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Albertina Santi Baffè

lunedì 11 febbraio 2002 legge Eros Drusiani

Eros Drusiani, prendendo spunto dal libro "Poesie di Albertina", racconterà la drammatica vicenda di Albertina Baffè, sopravvissuta ad una carneficina dove sono state uccise 23 persone: in pratica tutti i suoi familiari, quelli che lavoravano con loro e anche quelli che, per caso, si trovavano nei pressi della loro casa a Massa Lombarda.

Irma Bandiera e Albertina Baffè: due donne, due storie, due drammatiche testimonianze che ci invitano (il giorno dopo a quello dedicato alla Memoria) a non dimenticare le pagine più tristi, oscure e infami del secolo appena trascorso. Due donne, o forse sarebbe più corretto dire due ragazzine, vittime, seppur in modo diverso, della ferocia nazifascista. Irma è morta, trucidata senza pietà nel fiore degli anni. Albertina, senza più radici, ha vissuto ricordando perché quelli come Irma non c'erano più. 

Poesie:

A mia sorella morta

Tante volte
Arrivavi
All'improvviso:
"Avevo voglia 
Di vedere 
I tuoi bambini"
Oh, se tu potessi mai
Venire
Una volta sola
Una volta sola
Lalla
All'improvviso


Gli anni di mia madre

Mia madre 
È vissuta
Settantotto anni
Ma morì
Che ne aveva
Cinquanta
Il giorno
In cui uccisero
Mio padre
E mia sorella.

La morte nel cortile

C'era il prete
C'era il dottore,
c'erano non so quali autorità
del paese.
I fascisti e i tedeschi
Se n'erano andati.
Dovevo
Riconoscere
I miei morti
Prima della sepoltura.
Erano stesi nel cortile
Della casa bruciata.
Erano tutti nudi
Con la pelle raggrinzita
E annerita
Dal fuoco.
Erano tutti uguali
Senza volto
E senza sesso.
Soltanto mio padre
Era mio padre
Vestito
E quasi intatto
La tempia destra
E il cuore
Colpiti
Dalle pallottole.
Accanto a lui
Un troncone di gamba
Col piede ancora alzato
Un capo di ricci
Ma senza volto
Era mia sorella!


I Nazifascisti

Venivano all'alba
Coi mitra spianati,
bussavano forte agli usci
e urlavano nella loro lingua sinistra.

I marciapiedi e i cortili
Mandavano echi paurosi
Dei loro stivali ferrati
Dei calci dei fucili 
delle mitragliatrici appostate

Nei letti e nei rifugi
Le donne cominciavano a piangere.



Ero sola

Sola in quel silenzio
Di tomba.
La casa bruciata
La stalla crollata
Le mucche 
E le galline sparite
Il mosto gocciolava
Da un carro pieno d'uva.
Il cuore mi batteva
Fino a scoppiare
Non riuscivo a piangere.
Di fianco alla stalla
In un rifugio
Col corredo di tutte le giovani
E della famiglia

Non c'è più nessuno
Tutti morti, tutti sepolti
Sotto le macerie.
Vidi una mano
Sbucare fra le pietre
Cominciai 
A togliere i calcinacci.
Arrivarono i tedeschi
E i fascisti. 
Mi arrestai.



Dibattito:

Una legge di due anni fa stabilisce che il 27 gennaio sia anche in Italia giorno dedicato alla memoria. Il 27 gennaio 1945 furono abbattuti i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Questo giorno vuole che noi ricordiamo. 
Su questo percorso si inserisce la nostra lettura, una lettura di testimonianza, sia di chi è stato martire, annullandosi in essa, sia di chi è sopravvissuto e ha raccontato. Due personaggi femminili sono quelli che incarnano questo duplice aspetto. Irma Bandiera, giovane donna trucidata dai nazifascisti e Albertina Santi Baffè, testimone del massacro della sua famiglia, tristemente sconosciuto ai più. 
Eros Drusiani introduce le poesie di Albertina. E legge. Albertina faceva parte di una delle grandi famiglie contadine che fino al secondo dopoguerra popolavano le nostre campagne. Viveva a Massa Lombarda, ma come Irma Bandiera, fu attiva nel quartiere di via Andrea Costa. Pippo Baffè era un capo della Resistenza, ricercato soprattutto dai Repubblichini, quel giorno non era alloggiato lontano da casa. Bastò una voce, una delazione e fu trovato ed ucciso. Lo stesso giorno, il 17 ottobre 1944 ventitrè persone che abitavano in via Martello furono sterminate: due famiglie, i Baffè e i Foletti, accomunate prima che dalla morte dalle pannocchie sfogliate insieme. Era un giorno normale, di lavoro. Albertina fu risparmiata con il figlio, che allora aveva un anno e mezzo. I nazisti e i repubblichini se ne andarono dopo aver scritto sulle mura della casa “qui abitava una famiglia di partigiani e assassini”, “hier wohnte eine familie…” . 
Le poesie di Albertina sono non solo il lascito di un testimone ma anche letteratura. La commozione è giusta, necessaria, ma ancor più importante è la rabbia di cui ci parla Eros. Bisogna ricordarsi chi ha ucciso, l’orrore ha dei nomi, ha delle responsabilità che non possono essere avvolte nell’oblio del buonismo retorico. Eros ha avuto modo di parlare con il figlio di Albertina. Non era un individuo assetato di vendetta, ma ha parlato del coraggio con cui bisogna ricordare chi e come, perché potrebbe accadere di nuovo. 
Pino Cacucci dice che il male non è finito nel 1945. Nel Sud America la violenza è stata perpetrata nei confronti di chi ha resistito in tutti i regimi dittatoriali, insediatisi col benestare del premio Nobel per la pace Kissinger. C’è un male ineliminabile nell’uomo, una sorta di belva feroce pronta a tornare fuori se non si tiene alta la guardia. 
Nel suo libro ‘Ribelli’, un capitolo è dedicato proprio alla storia di Irma Bandiera. Cacucci si documenta e scrive, ma non da storico. Cerca persone da raccontare. 
Irma Bandiera aveva meno di trent’anni quando fu catturata, una ragazza bella, elegante, una persona benestante che niente avrebbe spinto a sposare la causa se non una scelta forte. Dopo sette giorni di tortura venne finita per strada, vicino a casa, perché continuava a rifiutarsi di parlare. La sua è una storia che non conoscevo. Mille volte sono passata lungo la strada che porta il suo nome. 
Giancarlo Grazia allora aveva sedici anni. E’ stato un partigiano e da allora certo non dimentica; come in tutti i ricordi dei nonni sulla guerra, ogni dettaglio ancora è impresso nella sua memoria: le facce, i nomi, le successioni dei momenti. Ha conosciuto Albertina di persona e ha sentito a lungo parlare di Irma. Da Albertina non seppe mai nulla della strage della sua famiglia, né del fatto che scrivesse poesie. Grazia era sfollato come Irma vicino a Funo. L’antifascismo è sempre stato presente in quei luoghi. Anche lì cominciò la formazione dei primi gruppi armati: tanti giovani, molte donne. Come in ogni esperienza di resistenza, vigevano rigorose norme di clandestinità. Irma faceva la staffetta. Ma se Irma avesse parlato sarebbe stata ricordata lo stesso? Era lecito aspettarsi da lei tanta forza? Gli uomini e le donne che hanno fatto la Resistenza non erano eroi, come sono dipinti da quelle lapidi sbiadite. Erano persone comuni, semplici, prese dai dubbi. Quello che rende loro giustizia non è la retorica da medaglie d’oro. Continuare a far luce su ciò che è stato, questo è importante, non lasciare che quei valori che ci ha consegnato la storia vengano messi in discussione. Ecco cosa intendono dire le parole di Dossetti che ci legge Franco Capizzi. L’oblio e la programmatica falsificazione delle parole sono le condizioni per far ritornare la malattia. Tutto questo si può ripetere in qualsiasi momento. 
Per i bambini cresciuti nel dopoguerra, ci racconta Filloni, la storia che imparavano a scuola si fermava al 1918. Allora si diceva che gli avvenimenti erano troppo recenti. 
Tuttora, dice Paolo Bollini, è difficile insegnare a scuola la Resistenza. La letteratura fa vedere ai ragazzi la storia dal punto di vista di altri ragazzi, come fa Calvino ad esempio. I partigiani erano poco più che bambini. Avevano il bisogno di giustizia che si ha a vent’anni. Quindi accostarsi a questo tipo di narrativa è coinvolgente e determinante nella formazione della coscienza storica e, di riflesso, forse della vita di ciascuno. Probabilmente non saremmo gli stessi se non avessimo incontrato i maestri che abbiamo effettivamente incontrato. Come dimostra la signora Ciampi nella sua esperienza di insegnante elementare, i bambini si sentivano partecipi della vita di Edera di Giovanni e si chiedevano: ‘come si fa a diventare martiri?’ . Verrebbe da rispondere da persone normali, ma contro un certo modo di essere. Costruire significa infatti tracciare delle linee e scegliere quello che non si vuole, questo è anche resistenza, come ci ricorda Andrea Severi. Su questo punto si inserisce una domanda di Marco Guerzoni. Quanto fare o essere resistenza significa essere progressisti? I grandi progetti si attuano dalle piccole cose, riprende Cacucci, si fa e si fece resistenza per un senso di dignità umana. Fu un fenomeno spontaneo, strumentale è stata solo la mistificazione che se ne è fatta. 
“Il senso della nostra battaglia è insieme che politico anche morale ; più ancora profonda la consapevolezza che, al di là dello stesso fascismo, questa muta meschina e urlante rimarrà a lungo nelle case, nelle strade, negli uffici, nei bar, intorno a noi. Quanto occorrerà per liberarla dalla sua miseria? Ma certo, prima di allora, ancora ci soffocherà , forse prevarrà, inserita nella società emersa dalla guerra e dalla Resistenza” (Mario Spinella, Memoria della Resistenza, 1961) 



Articoli: 


L’ECCIDIO ALLE CASE BAFFE’ - FOLETTI     DI MASSA LOMBARDA 


Raccontano che quella mattina sulla campagna era calata la nebbia come sempre accade all’inizio dell’autunno. Ireneo Borghi si era alzato di buon’ora per andare dai Baffè a comprare l’uva per il vino che, nonostante la guerra, non rinunciava a mettere in cantina. Per la stessa ragione Augusto Maregatti aveva inforcato la bicicletta e si era diretto verso la casa dei Baffè. L’uno e l’altro non sapevano che nella zona era in corso un rastrellamento e che non molto lontano c’era stato uno scontro a fuoco con un gruppo di partigiani, uno dei quali era stato colpito a morte. Soprattutto non sapevano che attorno alle case Baffè e Foletti i soldati tedeschi e i repubblichini delle “brigate nere” 
avevano stretto un cerchio di fuoco e di violenza terrificante dentro il quale ambedue sarebbero imprevedibilmente finiti. Maregatti pagò con la vita la casuale presenza in quel luogo. Ireneo Borghi si salvò fortunosamente ma non potè mai più dimenticare quel giorno d’inferno. 

La strage del 17 ottobre 1944 alle case Baffè e Foletti è fra le più sconvolgenti fra le molte avvenute durante la lotta di liberazione. Probabilmente per i tedeschi si trattava di compiere una delle tante azioni di repressione anti-partigiana. Per i fascisti del luogo c’era invece qualcosa di più : c’era il proposito di farla finita una volta per tutte con Giuseppe “Pippo” Baffè, comunista durante il ventennio e ora anche animatore della Resistenza e di “chiudere i conti” anche con sua famiglia che non aveva mai abbassato la testa di fronte alla dittatura mussoliniana Infine, si voleva distruggere quella casa che era sempre stato un covo di sovversivi, luogo d’incontro di antifascisti e di partigiani, quindi un simbolo da abbattere. Si doveva dare un colpo alla Resistenza che in quel momento era particolarmente attiva e incutere terrore fra la popolazione. Una spiata aveva informato che “Pippo” era stato visto da quelle parti. Forse era la volta buona ! 

A rileggere le cronache e le testimonianze di quel giorno sembra che proprio questo fosse il piano 
d’azione che vide nelle prime ore del mattino la casa circondata dai tedeschi e dai fascisti e nelle ore seguenti un succedersi di atti di inaudita crudeltà. C’è un dato che conferma questa volontà distruttiva, questo proposito di vendetta : è il cartello che uno dei fascisti massesi, forse il più fanatico e sanguinario, scrisse in lingua italiana e tedesca e affisse alla casa dei Baffè :” Qui abitava una famiglia di partigiani e di assassini / Hier wohnte eine familie von partisan und verbrecher”. “Abitava”: ora non più! Così l’odio che da tanto tempo covava nell’animo dei fascisti esplose nel modo più bestiale. 

Morire è morire: ma quello che successe quel giorno è cosa che va oltre il segno della morte, qualcosa che è difficile descrivere. Morirono dieci della famiglia Baffè, la casa venne incendiata e distrutta, i corpi seviziati vennero gettati fra le rovine fumanti. Non paghi di tanto sangue fascisti e nazifascisti passarono alla casa accanto, quella dei Foletti, e continuarono nel massacro. Morirono ventitre persone : oltre ai Baffè , i quattro fratelli Foletti e altre nove vittime presenti con loro nelle case come collaboratori agricoli o presi a caso come il povero Augusto Maregatti, compratore di uve per il vino di casa. 

Annunciata Foletti era riuscita a sfuggire al rastrellamento e più tardi, rimasta chiusa in casa, attraverso le persiane socchiuse aveva visto ciò che accadeva sull’aia dei Baffè. Nella testimonianza
resa davanti al Tribunale di Ravenna nel processo del 4 – 5 marzo 1947 contro i fascisti della “brigata nera” di Massa Lombarda, ebbe a ricordare che i componenti della famiglia Baffè più parecchi sfollati erano stati raggruppati di fronte alla casa: presentavano i segni delle botte che avevano subito quando, in precedenza, li avevano portati in paese con un camion. I soldati tedeschi e i briganti neri li insultavano e compivano su di loro ogni sorta di violenza e sevizie. Poi vide che venivano scelti uno alla volta, portati sulla soglia dell’abitazione e fucilati con raffiche di mitra. A dare le indicazioni delle persone da uccidere erano i brigatisti neri. Restò sgomenta quando vide la “Lalla” cadere fra le braccia di suo padre “Pippo”. E vide due ragazzi prelevati dal gruppo e costretti con bastonate a fare degli scavi sotto la porta di casa dove sarebbe stato collocato il tritolo. L’esplosione fece crollare l’edificio in parte sui cadaveri. L’incendio fece il resto. Poi la violenza dei nazifascisti si scatenò sulla sua casa. “Vennero in casa mia, volevano mangiare e chiedevano il vino migliore…. Poi andarono in fondo al podere a prelevare i miei familiari e il garzone. Li portarono nel cortile : volevano che dicessero dov’erano partigiani. Loro non rispondevano, forse non sapevano e se qualcuno sapeva taceva. Erano furenti. Li minacciavano e li colpivano, poi vennero allineati con la schiena contro la porta della stalla… Venne incendiato il fienile sopra di loro e vennero falciati a raffiche di mitra. Spararono tedeschi e fascisti. Morirono anche i due ragazzi che erano stati costretti a scavare le buche per gli esplosivi nella casa dei Baffè. Mio zio, Giuseppe Foletti, di novant’anni era rimasto in casa nascosto: venne trovato e portato fuori. Alla vista del massacro tentò di inveire ma uno di quei delinquenti lo infilò in cima ad un forcale e lo buttò vivo in mezzo alle fiamme dove morì orrendamente”. 


Così andarono le cose quel giorno di ottobre del 1944 alle case Baffè e Foletti. Gli Alleati avevano 
liberato Rimini il 21 settembre e si attendeva una rapida avanzata verso la pianura padana. Ma il fronte si era attestato davanti agli argini del fiume Senio e Massa Lombarda era divenuta zona di retrovia. L’azione partigiana si dispiegò ovunque e la repressione tedesca fu quanto mai violenta. Il 27 novembre a Madonna dell’Albero, vicino a Ravenna i nazisti, dopo uno scontro con i partigiani, fucilarono 56 abitanti del luogo appartenenti a 15 nuclei familiari. L’inverno fu durissimo, sotto tutti i punti di vista : fame, freddo, bombardamenti, rastrellamenti . Soltanto la primavera portò l’alba della liberazione. La guerra partigiana non dette tregua agli invasori ed ai briganti neri. Riscattò l’Italia dalla vergogna fascista e onorò i Martiri della Resistenza.


Per due giorni la nebbia e la pioggia calarono sulle rovine fumanti e su quei corpi martoriati. Toccò ad Albertina – testimone di quel massacro, dal quale si salvò per puro caso – riconoscere i suoi cari. Di quella tragedia Albertina Baffè Santi ci ha consegnato una testimonianza poetica di altissimo valore civile ed umano, oltre che letterario, nella quale il dolore e la sofferenza si accompagnano alla condanna della guerra e contemporaneamente ad un forte messaggio di amore e di speranza nella vita. Un testo (Poesie di Albertina, Ed. Vangelista, 1993) che dovrebbe essere nelle biblioteche di tutte le scuole come strumento didattico per la memoria della Resistenza e la cultura 
della pace.