trattati medico-scientifici del tempo ed anche le opere filosofiche di Condillac e di Kant.
Tuttavia l’autore, pur costringendosi ad una disamina puntuale delle principali concezioni scientifiche e filosofiche riguardanti il gusto e la teoria della percezione, resta pur sempre un bon vivant figlio dell’Illuminismo ed alterna con sapienza, alla trattazione incentrata sulla scienza, anche aneddoti mondani, descrizioni di pranzi, esempi, fatti curiosi, digressioni di viaggi, in modo da far fiorire la curiosità in chi legge.
Anche il sottotitolo è degno d’interesse; di gastronomia trascendente nessuno aveva mai scritto. Kant aveva definito nella Critica della Ragion Pura gli a priori spazio tempo e le categorie come possibilità conoscitive della mente, precedenti l’esperienza della realtà materiale o fenomenica che poi ogni uomo passa a sperimentare. Tali possibilità del pensiero erano state definite trascendentali perché presenti nell’uomo prima dell’esperienza ed acquisivano una funzione conoscitiva, una volta che venivano messe a contatto con gli oggetti della realtà quotidiana. Anzi erano gli strumenti stessi che organizzavano, secondo un ordine spazio–temporale e logico, l’esperienza stessa.
Anche il gusto, per l’autore della Fisiologia, è una possibilità trascendente - Brillat-Savarin non usa il termine trascendentale - della conoscenza, perché se questo non viene messo alla prova, entrando in contato con i cibi, i profumi, la morbidezza del tatto, la perfezione della vista, resta un quid indefinito che, mancando di specifiche determinazioni, non può dare origine alla conoscenza. Il gusto può quindi essere definito come l’insieme di facoltà sensibili che completano l’uomo-intelletto di cui parla Kant, presiedendo alla sua felicità.
Esiste tutte una serie di gradazioni di questa felicità. Ci si può soffermare ai gradini più bassi della soddisfazione fisica o si può salire all’universo della perfezione dello spirito, quando tutti i sensi collaborano assieme e vengono reciprocamente stimolati l’uno dall’azione dell’altro.
L’assunto implicito del libro è questo: l’uomo può essere felice. I sensi gli indicano il cammino della felicità, ma spetta all’uomo equilibrare i propri appetiti in modo da differenziarsi da tutti gli esseri che si nutrono e vivono. A questo deve servire la gastronomia che Brillat Savarin definisce: la Decima musa. La nutrizione è il primo atto fisico ed intellettivo dell’uomo: senza nutrizione non si ha la vita e quindi neppure la possibilità della conoscenza.
Brillat-Savarin, pur citandola, probabilmente non condivideva del tutto la frase di Condillac: “L’uomo è più adatto a sopportare i dolori che non i piaceri”. Per lui, figlio ottimista del Settecento illuminato la frase doveva essere interpretata alla luce delle limitate possibilità del gusto, che pur rappresentavano una consolazione per l’uomo, e spettava ai filosofi cercare di specificare meglio quali fossero le reali possibilità del piacere e del dolore connesse al gusto:

“Diamo ora uno sguardo filosofico al piacere e alla sofferenza che possono derivare dal gusto. Notiamo subito l’applicazione di questa verità purtroppo generale: l’uomo è molto più atto ad affrontare il dolore che ad accogliere il godimento. Infatti, l’iniezione di sostanze acerbe, acri o amare in sommo grado, può farci subire sensazioni penosissime o dolorose. (…) Le sensazioni piacevoli, invece, percorrono una scala poco estesa, e se c’è una differenza abbastanza sensibile tra ciò che è insipido e ciò che lusinga il gusto, l’intervallo non è così grande fra quello ch’è riconosciuto buono e quello ch’è considerato squisito. (…)
Nondimeno il gusto, così come la natura ce lo ha concesso, è ancora quello fra i nostri sensi, che tutto ben considerato ci procura il maggior numero di godimenti:
1) Perché il piacere di mangiare è il solo che, preso modestamente, non è seguito da stanchezza;
2) Perché è d’ogni tempo, d’ogni età e d’ogni condizione;
3) Perché torna di necessità almeno una volta al giorno, ed in un giorno può essere ripetuto senza danno, due o tre volte;
4) Perché può mescolarsi a tutti gli altri piaceri ed anche consolarci della loro mancanza;
5) Perché le impressioni ch’esso riceve sono a un tempo e più durevoli e più dipendenti dalla nostra volontà;
6) Finalmente perché mangiando proviamo un certo benessere indefinibile e particolare che ci deriva dall’istintiva coscienza che mangiando compensiamo le nostre perdite e prolunghiamo la vita.1
La buona gastronomia, la convivialità della tavola, che rende le persone più ben disposte, acute, e quindi dal punto di vista sociale più intelligenti, la cortesia nel ricevere, erano interpretate, secondo l’ottica dell’autore, come manifestazioni della naturale predisposizione alla felicità, innate nell’uomo. I piaceri, se ben dosati, aumentavano le possibilità conoscitive, o almeno aiutavano a vivere meglio e ad allontanare il taedium vitae.

(II) LA FRANCIA E LA CULTURA GASTRONOMICA
In campo gastronomico la Francia del XVIII sec., rispetto alle altre nazioni europee, deteneva un primato culturale. Già dalla metà del regno di Luigi XIV la cultura del cibo e la moda francese si erano imposte in Europa presso le classi nobiliari, tanto che Montesquieu nelle Lettere Persiane, a proposito dei suoi connazionali, ironicamente scrive:
“Acconsentono ad assoggettarsi alle leggi di una nazione rivale, purché i parrucchieri francesi possano decidere da legislatori sulla foggia delle parrucche straniere. Niente sembra loro tanto bello quanto il vedere regnare il gusto dei loro cuochi dal settentrione al meridione ed i dettami delle loro acconciatrici osservati in tutte le toelette d’Europa…” 2

Il discorso sull’alimentazione non venne sottovalutato nemmeno dagli Enciclopedisti che, attenti ai nuovi studi fisiologici, dedicarono diverse voci dell’Enciclopedia alla preparazione dei cibi, alle funzioni nutritive degli stessi ed all’alimentazione. Sia Diderot, sia Vandenesse e Jaucourt, si fecero paladini di una nutrizione equilibrata, del tutto emendata dagli eccessi, dal fasto ostentatorio e pomposo dei banchetti secenteschi, ma per certi versi ancora connessa, ad una tradizione cortigiana che in Francia non poteva di certo essere ignorata. Scrive, infatti, Diderot:
“Questa è la vecchia cucina, quella dei nostri padri: la nuova cucina con tutte le sue raffinatezze, non può essere descritta: sarebbe come voler fare la storia delle mode o quella delle combinazioni dell'alchimia...“ .

Gli autori dell'Enciclopedia sapevano quanto l’alimentazione fosse legata al gusto ed alla curiosità, molla e spinta d’ogni ricerca umana. Essi, cercando di capire da che cosa fosse derivata l’esigenza della buona alimentazione e facendo un paragone con gli uomini primitivi, sicuramente più temperanti, ed i moderni, maggiormente evoluti e non solo dal punto di vista alimentare, tratteggiavano una sorta di giustificazione sociale della gastronomia. Sostenevano infatti che l’abilità dei cuochi, in ragione della capacità di elaborare l’ineludibile esigenza di alimentarsi, erano riusciti a trasformare questa necessità in arte, avevano rese più sicure le capacità nutritive dell’uomo, ne avevano garantito il miglioramento delle capacità psico-fisiche, permettendogli così di raggiungere le vette dell’arte e del sapere gastronomico:
“Ma questa temperanza non durò a lungo; l’abitudine di mangiare sempre le stesse cose, preparate all’incirca allo stesso modo, produsse la noia, la noia suscitò la curiosità, la curiosità spinse a fare esperimenti, questi condussero alla voluttà; l’uomo assaggiò, provò, diversificò, scelse e arrivò al punto di trasformare in arte l’atto più semplice e naturale...”.3

Diversa fu quindi l’attenzione che gli Illuministi concessero alla gastronomia ed alla cucina, dato che le riconobbero un ruolo del tutto “laico”, svincolato per giunta dalle proibizioni etiche e dai tabù alimentari della cultura religiosa tradizionale. Jaucourt, medico ed estensore delle considerazioni citate, nell’elaborare le varie voci dell’Enciclopedia riguardanti la cucina, riconobbe che, nonostante l’apparente frivolezza delle opere connesse con il gusto alimentare, la cucina in quanto arte, cioè tecnica e piacere uniti, aveva svolto un ruolo fondamentale nel migliorare le condizioni umane:
Bisogna però riconoscere che dobbiamo all'arte della cucina molte preparazioni di grande utilità che meritano l'analisi dei fisici: di queste preparazioni talune riguardano la conservazione degli alimenti, altre il modo di renderli di più facile digestione...”4

Nel Settecento il discorso sull’alimentazione non restò solo patrimonio dei cuochi e monopolio dei maestri di tavola dei principi e dei cardinali, ma seppe trasformarsi in oggetto di studio e di ricerca alla stregua di tutte le arti che servivano alla felicità dell'uomo. Tali esigenze diverranno il sostrato teorico delle voci gastronomiche dell’Enciclopedia, delle opere dei Verri a Milano, o del Corrado a Napoli e, circa un ventennio più tardi, della Fisiologia del Gusto 5 di Brillat-Savarin:
“Considerando il piacere della tavola sotto tutti gli aspetti, avevo visto da un pezzo che su quest'argomento si poteva fare qualcosa di meglio che dei libri di cucina e che c'era molto da dire intorno a funzioni così importanti, così continue, e che influiscono in modo così diretto sulla felicità e perfino sugli affari...”

L’alimentazione ed il cibo nel secolo dei Lumi vengono associati automaticamente alla semplicità ed alla raffinatezza delle preparazioni e non più al fasto. In Italia questi consigli verranno ampiamente accettati da Pietro Verri, il quale, né II Caffè, riguardo ad una nuova alimentazione più razionale, scrive:
“La tavola è delicata per quanto possibile; i cibi sono tutti sani e di facile digestione; non v'è una fastosa abbondanza, ma v'è quanto basta a soddisfare; le carni viscide o pesanti, l'aglio, le cipolle, le droghe forti, i cibi salati, i tartuffi e simili veleni della natura umana, sono interamente proscritti da questa mensa, dove le carni di volatili, di polli, gli aranci e i sughi loro principalmente hanno luogo...“

Il Verri termina il suo discorso salutista ma non ascetico, con le lodi del caffè, da lui considerato la bevanda che, per eccellenza, è capace di stimolare l’intelletto, d’indurre il buonumore e di rendere più incisive le note ironiche della nuova filosofia:
Tale è il nostro pranzo, che terminiamo con un’eccellente tazza di caffè, soddisfatti, pasciuti e non oppressi da grossolano nodrimento, dal quale assopito lo spirito spargerebbe la noia nella società nostra, nella quale anzi, dopo il pranzo sembra rianimarsi la comune ilarità...”6

Questi concetti sono riepilogati e ben espressi anche negli Aforismi del professore che fungono da premessa all’opera Di Brillat:
“Gli animali si pascono, l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare” (II). Tali considerazioni si caricano poi, in crescendo, di valenze politiche e psicologiche come possiamo verificare con il III aforisma: “Il destino delle Nazioni dipende dal modo con cui si nutrono” e con il IV: “Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei”. La conclusione ovvia di questo procedere la rintracciamo nel celeberrimo aforisma IX: “La scoperta di un piatto nuovo vale per la felicità del genere umano più che la scoperta di una stella”.
Il gusto deve quindi essere ricondotto al solo gusto alimentare? Almeno questo sembrerebbe, ad un lettore ingenuo, il primo messaggio di Brillat- Savarin, ma come si è già accennato in precedenza l’analisi del gusto connesso con il palato e l’alimentazione precede l’esame delle altre possibilità conoscitive derivate dagli altri sensi, perché l’uomo per prima cosa deve nutrirsi.

(III) MODELLI SCIENTIFICI DI RIFERIMENTO.
La fisiologia del Gusto presuppone un’analisi scientifica delle facoltà umane derivate dal gusto. L’impianto formale dell’opera è quindi desunto da modelli filosofici come dimostra il ricorso alla terminologia alta presa dalla filosofia ed il riferimento ai dialoghi ed alle meditazioni. Pensiamo alle meditazioni metafisiche cartesiane. Altri prestiti vengono dal linguaggio matematico-geometrico (tesi, dimostrazioni, corollari), o anche dal linguaggio medico scientifico del tempo. Va ricordata la scuola dei Fisiologues all’interno della quale Vic-d'Azir, Bichat ed altri, proprio a cavallo tra ‘700 ed ‘800, impressero alla ricerca medica un modo di procedere molto più rigoroso, impostato sui fondamenti del metodo sperimentale. Questi insegnamenti, permettendo il superamento della fisiologia umorale e l’avvento della medicina moderna anticiperanno i ben più importanti risultati colti in pieno Ottocento dalla geniale figura scientifica di Pasteur.
In ogni caso, però, Brillat–Savarin non si ferma alle sole considerazioni scientifiche. Intuisce che la descrizione analitica del gusto non ne esaurisce le possibilità di descrizione; egli completa il meccanicismo fisiologico con la cultura mondano-sociale, con la leggerezza, il garbo e la finezza proprie del XVIII sec., a cui aggiunge anche la fiducia totale nel progresso umano, mirabilmente descritto e presentato nell’ultima parte del libro nel capitolo XVIII Delle Privazioni. In Questo capitolo l’autore immagina di rivolgersi ironicamente ai progenitori della specie umana, costretti ad accontentarsi di una mela, e poi, epoca per epoca, compiange gli uomini che, nello scorrere dei secoli, non hanno potuto usufruirne appieno delle raffinatezze nuove care al gusto dei moderni e così, a cominciare da Adamo ed Eva, li apostrofa:
“O progenitori della specie umana, dei quali era storica la golosità, che vi rovinaste per un pomo, che cosa mai avreste fatto per un tacchino tartufato? Ma nel paradiso terrestre non c'erano né cuochi né pasticceri.
Come vi compiango!
Lo stesso capitolo termina con la presentazione delle scoperte future che presenteranno immancabili risvolti anche gastronomici:

"E voi finalmente gastronomi del 1825, che trovate già la sazietà in mezzo all'abbondanza e sognate pietanze nuove, voi non godrete delle scoperte che la scienza prepara per l'anno 1900, come i cibi minerali o i liquori prodotti con la pressione di cento atmosfere: voi non vedrete ciò che viaggiatori non ancor nati faranno arrivare da quella metà del globo che rimane ancora da scoprire o da sfruttare."
Come vi compiango!

(IV)LA DEFINIZIONE DEL GUSTO:
Aspetti specifici della teorizzazione estetica e filosofica:
L’espressione “gusto” si presenta come ambigua e difficilmente definibile, dato che è connessa con le capacità soggettive di ogni uomo; è però riconducibile anche a caratteristiche universali perché si riverbera nelle attività quotidiane di tutti gli uomini. Spagnoli ed Italiani nel Seicento hanno usano questo termine per indicare un’eccellente capacità di scelta e l’espressione Buen gusto, venne utilizzata da B. Gracían nell’Agudeza y arte de Ingenio per rappresentare l’essenza stessa delle capacità, sia poetiche che mondane, dell’uomo dotato d’ingegno. Agli inizi del Seicento il dizionario del Nicot utilizza appena l’espressione e non dà che una definizione generica e piuttosto confusa del termine 7 Le cose cambiano agli inizi del '700 e nel Dizionario filosofico di Voltaire troviamo questa definizione di gusto:
“Il gusto, questo senso, questa capacità di discernere i nostri alimenti, ha dato origine in tutte le lingue conosciute al termine metaforico "gusto", usato per designare il sentimento delle bellezze e delle imperfezioni in tutte le arti belle. Si tratta d’un discernimento immediato come quello della lingua e del palato, e che, al pari di questo, precede la riflessione; anch'esso sensibile a quanto è buono e pronto a goderne, mentre respinge con pronta ribellione quanto è cattivo “.

Inoltre in parecchi dei suoi scritti Voltaire mi se in evidenza un forte parallelismo tra gusto alimentare e buon gusto in campo artistico:
“Come, nell’ordine fisico, il cattivo gusto consiste nell’essere allettati solo da cibi troppo piccanti e ricercati, così, nelle arti consiste nel compiacersi degli ornamenti ricercati e nel non sentire la schietta natura”.

Condillac, il padre del sensismo, nel descrivere la sua famosa statua, metafora dell’uomo sensibile, che progressivamente tramite i sensi conosce ed acquista la capacità di relazionarsi con il mondo, rispetto al gusto scrive:
“Il gusto può di solito contribuire più dell'odorato alla sua felicità e alla sua infelicità, perché comunemente i sapori colpiscono con più forza degli odori.
Vi contribuisce anche più dei suoni armoniosi, perché il bisogno di nutrimento rende più necessari i sapori alla statua e di conseguenza glieli fa gustare con maggiore vivacità. La fame potrà renderla infelice, ma dopo che la statua avrà osservato le sensazioni adatte a soddisfarla vi volgerà maggiormente la propria attenzione, le desidererà con maggior violenza e ne godrà con maggior diletto" 8

Anche Brillat-Savarin attribuisce al gusto un ruolo fondamentale nel costruire le conoscenze umane e mondane e nell’indurre nell’uomo, tramite la socievolezza, il senso morale e d estetico:
“Il gusto è quello che ci mette in relazione coi corpi saporosi mediante la sensazione che essi producono nell’organo destinato ad apprezzarli.
Il gusto che ha per eccitanti l'appetito la fame e la sete, rappresenta la sintesi di molte operazioni, il risultato delle quali è che l’individuo cresce, si sviluppa, si conserva e ripara le perdite prodotte" 9
Il gusto, secondo Brillat-Savarin, può essere analizzato in ragione di tre aspetti:
1) Nell'uomo fisico é:
A) “il frutto dell’apparato, mediante il quale, egli apprezza i sapori”.
B) “Lo strumento che invita l’uomo, mediante il piacere, a riparare le perdite continue che noi facciamo vivendo“.

2) Nell’uomo morale, è:
A) “la sensazione che eccita, nel centro comune, l’organo impressionato da un corpo un saporoso”. È quindi la capacità di distinguere i sapori, di catalogarli di analizzarli.
B)“Ciò che invita a scegliere tra le diverse sostanze quelle che sono più adatte a servirci di nutrimento”, affermazione questa che implica il corollario seguente:

“È l’implicita rassegnazione agli ordini del Creatore che, avendoci comandato di mangiare per vivere, c’invita a ciò per mezzo dell’appetito, ci sostiene con il sapore e ce ne ricompensa con il piacere”.
Il gusto quindi è la prima facoltà che educa al piacere, perché coincide con: “la proprietà che ha un corpo d’impressionare l’organo e di far nascere la sensazione”.

Il discorso sul gusto nella Fisiologia conduce ad una distinzione fondamentale tra gusto connesso con gli organi della percezione e gusto dell’uomo morale. Nel primo caso il piacere deriva dall’appagamento connesso con la sazietà e la sensazione di aver riparato le perdite di sostanze nutritive fondamentali; nel secondo è essenzialmente dato dal piacere della scelta tra cose buone, belle a vedersi, azione compiuta tra persone che hanno gusti comuni.
Inoltre parlando del gusto è necessario mettere in evidenza ancora due concetti: 1) Il gusto come senso produce la sensazione connessa con il cibo e l’alimentazione. 2) Il gusto come metafora, riguarda la capacità di discernere e di scegliere, nell’ambito delle attività umane e soprattutto in campo estetico. Spesso i due termini sono strettamente legati ed è il primo che funge da metafora del secondo.
Da ciò ne deriva che il buon gusto a tavola è sempre connesso con alcuni corollari che riguardano: la scelta delle persone che si invitano, la preparazione della sala e della mensa, gli argomenti o le attività sociali che possono dare piacere agli ospiti. L’insieme di tutti questi atti sociali, accuratamente scelti e vagliati riguardano il piacere del gusto innalzato al grado sociale di vera convivialità, e trascendono la sola alimentazione. L’autore della Fisiologia distingue infatti tra piacere del mangiare e piacere della tavola:

“Il piacere del mangiare è la sensazione attuale e diretta di un bisogno che si soddisfa. Il piacere della tavola è la sensazione riflessa che nasce da diverse circostanze di fatti, di luoghi di cose, e di persone che accompagnano il pasto. (…) il piacere di mangiare esige, se non la fame l’appetito: il piacere della tavola è quasi sempre indipendente dall’uno e dall’altro”.10
.
Per Brillat Savarin chi segue il gusto della tavola esalta le migliori qualità sociali dell’uomo, come dichiara nel suo aforisma XX:
“Invitare una persona è occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo ch’essa passa sotto il vostro tetto”

(V) SENSI E FELICITA’
Il gusto, quindi, pur rappresentando una percezione immediata e particolare può diventare il modello, a partire dalle sensazioni e se segue regole codificate ed universalmente condivise, dello stesso processo estetico dato che porta in sé le idee di selezione, scelta e piacere, come lo stesso Brillat, sembra voler dire:
“Tutte queste feste, terminavano con suntuosi banchetti che ne erano come il coronamento; perché l’uomo è fatto così: non può essere contento del tutto se non gli si appaga il gusto. E tale bisogno imperioso ha sottomesso la grammatica, tento che per intendere che una cosa è perfetta diciamo che è stata fatta con gusto” 11

Concludendo quindi si può dire che il gusto riepiloga tutte le sensazioni perché le ingloba e le potenzia. La somma di odorato, gusto, vista, ed in ultima analisi anche udito e tatto, provocano un piacere profondo che contribuisce a creare la percezione ed allargare la nostra sensibilità. In questo caso il gusto va ben oltre la gastronomia e si avvicina alla concezione estetica del gusto stesso. Tanto che B. Savarin ipotizza l’esistenza di una decima musa: Gastarea, nata sulle rive della Senna, il cui tratto saliente è di compendiare ed esaltare la grazia, le capacità e le attitudini di tutte le altre muse.
Il fine di Brillat Savarin sembra quello di trarre il massimo piacere da un’operazione necessaria come l’alimentazione quotidiana. Questo piacere però per essere tale deve portare con sé elementi di equilibrio, di sobrietà, di buon gusto e raffinatezza, come li ha in sé l’opera d’arte.
Si può inoltre rilevare che nella Fisiologia del Gusto rivivono alcuni elementi tipici dell’epicureismo rinascimentale di cui un eminente esempio fu B. Platina, il quale nella sua opera, Del piacere onesto e della buona salute, così si esprimeva nella Dedica al cardinale Roverella:
"Non mancheranno infatti dei malevoli - ne so abbastanza - i quali mi staranno addosso dicendo che un uomo virtuoso e temperato non deve scrivere in materia di piacere. Ma dicano, di grazia, codesti stoicuzzi che inarcando le sopracciglia valutano le parole non già per ciò che significano ma soltanto per il loro suono: che c’è di male in quel piacere di cui si ragiona in queste mie pagine? Se è vero che del vocabolo 'piacere', come del termine 'salute', si può dare un'interpretazione ambigua, non sia mai detto che il Platina si rivolga ad un uomo di specchiata virtù, quale sei tu, parlando di quel genere di piacere che gli intemperanti traggono dall’eccesso e dalla varietà dei cibi e dalla titillazione dell’amore sensuale..."

Infatti seguendo l’ottica neo-epicurea del “governo del piacere” si rivelano piuttosto interessanti le considerazioni che l’autore della Fisiologia dedica ad un argomento apparentemente antitetico ai tanti temi gastronomici analizzati nella sua opera, ovvero il digiuno:
“Vediamo ora quel che si faceva nei giorni di digiuno. Si mangiava di magro, si saltava la colazione e appunto per questo si aveva più appetito del solito.
Venuta l’ora di desinare si mangiava finché ve n’entrava; ma il pesce e i legumi passano presto: prima delle cinque si moriva di fame; si guardava l’orologio, si aspettava e ci si rodeva dentro pur provvedendo alla salute dell’anima.
Verso le otto era pronto. Non un buon pranzo, ma uno spuntino che chiamavano collazione, parola derivata da claustrum, chiostro, perché verso la fine della giornata i monaci si riunivano per fare delle conferenze intorno ai padri della Chiesa, dopo di che era permesso loro di bere un bicchiere di vino.
Alla collazione non erano leciti né burro né uova, né nulla di ciò che era stato vivente. Bisognava perciò contentarsi d’insalata, conserve, frutta: cibi ahimè poco sostanziosi se si pensa all’appetito che usava in quei tempi; ma si sopportava per amor di Dio, si andava a letto e si continuava così per tutta la Quaresima. (…) Il capolavoro della cucina di quei tempi era una collazione rigorosamente apostolica e che pure avesse l’aria di un buon pranzo…” 12

Le conclusioni finali a cui giunge l’autore dopo questa disamina del digiuno sono perfettamente in linea con i dettami dell’epicureismo settecentesco:

L'osservanza rigorosa della quaresima produceva un piacere che a noi è sconosciuto: quello di squaresimarsi con la gran colazione del giorno di Pasqua.
Guardando bene, gli elementi dei nostri piaceri sono la difficoltà, la privazione, il desiderio del godimento. Tutto ciò si riuniva nell'atto che rompeva l'astinenza: io ho veduto due miei prozii, brave e sagge persone, andare in solluchero, nel momento in cui, il giorno di Pasqua, vedevano tagliare un prosciutto o sventrare un pasticcio.13

Un altro aspetto interessante della Fisiologia, che forse spiega il successo dell’opera, è dato dall’entrare ed uscire in continuazione dai ruoli prefissati. L’autore si autodefinisce professore; usa in molti punti un tono confacente a quello dell’esperto, ma questo tono non riesce a mantenersi sempre sullo stesso livello, volutamente in più punti cede. Ed allora emergono le digressioni, piacevoli, i fatti divertenti, i racconti di viaggi di una vita intensamente vissuta.
Un esempio di tutto ciò lo si può riscontrare negli aneddoti di viaggio che costellano l’intera sua opera. Brillat-Savarin fu costretto durante il periodo giacobino della Rivoluzione ad emigrare in America, dove si dedicò a varie attività tutte perfettamente oneste e lecite. Per comprendere il tono delle analisi e dei racconti di Brillat basta riferirsi allo stile di, De la Démocatie en Amérique di A. de Tocqueville, opera di poco posteriore alla Fisiologia, per immergersi nella descrizione di un mondo sociale e politico simile, pur se presentato in un’ottica del tutto diversa. Anche nell’opera di Brillat-Savarin troviamo considerazioni sul sistema politico americano, sulla libertà di commercio e sulla democrazia, ma lo stile comunicativo e decisamente più immediato, quasi diremmo oggi, giornalistico, da reportage rispetto alla più meditata opera di Tocqueville.
In particolare la storia dell’invito a caccia, esteso a Brillat da un piantatore del Cunnecticut, tipico esponente della società americano e del tacchino ucciso e preparato dal francese per i suoi ospiti, mette in evidenza le differenze strutturali delle due opere. Questo racconto ad una prima lettura può sembrare superficiale 14 , ma se la rapportiamo al più noto aforisma di Brillat-Saverin sulla scoperta della stella ed alla sua concezione della convivialità e del buon gusto, si riesce a comprendere appieno ciò che l’autore vuole comunicare.
Brillat partecipa ad una battuta di caccia e, dopo aver ucciso pernici, scoiattoli grigi, ed un superbo tacchino, sulla via del ritorno si intrattiene con il suo ospite che gli parla dell’America:
“Caro signore, se c’è al mondo un uomo felice, quello sono io; tutto quanto vi circonda e che avete veduto in casa mia è frutto delle mie terre. Queste calze sono lavorate dalle mie figliole; le scarpe ed i vestiti che porto provengono dai miei armenti ; i quali pure contribuiscono, insieme con l’orto e col pollaio a procurarmi un cibo sano e sostanzioso; e - cosa che fa la gloria del nostro governo - nel Cunnecticut, esistono migliaia di piantatori come me e che hanno la porta di casa senza serratura. Qui le imposte sono minime e dopo averle pagate possiamo dormire sonni tranquilli (…) Io ho denaro liquido per molto tempo perché ho venduto al prezzo di ventiquattro dollari al caratello, la farina che per solito vendo ad otto. Tutto ci proviene dalla libertà che abbiamo conquistata e basata su buone leggi io sono padrone in casa mia e non vi meraviglierete se vi dirò che non sentiamo ami il rullo del tamburo e che, salvo il 4 Luglio, glorioso anniversario della nostra Indipendenza, non si vedono qui né soldati, né uniformi. né baionette..”.