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Proust, Andric, Bloch, Bidussa, Enzensberger






Lunedì 11 febbraio 2002 legge Alessandrini 
E’ opinione diffusa e consolidata che il compito dello storiografo sia quello di interpretare il più oggettivamente possibili eventi accaduti e che nel loro accadimento hanno una indubitabile base di verità. Si pensa cioè che lo storiografo abbia già data davanti a sé la materia che attende solo d’essere plasmata. Il percorso di letture che noi proponiamo, invece, parte mostrando innanzitutto quanto le emozioni plasmino i ricordi e per mostrarlo citeremo Proust, “All’ombra delle fanciulle in fiore” e Andrič, “Il ponte sulla Drina”. Essi mostrano come il meccanismo di formazione della memoria sia il medesimo, senza distinzione tra memoria individuale e memoria collettiva. L’ha compreso profondamente Marc Bloch nell’”Apologia della storia”. La sua lezione insegna a diffidare dalla ricerca del fatto che rappresenti il punto di partenza del fenomeno che si intende studiare. L’origine, ricercata dagli storici come garanzia indubitabile del presupposto, è un vero e proprio feticcio. Ogni fatto rinvia ad un fatto precedente in un processo a ritroso che non ha fine. David Bidussa, ne “Il mito del bravo italiano”, ed Hans Magnus Enzensberger, in “Prospettive sulla guerra civile”, indagano implacabilmente alcuni tra i miti più diffusi (il mito della cattiveria del cattivo e della bontà dello sfruttato) che tanta influenza hanno esercitato sulla formazione dell’interpretazione storica.


1) Marcel Proust. Il carattere emotivo della memoria


Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quindi in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alle mie abitudini, un po’ di tè. Rifiutai da prima, e poi, non so perché, mutai d’avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte, chiamate “maddalenine”, che paiono avere avuto come stampo la valva scanalata di una conchiglia di S. Giacomo. Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione di un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzetto di “Maddalena”. Ma, nel momento stesso in cui quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quel che avveniva in me di straordinario. Un pensiero delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito reso indifferenti le vicissitudini della vita, , le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era legata al sapore del tè e della focaccia, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non era della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E’ tempo che io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace di interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l’animo nostro si sente sorpassato da se medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso il paese tenebroso dove deve cercare e tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce. E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto che non portava con sé alcuna prova logica, ma l’evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarmi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l’impeto con cui tenterà di afferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l’udito e l’attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l’animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima di un tentativo supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio attorno il vuoto, , di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata a una grande profondità; non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza ed odo il rumore delle distanze traversate. 
Certo, ciò che palpita così in fondo a me deve essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile turbinìo dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti. 
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’astrazione di un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s’è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. Ed ogni volte la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica. E ad un tratto il ricordo mi è apparso. Quel sapore era quello di quel pezzetto di “Maddalena” che la domenica mattina a Combray (giacché quel giorno non uscivo prima della messa), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della focaccia, prima d’assaggiarla, non m’aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto si era disgregato; le forme, - anche quella della conchiglietta di pasta, così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota – erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando niente sussiste diun passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, piùn tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore,lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.
E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di “maddalena” inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto piùn tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenariodi teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per imiei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fino allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima della colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono ad immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fino ad allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e isuoi dintorni, tutto quel che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè. (Proust M., La strada di Swann, Torino, Einaudi 1963, pp. 49-52)



"Il testo evidenzia il carattere emotivo della memoria e la sua circolarità: emozioni - operazione creativa del ricordare - di nuovo emozioni.
Occorre sottolineare la natura attiva e creativa della memoria, testimoniata nel passaggio in cui Proust si chiede "Cercare? Non soltanto: creare".
Proust propone un caso di memoria individuale, nel campo della storia dobbiamo interessarci alle emozioni e ai ricorsi all'atto di rimemorare che riguardano gruppi sociali, la memoria collettiva."
(Appunti di Luca Alessandrini)



2) Ivo Andrič: La memoria della grande alluvione
Alle feste del santo eponimo, a Natale o nelle notti del Ramadan, canuti, gravi d’anni e di pene, i padroni di casa si ravvivano e divengono loquaci appena il discorso cade sulla più grande e grave avventura della loro vita, ‘l’inondazione’. A distanza di quindici-vent’anni, durante i quali si è nuovamente economizzato e riparato le case, ‘l’alluvione’ è divenuta qualcosa di terribile e grande, di caro e vicino; è stato un legame intimo tra gli uomini di quella generazione che sono ancora vivi ma sempre più rari, poiché nulla unisce le creature quanto la sventura affrontata insieme e felicemente. Ed essi si sono sentiti saldamente legati dalla memoria di quella lontana calamità. Per questo amano tanto quei ricordi sul più duro colpo che abbiano ricevuto nella loro vita, e trovano in essi un piacere che hai più giovani sembra incomprensibile. 
Le loro reminiscenze sono inesauribili, ed essi sono infaticabili nel riferirle; si completano i discorsi e si suscitano memorie reciprocamente; basta che si guardino l’un l’altro nei loro occhi senili per scorgere quello che i giovani non possono nemmeno sospettare; si sentono trasportati dalle loro parole; sciolgono le loro preoccupazioni presenti e quotidiane nel rammentare quelle più grandi, che sono ormai felicemente trascorse. Seduti nelle calde stanze delle loro case, sulle quali un tempo era passata l’inondazione, rievocavano per la centesima volta, con particolare diletto, le singole scene, commoventi o tragiche. E quanto più il ricordare era gravoso e doloroso, tanto più era grande la gioia del raccontare. Guardate attraverso il fumo del tabacco o attraverso un bicchierino di leggera rakija, quelle scene apparivano spesso trasformate dalla fantasia e dalla distanza, ingrandite e abbellite, ma nessuno di loro se ne accorgeva, e ognuno avrebbe giurato che i fatti si erano svolti proprio così come li narravano, perché tutti avevano partecipato a quella trasformazione involontaria.
E così vivevano sempre alcuni vecchi che rammentavano l’ultima ‘grande inondazione’ della quale potevano sempre parlare tra loro, ripetendo ai giovani che non capitavano più le antiche sventure, così come erano scomparsi per sempre anche il bene e la felicità di una volta. (Andrič I., Il ponte sulla Drina, Milano, Mondadori 1960, pp. 82-84)



"La costruzione della memoria collettiva è propria degli storici, ma non solo di essi, anche della politica, o di qualsiasi altro gruppo umano proceda a tale elaborazione.
La memoria della grande alluvione è costruita come memoria collettiva di una comunità di villaggio, e di una comunità generazionale. Si tratta di una operazione, inconsapevole, di costruzione di una identità forte di gruppo fondata sull'operazione del rimemorare un fatto che ha riguardato la collettività."
(Appunti di Luca Alessandrini)




3) Marc Bloch: L'idolo delle Origini


"Col testo di Bloch, tratto da L'apologia della storia, si entra in pieno nell'operazione storica, nell'ambito della quale si nega recisamente la ricerca delle origini, che si sostituiscono all'operazione storiografica per fornire spiegazioni pronte. In tal modo Bloch smentisce anche la liceità di una interpretazione storica fondata sul nesso causale e temporale, per cui ciò che accade dopo è conseguenza necessaria di ciò che è accaduto prima."
(Appunti di Luca Alessandrini)



Qualunque sia l'attività umana studiata, il medesimo errore aspetta al varco i ricercatori di «origini»: confondere una filiazione con una spiegazione.
Era, a ben guardare, l'illusione dei vecchi etimologisti, i quali pensavano di aver detto tutto, quando avevan messo a confronto, con il significato attuale d'una parola, il più antico significato conosciuto; quando avevan provato, per esempio, che bureau indicò in origine una stoffa (il «burelle»), oppure timbre un tamburo. Come se il problema capitale non fosse quello di sapere come e perché s'effettuò il passaggio da un senso all'altro. Come se, soprattutto, una qualsiasi parola non avesse, accanto a un proprio passato, una sua funzione, fissata, nella lingua, dallo stato contemporaneo del vocabolario, a sua volta imposto dalle condizioni sociali del momento. Bureaux in bureaux de ministère, vuoi dire una burocrazia. Quando io chiedo alla posta dei timbres, l'uso da me fatto di tale parola ha richiesto per affermarsi, accanto all'organizzazione lentamente elaborata di un servizio postale, la trasformazione tecnica decisiva per l'avvenire degli scambi di pensiero fra gli uomini, per la quale, or non è molto, si sostituì all'impressione di un sigillo l'apposizione di una vignetta gommata. Ciò è stato reso possibile soltanto perché le differenti accezioni del vecchio nome, distinte per mestieri, si sono oggi tanto allontanate l'una dall'altra che nessuna confusione può prodursi fra il timbre (francobollo che incollerò sulla busta e, per esempio, il timbre (timbro), di cui il negoziante di strumenti musicali mi decanterà la purezza, vantandomi la sua merce.
«Origini del regime feudale», si dice. Dove cercarle? Qualcuno ha risposto: «Nel mondo romano». Altri: «In Germania». Le cause di questi miraggi sono evidenti. Qui o là, infatti, vigevano determinate consuetudini - rapporti di clientela, abitudine del «capo» di vivere circondato da compagni d'arme, funzione della tenure come compenso di servizi -, che le generazioni successive, contemporanee, in Europa, dell'età cosiddetta feudale, dovevano continuare. D'altronde, non senza profonde modifiche. Da ambedue le parti, soprattutto, erano usate parole - «beneficio» dai Latini, «feudo» dai Germani - che queste generazioni continueranno ad usare, pur conferendo loro, a poco a poco e senza rendersene conto, un significato quasi interamente nuovo. Infatti gli uomini — per la disperazione degli storici - non hanno l'abitudine di mutare il vocabolario ogni volta che mutano abitudini. Quelle che abbiamo fatto più sopra sono certamente constatazioni di notevole interesse. Ma esauriscono davvero il problema delle cause? Il feudalesimo europeo, nelle sue istituzioni caratteristiche, non fu un arcaico tessuto di sopravvivenze. In un certo momento del nostro passato, esso sorse da tutto un contesto sociale.
Il Seignobos ha scritto non ricordo dove: «Io credo che le idee rivoluzionarie del secolo XVIII siano derivate dalle idee inglesi del XVII». Con ciò voleva forse significare che gli scrittori francesi dell'età dei lumi, avendo letto alcuni scritti inglesi del secolo precedente o avendone subito indirettamente l'influsso, ne adottarono i principi politici? Dargli ragione potremmo solo supponendo che i nostri filosofi nulla abbiano immesso di originale, in fatto di contenuto intellettuale o di tono sentimentale, nelle idee forestiere. Ma anche se così ridotta, alquanto arbitrariamente, a un fatto di imprestito, la storia di quel movimento filosofico sarà ben lungi dall'essere completamente chiarita. Rimarrà sempre il problema di sapere per quale motivo la trasmissione avvenne alla data indicata, né prima, né dopo. Un contagio presuppone due fattori: gènerazioni di microbi e, nel momento in cui la malattia at-tacca, un terreno propizio.
In conclusione: un fenomeno storico non è mai cornpiutamente spiegato se si prescinde dallo studio del mo-mento in cui avviene. E ciò vale per tutte le fasi dell'evoluzione umana: per quella in cui viviamo noi, come per altre. Lo disse prima di noi il proverbio arabo: «Gli uomini somigliano al loro tempo più che ai loro padri». Lo studio del passato è caduto talvolta in discredito, per a-ver dimenticata questa massima orientale. (Bloch M., Apologia della storia, Torino, Einaudi 1969, pp. 46-48)





4) Bidussa:Il mito del bravo italiano


"Bidussa, non è uno storico, ma indaga con metodo storico l'antisemitismo fascista. In relazione alla costruzione del nuovo razzismo italiano fascista ad opera del regime, mostra una operazione di costruzione di un "mito delle origini", quello di un mondo contadino italiano sul quale fondare il consenso al regime, alle sue guerre, al suo specifico razzismo."
(Appunti di Luca Alessandrini)



Non aver fatto allora, nell’immediato secondo dopoguerra, i conti con il proprio antisemitismo, comunque averli frettolosamente chiusi in nome di una riconciliazione nazionale all’«ombra dello stellone» - e spesso ostinarsi ancora oggi a non volerli fare in nome di quel «quadretto di maniera» sul «bravo italiano» costruito intorno alla matrice generativa dell’antiamericanismo — tutto ciò comporta la persistenza di un senso comune che, se non opportunamente sorvegliato e controllato, può riaprire quella dinamica che la retorica del secondo dopoguerra ha ritenuto solo una brutta parentesi da dimenticare, un «corpo estraneo tra noi». E’ probabile, invece, proprio per la «coazione a ripetere» frutto della sovrapposizione di ingenuità-cinismo-disincanto per cui ogni volta la propria metamorfosi non solo derubrica il passato, ma rende «innocenti», che la vera parentesi sia stata solo l’illusione della propria «immunità culturale» ai fanatismi, l’autodichiarazione di «naturale bontà» così fortemente propagandata e ripetuta, quasi gridata, nel secondo dopoguerra. E ciò non casualmente. In nome di necessità superiori (la necessità di schierarsi in conseguenza del confronto bipolare), l’antiamericanismo nell’Italia del secondo dopoguerra o si eclissa, in nome della ricerca di protezione sotto l’ombrello del «grande fratello» d’oltreoceano o si trasforma in rifiuto politico dell’America, nel nome del mito sovietico. Ma destra, centro e sinistra in Italia rimango-o sostanzialmente connotate da un forte antiamericanismo. E’ solo con la fine del bipolarismo che il cortocircuito fra antiamericanismo e rivalorizzazione del mito della tradizione può liberamente ricostruirsi in tutto l’arco delle culture politiche in Italia. Infatti, se nell’ansia «prometeica» e «titanica» degli anni della ricostruzione (1945-50) opera una sorta di orgoglio collettivo che riscatti dalla sconfitta, una volta superata quella fase e consolidati i risultati materiali, la diffidenza nei confronti della «modernità» torna protagonista. Paradossalmente, anche se non sorprendentemente, la condizione di un soddisfacimento dei bisogni postmateriali, anziché proporre finalmente una società «moderna», riapre la questione della propria fisionomia primigenia e, dunque, rientra in campo quell’«antico» accantonato o «trattenuto» in nome dello sviluppo. Ma adesso non si esprime più un «antico» genuino, bensì la sua nostalgia, ovvero il suo mito. In questo terreno compreso tra la fuoriuscita dall’«antico» e un approdo tutto materiale, ma non convinto, al «moderno», si instaura una sorta di condizione ifelice continuamente attratta dal richiamo al «buon tempo antico». Lo sviluppo «zoppo» diviene patologia e ritorna un «antico» appreso, memorizzato e trasmesso come macchina mitologica. E questa un apparato analitico che vuole fornire una spiegazione del funzionamento delle cose e della loro essenza, ma che nella comunicazione si serve ancora di miti, di materiali mitologici. Con ciò lo strumento gnoseologico si trasforma anch’esso in materiale mitologico. La macchina e mitologica perché rientra fra i materiali della mitologia, non già perché sia lo strumento che permette di decodificarli e dunque di conoscerli.


(Bidussa D., Il mito del bravo italiano. Persistenze, caratteri e vizi di un paese antico/moderno, dalle leggi razziali all’italiano del Duemila, Il Saggiatore, Milano, 1994).


A un anno dalla morte di Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia osservava che il mito della cultura contadina veniva ad assumere per lui — e presumibilmente per gran parte di quel «senso comune» che caratterizzava e connotava, a metà degli anni settanta, l’innamoramento per il mondo contadino come fuga dalla città e ricerca del «genuino popolare» — un valore d’attualità in termini psicologici quale reazione metafisica alla paura di una catastrofe imminente (Moravia 1976). Per questa via, anche se queste non erano le intenzioni dichiarate di Pasolini, la riproposizione in Italia del mito della civiltà contadina significava richiamare alla memoria un vecchio e consolidato scenario cui l’ideologia del ruralismo fascista aveva fortemente contribuito sulla scorta di varie sollecitazioni e preoccupazioni: dalla giustificazione della riduzione dei redditi e dei consumi alla politica autarchica, infine alla battaglia contro l’urbanesimo. L’immagine corporativa del mondo contadino nella cultura fascista corrispondeva a due indirizzi culturali. Il primo, che aveva tra i suoi ispiratori Arrigo Serpieri, esaltava la società rurale come sentimento della proprietà, culto della famiglia, senso della tradizione, rispetto delle gerarchie, attaccamento alla patria. Il secondo, che aveva i suoi esponenti di punta in quella cultura «selvaggia» del fascismo ribelle toscano (Malaparte, Maccari) legata a un’idea del mondo contadino come società spartana, insisteva sulla qualità della stirpe, individuava in quel mondo umano il fondamento contemporaneamente della missione civilizzatrice e imperiale della nazione italiana e la fisionomia dell’Italia come «nazione proletaria». Ma, in conseguenza e in relazione a ciò che in quegli anni veniva agitandosi da parte delle destre totalitarie, affascinate dal mito comunitario (un aspetto che non a caso verrà esaltato dal discorso identitario della Francia di Vichy), recuperare e proporre una versione mitogenica del primigenio contadino apriva a scenari che sarebbe riduttivo e miope leggere solo come organizzazione degli argomenti e delle raffigurazioni iconografiche di un «discorso di nostalgia». Dietro e oltre — comunque principalmente attraverso e in grazia di — quella nostalgia, ciò che prendeva corpo era la fondazione di un nuovo approccio alla scrittura delle regole e delle norme dell’italianità. Una forma prescrittiva dell’identità collettiva e dell’appartenenza comunitaria che velocemente assumeva i contenuti e i significati di una spiegazione razzizzata della società e della storia. Visione che non faceva perno sui sangue bensì sulla formazione storica e sulla sedimentazione dei carattere, il cui paradigma non era delegato — almeno in prima battuta — alla fisiognomica ma alla demologia e allo studio della tradizione popolare.
Nella seconda metà degli anni trenta, nel momento in cui il regime ha bisogno di chiamare a raccolta in nome dell’impero da costruire, è al mondo contadino che farà riferimento costante. L’oleografia della famiglia contadina stretta intorno al suo capofamiglia, che ispirerà l’iconografia del regime (Malvano 1988, pp. 59-60), non è che il messaggio costante di un rifiuto della civiltà del confort e, contemporaneamente, l’esaltazione della tenacia, della forza silente, della sopportazione paziente di un mondo, proletario, assunto come figura sfruttata da «ingordi spendaccioni urbanizzati» e privi di eroicità.
Gran parte dell’humus culturale che produrrà l’habitat delle leggi razziali in Italia deriva non dall’esaltazione di una superiorità di sangue ma da una chiamata a raccolta per ritrovare i fondamenti della propria comunità minacciata. Da questo lato, il richiamo forte al mito della civiltà contadina non è né casuale né improprio. Ma osservare questo implica comprendere che le leggi razziali non sono un incidente di percorso, bensì si originano intorno a un nucleo culturale coerente, tutto italiano, che, mentre si esplicita, si propone anche come una riscrittura modernizzata, meglio aggiornata, del binomio antico/moderno.
(Bidussa D., Il mito del bravo italiano. Persistenze, caratteri e vizi di un paese antico/moderno, dalle leggi razziali all’italiano del Duemila, Il Saggiatore, Milano, 1994)



"Bidussa nel suo lavoro fa ricorso all'antinomia antico-moderno per costruire una interpretazione storica della società italiana nella quale si è costruito il razzismo italiano degli anni Trenta e Quaranta. In questo brano sposta la sua attenzione sul radicamento della costruzione dell'identità collettiva fascista e di come questa non sia stata posta in discussione nel dopoguerra. Anzi come tale discussione, che troppi problemi avrebbe sollevato, fu elusa facendo ricorso nuovamente a miti, segnatamente quello del "bravo italiano". Italiano che non sarebbe stato realmente razzista, che comunque non avrebbe creduto alla legislazione razzista e non la avrebbe applicata, che non avrebbe partecipato allo sterminio se non in quanto costretto dai tedeschi, e via elencando i passaggi di uno stereotipo consolatorio e rassicurante. Tale stereotipo, in una fase di transizione quale è quella dell'Italia degli ultimi dieci anni, è utilizzato come scorciatoia identitaria, ed ancora oggi è proposto con forza dalla destra, ma anche - ciò che è più grave per la sua storia - da gran parte del centro sinistra."
(Appunti di Luca Alessandrini)



5) Enzensberger: Che cos’è la guerra civile?


"Enzesberger chiama in causa il tema del consenso e della responsabilità sociale per le grandi tragedie del Novecento. Egli scrive sollecitato dalla tragedia delle nuove guerre civili - o presunte etniche, termine che respingo - seguite alla fine della guerra fredda. Non è uno storico, è uno scrittore che, pertanto, affronta di petto la questione etica della memoria relativamente ai grandi fatti storici e sociali."
(Appunti di Luca Alessandrini)



Essendo nato per caso qui, in Germania, mi vedo ancora oggi, cinquant’anni dopo, rannicchiato in uno scantinato, avvolto in una coperta. Ancora oggi riesco a distinguere il tuonare continuo delle contraeree dal sibilo che accompagna la caduta di una bomba-mina. A volte in sogno torna a perseguitarmi l’urlo delle sirene, cresceva e scemava: una melodia
ripugnante. Quella sensazione fra il disagio e l’apatia che accompagnava il terrore dei bombardamenti non l’ho affatto dimenticata. E quegli adulti che se ne stavano accovacciati sulla panca dello scantinato, intenti ad ascoltare, e che parlavano di « attacchi terroristici » degli Alleati, erano la « popolazione civile innocente». Ogni volta che sento queste parole, mi viene da riflettere. Quando la guerra civile ha ormai raggiunto il suo culmine risulta che la maggior parte della gente non la voleva. E’ una maggioranza silenziosa. Nessuno ha riguardo nei suoi confronti. Ovunque le sia possibile, abbandona la lotta e fugge. Soprattutto le donne sono intente a raccattare fra le rovine una manciata di farina, un po’ di legna da ardere, delle patate, e a portar via i bambini. I vecchi rovistano fra i resti delle loro casupole rase al suoio, uomini stanchi seppelliscono i morti. Ognuno di noi conosce queste immagini e altre ancora, ben più tristi. Questi uomini non sparano né torturano. I loro volti non sono segnati dall’odio per il prossimo, bensì sfiniti dalla stanchezza. Eppure non è sempre stato così. In quella «popolazione civile innocente » che se ne stava seduta negli scantinati mentre le bombe al fosforo trasformavano la città in un mare di fiamme, si era verificato uno strano cambiamento. Ricordo infatti come i loro occhi si illuminassero a ogni discorso del Führer, il quale non nascondeva certo i suoi propositi di « una lotta inaudita, di dimensioni gigantesche», di una battaglia decisiva, condotta fino all’ultimo sangue e come loro, pochi anni prima, quando le sinagoghe bruciavano, se ne stessero semplicemente a guardare. Senza il loro entusiastico consenso i nazisti non sarebbero mai saliti al potere. Chiunque creda che questo valga soltanto per i Tedeschi è per me un idiota. Senza quella «penetrante energia», quella «felicità » e quell’«estasi » di cui parla Bill Buford non può scoppiare né la guerra civile molecolare davanti alla porta di casa nostra né l’inferno di fuoco al di là dei nostri confini. Inizialmente regna sempre un’esultanza isterica, nelle gradinate degli stadi come per le strade di Rostock e Brixton, di Baghdad e Belgrado. Spesso i guerra-fondai sono usciti dalle elezioni con maggioranze schiaccianti e le loro posizioni, a volte, hanno trovato conferma nelle urne. Soltanto più tardi, molto più tardi, secondo un meccanismo che mi risulta noto, la responsabilità dei crimini viene scaricata su questo o quel capo uscito di senno. Ma chi aveva allevato e foraggiato i colpevoli, chi li aveva applauditi e aveva pregato per loro se non «l’innocente popolazione civile»? Il franco tiratore nella sua tuta mimetica, il guardiano dei campi di concentramento, o il killer che ripete meccanicamente slogan nazisti, giaculatorie e canzoni popolari, tutti questi non sono certo personaggi di un altro pianeta, bensì gli inviati di una comunità della cui rabbia, crudeltà e brama di vendetta essi si nutrono. Soltanto quando costoro provano sulla propria pelle le conseguenze mortali delle loro azioni e omissioni, scocca l’ora degli innocenti.



(Enzensberger H. M., Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino, 1994).



6) Stella Rossa


"Il testo della "Stella rossa" testimonia dell'impossibilità e dell'assurdità di costruire interpretazioni del passato senza considerare lo spirito dei tempi, col rischio di piegare la memoria del passato alle nostre esigenze e sensibilità attuali. Oggi prevale la cultura non violenta in chi si riconosce nell'esperienza antifascista, e così è da un paio di decenni almeno. Ma questo non deve indurre nessuno a ricordare piegando il passato su questa nuova e nobile scelta, sottacendo il nodo della violenza che, invece, opportunamente studiato, può avere forti implicazioni esplicative."
(Appunti di Luca Alessandrini)



Vi avvertiamo che le nostre contromisure saranno terribili e senza via di mezzo. I vostri beni distrutti illumineranno con le loro fiamme l’ora della giusta sanzione, i vostri famigliari uccisi senza distinzione di sesso e di età
Appagheranno le giuste ire di chi, per colpa vostra, oggi piange e muore. La nostra rappresaglia vi raggiungerà ovunque e nessun rifugio, né guardie del corpo, varrà a salvarvi. Anche in capo al mondo colpiremo.
(Il Comando della brigata Stella Rossa ai “fascisti repubblicani di Monzuno”, giugno 1944. Contenuto in: Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, Feltrinelli, Milano, 1979, 3 voll., II a cura di Gabriella Nisticò, p. 89.)




7)Alla razza maledetta


Sappiate che noi abbiamo in cuore l’idea di una vendetta che sarà terribile ed esemplare, verrà un giorno in cui vo lo saprete che saremo padroni di nuovo delle nostre piazze. Non vi sarà più né grazia né cuore per gli uccisori del 1848 e del 1871. Noi mieteremo le vostre teste anche coperte di capelli bianchi, e colla massima calma. Non avremo che la morte. La morte sì per le vostre madri, per vostri padri, pei vostri parenti, fintantoché la vostra razza maledetta non sia del tutto distrutta, a rivederci fra poco, signori della Borghesia.
(Testo diffuso a Rimini nel 1873 citato in: Pav