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Mimma - Pino Cacucci

lunedì 28 gennaio 2002  legge Pino Cacucci
Pino Cacucci, dal suo libro "Ribelli", leggerà le pagine in cui si parla del sacrificio di Irma Bandiera, bolognese, catturata dai fascisti, torturata e poi uccisa perché non voleva rivelare i nomi dei partigiani da lei conosciuti. Eros Drusiani, prendendo spunto dal libro "Poesie di Albertina", racconterà la drammatica vicenda di Albertina Baffè, sopravvissuta ad una carneficina dove sono state uccise 23 persone: in pratica tutti i suoi familiari, quelli che lavoravano con loro e anche quelli che, per caso, si trovavano nei pressi della loro casa a Massa Lombarda.
Irma Bandiera e Albertina Baffè: due donne, due storie, due drammatiche testimonianze che ci invitano (il giorno dopo a quello dedicato alla Memoria) a non dimenticare le pagine più tristi, oscure e infami del secolo appena trascorso. Due donne, o forse sarebbe più corretto dire due ragazzine, vittime, seppur in modo diverso, della ferocia nazifascista. Irma è morta, trucidata senza pietà nel fiore degli anni. Albertina, senza più radici, ha vissuto ricordando perché quelli come Irma non c'erano più. 




Mimma
[…]
Ho davanti a me una strana fotografia. Strana per la sua assoluta normalità. Forse perché le immagini dei partigiani più diffuse li raffigurano in gruppo con le armi e le improbabili divise rabberciate, le une e le altre recuperate e riadattate, su sfondi di montagne o cascinali, oppure sono fototessera anni quaranta, volti quasi sempre seri, raramente sorridenti, comunque in posa per finire su un documento d'identità. Nella fotografia che ho davanti, Irma è appoggiata a un muretto che recinge un giardino alle spalle, un cagnolino ai suoi piedi, il vestito a fiori probabilmente variopinti, le scarpe bianche dai tacchi alti, la collana di perle intorno al collo: sorride discreta, schiudendo le labbra rese scure dal rossetto, i capelli impeccabilmente pettinati, e tutto in lei esprime ciò che era, cioè "una ragazza di buona famiglia", come si diceva allora, della piccola borghesia bolognese, una giovane donna a cui la vita poteva riservare agiatezza, tranquillità, se mai avesse fatto come la maggioranza dei suoi concittadini e dei suoi connazionali: le sarebbe bastato restare a guardare, come fa verso l'obiettivo, o meglio ancora non vedere e non sentire, senza scosse, senza coinvolgimenti… Senza un ideale.

Se Mussolini non avesse trascinato l'Italia in guerra, sarebbe probabilmente morto di vecchiaia come Francisco Franco, a meno che qualche giovane anarchico non fosse riuscito dove altri fallirono… Anche a Bologna qualcuno sparò un colpo di pistola contro il Duce in visita ufficiale. Era il 3 ottobre 1926, e i fascisti linciarono un ragazzo di quindici anni, Anteo Zamboni, senza che si sia mai potuto stabilire se fosse stato davvero lui a premere il grilletto. Comunque, la pallottola mancò il bersaglio, e il Sommo Pontefice dichiarò pubblicamente: "Questo è un nuovo segno che Mussolini gode della protezione di Dio". Certo non tutti gli italiani erano d'accordo con la provvidenza sancita dal papa, ma quelli disposti a combattere per rovesciare il regime sarebbero sempre rimasti un'infima minoranza, e soltanto il disastro del conflitto mondiale avrebbe trascinato con sé la dittatura, facendo sbocciare come per incanto un numero incredibile di antifascisti dell'ultima ora.

Nel 1944 il fascismo non era più quello dei tardi anni venti, quando infliggeva agli avversari politici intollerabili soprusi e violenze, a base soprattutto di manganellate e olio di ricino; ricorreva all'omicidio sporadicamente, dopo l'inizio di guerra civile che aveva preceduto la presa del potere. Vedendo sgretolarsi tutti i vagheggiamenti di vittorie e trionfi, con le città flagellate dai bombardamenti a tappeto e la popolazione stremata e sempre più ostile, il fascismo si abbandonò alle stesse efferatezze che avrebbero in seguito contraddistinto i regimi di ideologia affine in Cile, Argentina, Guatemala, e tanti altri paesi latinoamericani, non a caso infestati da migliaia di gerarchi nazisti rifugiatisi laggiù dopo la sconfitta. Con l'entrata in guerra saltarono tutti i precari equilibri, e le successive disfatte trasformarono i baldi giovanotti di ieri in belve sanguinarie, capaci di abominevoli bassezze nei confronti di prigionieri inermi. Una parte di loro si era forgiata alla pratica del massacro di civili indifesi nelle campagne d'Africa, con l'impiego di gas sui villaggi e la macabra consuetudine di farsi immortalare sorreggendo teste mozzate di ribelli; e poi in Spagna, dove, malgrado qualche batosta ricevuta, alla fine l'efficienza di tre poderose macchine da guerra – Franco, Mussolini e soprattutto Hitler – aveva avuto la meglio su un popolo in armi per giunta lacerato dalle lotte intestine tra stalinisti e rivoluzionari. Da quelle imprese erano usciti vittoriosi, ma nel 1944 avvertivano ormai l'avvicinarsi della fine. E si sentivano traditi dagli italiani, dai "milioni di baionette", prima sbaragliati sul campo e poi inclini al "disfattismo" o addirittura alla ribellione… Il loro fu un cammino simile ma inverso rispetto a quello dei militari fascisti argentini, così efficienti e disciplinati quando si trattò di far scomparire nel nulla trentamila persone inermi, dopo spaventosi supplizi, per poi correre a braccia alzate incontro ai soldati inglesi nelle Falkland, facendo una figura così miserabile che da allora non vale neppure più la pena chiamarle Malvinas, quelle isole del disonore...
Dall'Africa e dalla Spagna, ma anche dalla Iugoslavia, i fascisti italiani erano tornati credendosi pari o persino superiori ai "giovani leoni teutonici". Adesso, nel 1944, reagivano con la ferocia dei frustrati al proprio fallimento politico e morale.
Quello che fecero a Irma Bandiera per sette giorni e sette notti non fu certo, purtroppo, un caso isolato. Tutt'altro.

In famiglia la chiamavano Mimma. Quando nacque, nel 1915, il padre veniva arruolato per la Grande Guerra, che di grande ebbe soltanto il massacro di contadini dall'una e dall'altra parte della trincea. La madre, disperata per la partenza forzata del marito, si consolava dicendole: "Meno male che sei femmina, almeno tu non andrai in guerra…" E invece, quella guerra avrebbe lasciato tornare l'uomo di casa, mentre la successiva si sarebbe presa proprio Mimma.
Durante il ventennio fascista, Irma Bandiera cresceva al riparo dalla violenza, protetta dall'appartenenza a una famiglia benestante che, pur coltivando ideali democratici, non si esponeva manifestandoli apertamente. L'hanno descritta come una ragazza allegra, generosa, dal carattere calmo e riflessivo, mai un colpo di testa, mai un gesto avventato. Qualcuno l'ha definita "una signorina sofisticata". Quando l'Italia entrò in guerra, Irma aveva venticinque anni. Poteva unirsi agli sfollati scegliendo una dimora in campagna sufficientemente agiata e confortevole, non le mancavano i mezzi e le conoscenze per risparmiarsi la paura dei bombardamenti e la penuria della vita quotidiana in città. Invece, cominciò a frequentare gli ambienti antifascisti bolognesi all'insaputa dei genitori, e quando fece il grande passo, diventando militante dei GAP, staffetta partigiana e poi combattente della 7a Brigata, andava e tornava da casa per partecipare ad azioni rischiose senza che loro sospettassero nulla.
La catturarono il 7 agosto 1944. Tornava da una consegna di armi alla base di Castelmaggiore, e portava con sé documenti cifrati. Per i carnefici aveva una doppia colpa: si rifiutava di rivelare i nomi dei compagni ed era donna. Si alternarono su di lei in tanti, ognuno inventando nuovi tormenti e sevizie innominabili, ma la Mimma non parlava. La baldanza si tramutò in livore e frustrazione: avevano fatto parlare tanti uomini, spesso grandi e grossi, robusti come tori, cocciuti come muli, e quella lì… una donnina così esile, niente. Non apriva bocca. E li fissava con quei suoi grandi occhi che risaltavano sul viso magro e la fronte ampia… Li guardava con un muto disprezzo, tutto il disprezzo del mondo concentrato in quegli occhi. Così la accecarono.
Era ancora viva quando il 14 agosto gli aguzzini la scaraventarono sul marciapiede, al Meloncello, sotto la finestra dei genitori. Uno disse: "Ma ne vale la pena? Dacci qualche nome, e potrai entrare in casa, farti curare… Dietro questa finestra ci sono tua madre e tuo padre".
Mimma non rispose. La finirono con una raffica di mitra, e se ne andarono imprecando.

Nell'Istituto della Resistenza ho letto la testimonianza di un compagno di Irma Bandiera che faceva parte del suo gruppo, un partigiano chiamato Cestino. Appresa la notizia della cattura, si pose il problema se abbandonare i rifugi da lei conosciuti. E' sempre stato così, in qualsiasi lotta di resistenza a dittature in qualsiasi parte del mondo. Tutt'al più, dal combattente caduto ci si aspetta qualche ora di silenzio, per dare il tempo agli altri di fuggire, ma poi non si può pretendere da nessuno che sopporti le torture fino alla morte. Cestino disse: "La conosco, la Mimma, lei non parlerà". E rimase dov'erano.
Ho provato uno strano sentimento, abbastanza simile alla rabbia, ma diverso. Una sorta di delusione nei confronti dell'amicizia, che doveva unirli quanto e più degli stessi ideali. Che diritto avevano di darlo per scontato? Come si può pensare che un essere umano resista per sette giorni e sette notti a tanto orrore? Mimma lo ha fatto. Non ha parlato. Nessun altro venne catturato.
Ma se avesse ceduto allo strazio del corpo e alle abominevoli umiliazioni inflitte al suo spirito, se Mimma avesse parlato… sarebbe forse meno limpida la sua figura, meno giusto il bisogno di conservarne la memoria?
Nessuno aveva il diritto di pretenderlo, e neppure di aspettarselo.

(Cacucci P., Ribelli!, Milano, Feltrinelli 2001, pp. 65 – 70)



Dibattito:

Una legge di due anni fa stabilisce che il 27 gennaio sia anche in Italia giorno dedicato alla memoria. Il 27 gennaio 1945 furono abbattuti i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Questo giorno vuole che noi ricordiamo.
Su questo percorso si inserisce la nostra lettura, una lettura di testimonianza, sia di chi è stato martire, annullandosi in essa, sia di chi è sopravvissuto e ha raccontato. Due personaggi femminili sono quelli che incarnano questo duplice aspetto. Irma Bandiera, giovane donna trucidata dai nazifascisti e Albertina Santi Baffè, testimone del massacro della sua famiglia, tristemente sconosciuto ai più.
Eros Drusiani introduce le poesie di Albertina. E legge. Albertina faceva parte di una delle grandi famiglie contadine che fino al secondo dopoguerra popolavano le nostre campagne. Viveva a Massa Lombarda, ma come Irma Bandiera, fu attiva nel quartiere di via Andrea Costa. Pippo Baffè era un capo della Resistenza, ricercato soprattutto dai Repubblichini, quel giorno non era alloggiato lontano da casa. Bastò una voce, una delazione e fu trovato ed ucciso. Lo stesso giorno, il 17 ottobre 1944 ventitrè persone che abitavano in via Martello furono sterminate: due famiglie, i Baffè e i Foletti, accomunate prima che dalla morte dalle pannocchie sfogliate insieme. Era un giorno normale, di lavoro. Albertina fu risparmiata con il figlio, che allora aveva un anno e mezzo. I nazisti e i repubblichini se ne andarono dopo aver scritto sulle mura della casa “qui abitava una famiglia di partigiani e assassini”, “hier wohnte eine familie…” .
Le poesie di Albertina sono non solo il lascito di un testimone ma anche letteratura. La commozione è giusta, necessaria, ma ancor più importante è la rabbia di cui ci parla Eros. Bisogna ricordarsi chi ha ucciso, l’orrore ha dei nomi, ha delle responsabilità che non possono essere avvolte nell’oblio del buonismo retorico. Eros ha avuto modo di parlare con il figlio di Albertina. Non era un individuo assetato di vendetta, ma ha parlato del coraggio con cui bisogna ricordare chi e come, perché potrebbe accadere di nuovo.
Pino Cacucci dice che il male non è finito nel 1945. Nel Sud America la violenza è stata perpetrata nei confronti di chi ha resistito in tutti i regimi dittatoriali, insediatisi col benestare del premio Nobel per la pace Kissinger. C’è un male ineliminabile nell’uomo, una sorta di belva feroce pronta a tornare fuori se non si tiene alta la guardia.
Nel suo libro ‘Ribelli’, un capitolo è dedicato proprio alla storia di Irma Bandiera. Cacucci si documenta e scrive, ma non da storico. Cerca persone da raccontare.
Irma Bandiera aveva meno di trent’anni quando fu catturata, una ragazza bella, elegante, una persona benestante che niente avrebbe spinto a sposare la causa se non una scelta forte. Dopo sette giorni di tortura venne finita per strada, vicino a casa, perché continuava a rifiutarsi di parlare. La sua è una storia che non conoscevo. Mille volte sono passata lungo la strada che porta il suo nome.
Giancarlo Grazia allora aveva sedici anni. E’ stato un partigiano e da allora certo non dimentica; come in tutti i ricordi dei nonni sulla guerra, ogni dettaglio ancora è impresso nella sua memoria: le facce, i nomi, le successioni dei momenti. Ha conosciuto Albertina di persona e ha sentito a lungo parlare di Irma. Da Albertina non seppe mai nulla della strage della sua famiglia, né del fatto che scrivesse poesie. Grazia era sfollato come Irma vicino a Funo. L’antifascismo è sempre stato presente in quei luoghi. Anche lì cominciò la formazione dei primi gruppi armati: tanti giovani, molte donne. Come in ogni esperienza di resistenza, vigevano rigorose norme di clandestinità. Irma faceva la staffetta. Ma se Irma avesse parlato sarebbe stata ricordata lo stesso? Era lecito aspettarsi da lei tanta forza? Gli uomini e le donne che hanno fatto la Resistenza non erano eroi, come sono dipinti da quelle lapidi sbiadite. Erano persone comuni, semplici, prese dai dubbi. Quello che rende loro giustizia non è la retorica da medaglie d’oro. Continuare a far luce su ciò che è stato, questo è importante, non lasciare che quei valori che ci ha consegnato la storia vengano messi in discussione. Ecco cosa intendono dire le parole di Dossetti che ci legge Franco Capizzi. L’oblio e la programmatica falsificazione delle parole sono le condizioni per far ritornare la malattia. Tutto questo si può ripetere in qualsiasi momento.
Per i bambini cresciuti nel dopoguerra, ci racconta Filloni, la storia che imparavano a scuola si fermava al 1918. Allora si diceva che gli avvenimenti erano troppo recenti.
Tuttora, dice Paolo Bollini, è difficile insegnare a scuola la Resistenza. La letteratura fa vedere ai ragazzi la storia dal punto di vista di altri ragazzi, come fa Calvino ad esempio. I partigiani erano poco più che bambini. Avevano il bisogno di giustizia che si ha a vent’anni. Quindi accostarsi a questo tipo di narrativa è coinvolgente e determinante nella formazione della coscienza storica e, di riflesso, forse della vita di ciascuno. Probabilmente non saremmo gli stessi se non avessimo incontrato i maestri che abbiamo effettivamente incontrato. Come dimostra la signora Ciampi nella sua esperienza di insegnante elementare, i bambini si sentivano partecipi della vita di Edera di Giovanni e si chiedevano: ‘come si fa a diventare martiri?’ . Verrebbe da rispondere da persone normali, ma contro un certo modo di essere. Costruire significa infatti tracciare delle linee e scegliere quello che non si vuole, questo è anche resistenza, come ci ricorda Andrea Severi. Su questo punto si inserisce una domanda di Marco Guerzoni. Quanto fare o essere resistenza significa essere progressisti? I grandi progetti si attuano dalle piccole cose, riprende Cacucci, si fa e si fece resistenza per un senso di dignità umana. Fu un fenomeno spontaneo, strumentale è stata solo la mistificazione che se ne è fatta.
“Il senso della nostra battaglia è insieme che politico anche morale ; più ancora profonda la consapevolezza che, al di là dello stesso fascismo, questa muta meschina e urlante rimarrà a lungo nelle case, nelle strade, negli uffici, nei bar, intorno a noi. Quanto occorrerà per liberarla dalla sua miseria? Ma certo, prima di allora, ancora ci soffocherà , forse prevarrà, inserita nella società emersa dalla guerra e dalla Resistenza” (Mario Spinella, Memoria della Resistenza, 1961) 

Articoli:

L’ECCIDIO ALLE CASE BAFFE’ - FOLETTI
DI MASSA LOMBARDA 


Raccontano che quella mattina sulla campagna era calata la nebbia come sempre accade all’inizio dell’autunno. Ireneo Borghi si era alzato di buon’ora per andare dai Baffè a comprare l’uva per il vino che, nonostante la guerra, non rinunciava a mettere in cantina. Per la stessa ragione Augusto Maregatti aveva inforcato la bicicletta e si era diretto verso la casa dei Baffè. L’uno e l’altro non sapevano che nella zona era in corso un rastrellamento e che non molto lontano c’era stato uno scontro a fuoco con un gruppo di partigiani, uno dei quali era stato colpito a morte. Soprattutto non sapevano che attorno alle case Baffè e Foletti i soldati tedeschi e i repubblichini delle “brigate nere”
avevano stretto un cerchio di fuoco e di violenza terrificante dentro il quale ambedue sarebbero imprevedibilmente finiti. Maregatti pagò con la vita la casuale presenza in quel luogo. Ireneo Borghi si salvò fortunosamente ma non potè mai più dimenticare quel giorno d’inferno.

La strage del 17 ottobre 1944 alle case Baffè e Foletti è fra le più sconvolgenti fra le molte avvenute durante la lotta di liberazione. Probabilmente per i tedeschi si trattava di compiere una delle tante azioni di repressione anti-partigiana. Per i fascisti del luogo c’era invece qualcosa di più : c’era il proposito di farla finita una volta per tutte con Giuseppe “Pippo” Baffè, comunista durante il ventennio e ora anche animatore della Resistenza e di “chiudere i conti” anche con sua famiglia che non aveva mai abbassato la testa di fronte alla dittatura mussoliniana Infine, si voleva distruggere quella casa che era sempre stato un covo di sovversivi, luogo d’incontro di antifascisti e di partigiani, quindi un simbolo da abbattere. Si doveva dare un colpo alla Resistenza che in quel momento era particolarmente attiva e incutere terrore fra la popolazione. Una spiata aveva informato che “Pippo” era stato visto da quelle parti. Forse era la volta buona !

A rileggere le cronache e le testimonianze di quel giorno sembra che proprio questo fosse il piano
d’azione che vide nelle prime ore del mattino la casa circondata dai tedeschi e dai fascisti e nelle ore seguenti un succedersi di atti di inaudita crudeltà. C’è un dato che conferma questa volontà distruttiva, questo proposito di vendetta : è il cartello che uno dei fascisti massesi, forse il più fanatico e sanguinario, scrisse in lingua italiana e tedesca e affisse alla casa dei Baffè :” Qui abitava una famiglia di partigiani e di assassini / Hier wohnte eine familie von partisan und verbrecher”. “Abitava”: ora non più! Così l’odio che da tanto tempo covava nell’animo dei fascisti esplose nel modo più bestiale.

Morire è morire: ma quello che successe quel giorno è cosa che va oltre il segno della morte, qualcosa che è difficile descrivere. Morirono dieci della famiglia Baffè, la casa venne incendiata e distrutta, i corpi seviziati vennero gettati fra le rovine fumanti. Non paghi di tanto sangue fascisti e nazifascisti passarono alla casa accanto, quella dei Foletti, e continuarono nel massacro. Morirono ventitre persone : oltre ai Baffè , i quattro fratelli Foletti e altre nove vittime presenti con loro nelle case come collaboratori agricoli o presi a caso come il povero Augusto Maregatti, compratore di uve per il vino di casa.


Annunciata Foletti era riuscita a sfuggire al rastrellamento e più tardi, rimasta chiusa in casa, attraverso le persiane socchiuse aveva visto ciò che accadeva sull’aia dei Baffè. Nella testimonianza
resa davanti al Tribunale di Ravenna nel processo del 4 – 5 marzo 1947 contro i fascisti della “brigata nera” di Massa Lombarda, ebbe a ricordare che i componenti della famiglia Baffè più parecchi sfollati erano stati raggruppati di fronte alla casa: presentavano i segni delle botte che avevano subito quando, in precedenza, li avevano portati in paese con un camion. I soldati tedeschi e i briganti neri li insultavano e compivano su di loro ogni sorta di violenza e sevizie. Poi vide che venivano scelti uno alla volta, portati sulla soglia dell’abitazione e fucilati con raffiche di mitra. A dare le indicazioni delle persone da uccidere erano i brigatisti neri. Restò sgomenta quando vide la “Lalla” cadere fra le braccia di suo padre “Pippo”. E vide due ragazzi prelevati dal gruppo e costretti con bastonate a fare degli scavi sotto la porta di casa dove sarebbe stato collocato il tritolo. L’esplosione fece crollare l’edificio in parte sui cadaveri. L’incendio fece il resto. Poi la violenza dei nazifascisti si scatenò sulla sua casa. “Vennero in casa mia, volevano mangiare e chiedevano il vino migliore…. Poi andarono in fondo al podere a prelevare i miei familiari e il garzone. Li portarono nel cortile : volevano che dicessero dov’erano partigiani. Loro non rispondevano, forse non sapevano e se qualcuno sapeva taceva. Erano furenti. Li minacciavano e li colpivano, poi vennero allineati con la schiena contro la porta della stalla… Venne incendiato il fienile sopra di loro e vennero falciati a raffiche di mitra. Spararono tedeschi e fascisti. Morirono anche i due ragazzi che erano stati costretti a scavare le buche per gli esplosivi nella casa dei Baffè. Mio zio, Giuseppe Foletti, di novant’anni era rimasto in casa nascosto: venne trovato e portato fuori. Alla vista del massacro tentò di inveire ma uno di quei delinquenti lo infilò in cima ad un forcale e lo buttò vivo in mezzo alle fiamme dove morì orrendamente”.


Così andarono le cose quel giorno di ottobre del 1944 alle case Baffè e Foletti. Gli Alleati avevano
liberato Rimini il 21 settembre e si attendeva una rapida avanzata verso la pianura padana. Ma il fronte si era attestato davanti agli argini del fiume Senio e Massa Lombarda era divenuta zona di retrovia. L’azione partigiana si dispiegò ovunque e la repressione tedesca fu quanto mai violenta. Il 27 novembre a Madonna dell’Albero, vicino a Ravenna i nazisti, dopo uno scontro con i partigiani, fucilarono 56 abitanti del luogo appartenenti a 15 nuclei familiari. L’inverno fu durissimo, sotto tutti i punti di vista : fame, freddo, bombardamenti, rastrellamenti . Soltanto la primavera portò l’alba della liberazione. La guerra partigiana non dette tregua agli invasori ed ai briganti neri. Riscattò l’Italia dalla vergogna fascista e onorò i Martiri della Resistenza.


Per due giorni la nebbia e la pioggia calarono sulle rovine fumanti e su quei corpi martoriati. Toccò ad Albertina – testimone di quel massacro, dal quale si salvò per puro caso – riconoscere i suoi cari. Di quella tragedia Albertina Baffè Santi ci ha consegnato una testimonianza poetica di altissimo valore civile ed umano, oltre che letterario, nella quale il dolore e la sofferenza si accompagnano alla condanna della guerra e contemporaneamente ad un forte messaggio di amore e di speranza nella vita. Un testo (Poesie di Albertina, Ed. Vangelista, 1993) che dovrebbe essere nelle biblioteche di tutte le scuole come strumento didattico per la memoria della Resistenza e la cultura della pace.

A MASSA NEL RICORDO DI ALBERTINA


Massa Lombarda ha ricordato le vittime della strage alle Case Baffè e Foletti a cinquantasei anni da quel tragico evento. Attorno al monumento che ricorda tutti i Caduti per la libertà i cittadini massesi si sono raccolti a testimoniare che la Resistenza è ancora viva ed è ben radicata nella memoria e nell’impegno di oggi. Il sindaco Daniele Bassi lo ha ricordato con parole forti e adeguate al momento che attraversiamo, denso di pericoli per la democrazia del nostro paese e per la pace nel mondo. Tra il folto pubblico spiccava la presenza di molti ragazzi della scuola media “Salvo D’Acquisto” accompagnati dai loro insegnanti e di altri ragazzi di una scuola elementare. Ogni anno nelle scuole di Massa si producono ricerche ed elaborati di vario genere sul tema della Resistenza nella storia d’Italia. La stessa cosa avviene in molte altre scuole della nostra Regione e questo fa ben sperare di fronte alla deriva di destra che vorrebbe cancellare la Resistenza dai libri di testo o quanto meno omologarla a chi si pose al servizio degli oppressori nazisti e si macchiò di orrendi delitti.
Alla commemorazione ha partecipato anche un gruppo di partigiani e antifascisti bolognesi. Abbiamo chiesto ad Emma Casari, presidente dell’Anpi del quartiere “Saragozza” le ragioni di tale presenza. “ Siamo venuti a Massa Lombarda per rendere omaggio ai morti del 17 ottobre 1944 e anche per comprendere meglio lo svolgersi di quell’evento da noi poco conosciuto. Ma c’è una ragione più particolare che ci ha spinti ad essere qui oggi ed è la vicinanza e l’affetto che ci unisce alla famiglia di Albertina Baffè Santi. Abitiamo nella stessa zona, ci conosciamo da tanti anni e abbiamo condiviso tanti momenti di impegno civile e politico nel nome dell’antifascismo e della Resistenza. Ora Albertina non c’è più. Sono dieci anni che ci ha lasciati, ma sono rimasti i suoi insegnamenti, il suo esempio di donna e di madre, le sue poesie. Ecco perché abbiamo voluto testimoniare a lei ed ai suoi familiari il nostro ricordo con la presenza davanti alla casa che vide compiersi la strage della sua famiglia e alla commemorazione dei ventitre morti di quel giorno”. Emma ricorda che l’anno scorso, a Villa Spada, dove sorge il monumento alle 128 partigiane bolognesi cadute nella lotta di Liberazione, vennero lette alcune delle poesie scritte da Albertina e la cosa venne apprezzata da molti studenti ed insegnanti . “Ora ci siamo ripromessi di chiedere la collaborazione ad alcuni istituti scolastici del nostro quartiere per promuovere una ricerca ed un percorso storico-culturale sulla Resistenza proprio partendo dai testi di “Poesie di Albertina”, chiedendo eventualmente anche testimonianze e contributi che potremmo raccogliere proprio qui a Massa Lombarda. Il sindaco e i compagni dell’Anpi si sono detti disponibili e noi ne siamo molto felici.”
E conclude : “Stamattina siamo partiti da un luogo caro anche ad Albertina : una strada che lei percorreva spesso, una casa di fronte alla quale si soffermava certamente con l’angoscia dei suoi ricordi. Siamo partiti dalla casa di Irma Bandiera, eroina della Resistenza. Il 14 agosto 1944 il suo corpo orrendamente martoriato venne gettato in segno di spregio davanti alla porta di casa dalle belve nazifasciste. Irma Bandiera (“Mimma”) partigiana della 7.a Brigata Gap non parlò. Preferì la morte. Noi la ricordiamo sempre. E’ per questo che abbiamo messo insieme due storie, due eventi tanto simili quanto tragici per un percorso della memoria della Resistenza.”

Domenica 21 ottobre 2001 sulla campagna intorno a Massa Lombarda e sulla via Martello che conduce alle Case Baffè e Foletti non c’era nebbia. Splendeva un tiepido sole autunnale che dava allegria e speranza.


Giancarlo Grazia, A.N.P.I. ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA
Quartiere “Saragozza” – Bologna


L’ECCIDIO ALLE CASE BAFFE’ – FOLETTI
DI MASSA LOMBARDA
( 17 ottobre 1944 )

Il 21 ottobre 2001 Massa Lombarda ha ricordato le vittime della strage compiuta dai fascisti delle “brigate nere” e dai soldati tedeschi alle case Baffè e Foletti.
L’Anpi del Quartiere “Saragozza” ha partecipato alla commemorazione con una numerosa rappresentanza di partigiani e di antifascisti.
All’indomani del nostro viaggio a Massa ho cercato di esprimere le emozioni, i pensieri ed i propositi che hanno animato il nostro gruppo in quella giornata di memoria. Spero di essere riuscito nell’intento e ringrazio chi vorrà suggerire altri spunti di riflessione. E’ stata anche una bella giornata trascorsa insieme in amicizia e serenità ed una esperienza da ripetere in prossime occasioni.
Cordialmente

Giancarlo Grazia