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Miti greci degli astri - Vernant, Graves, Igino, Omero, Ovidio

Lunedì 25 febbraio 2002 legge Benedetta Nanni 

Cielo Stellato, Perseo, Andromeda, Cassiopea, Pleiadi, Orione, Scorpione, Gemelli, Orsa, Saturno.

(Da Omero, Apollodoro, Ovidio, e da Vernant, Graves, Hart).
“Il mito è bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura; il mito è spiegazione di un rito, di un atto formale che risponde a esigenze della tribù, il mito è struttura delle credenze di un gruppo, di un ethnos… ma, come dice la parola, il mito è soprattutto un racconto…” (R.Graves, I miti greci).
Fra i miti che vanno alla ricerca delle cause dei fenomeni, il catasterismo (la trasformazione in stella) occupa un posto particolare: al termine di vicende spesso dolorose e terribili, la metamorfosi appare quasi sempre come un atto di pietà che la divinità concede a un suo protetto, che non è riuscito a salvaguardare dall’esperienza del dolore: quasi a dire che la bellezza del Cielo stellato è per gli uomini una sorta di risarcimento per un inevitabile male sulla terra.


Programma di letture al planetario (scelte da Benedetta Nanni):

1.La nascita del Cielo Stellato (Ouranos)
Il Cielo Stellato nasce dalla sola Terra (Gaia) e con essa genera le prime stirpi di creature individuate. Nelle mitologie indoeuropee Cielo è maschio e Terra femmina; nella mitologia egiziana Cielo è femmina (Nut) e Terra è maschio (Geb). Ma in entrambi i casi, per garantire la vita, tra cielo e terra si deve creare uno spazio: l’aria.

Letture da Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini


2.Perseo, Andromeda e Cassiopea
Perseo, figlio di Zeus, libera Andromeda; essa è stata offerta dai genitori, Cefeo e Cassiopea, in sacrificio a un mostro marino, per placare l’ira degli dei, offesi da Cassiopea, che si è gloriata della propria bellezza.

Letture da Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini
Graves, I miti greci

3.Pleiadi, Orione e Scorpione
Il bellissimo Orione, di cui è innamorata Aurora, viene ucciso da uno scorpione. In un’altra versione del mito, viene colpito da una freccia di Artemide, indignata con lui per avere attentato alla virtù delle vergini Pleiadi.

Letture da Apollodoro, Biblioteca
Graves, I miti greci

4.Gemelli (Castore e Polluce, i Dioscuri)
Gli inseparabili gemelli, figli di Leda, Castore e Polluce, sono l’uno figlio di Tindaro e l’altro figlio diZeus: pertanto l’uno è mortale, e l’altro immortale. Ottengono da Zeus di poter restare vivi un giorno a testa

Letture da Igino, Astronomia
Omero, Odissea
Graves, I miti greci

5.Orsa (Callisto)
La bella Callisto, amata da Zeus, è trasformata in orsa da Era gelosa, e in costellazione da Zeus

Lettura da Ovidio, Metamorfosi

6.Saturno (Chronos)
Il figlio di Ouranos evira il padre per permettere la vita a lui e ai suoi fratelli, chiusi nelle viscere della terra. Con lui cominciano le generazioni degli dei e degli uomini, e il computo del tempo sulla terra.

Letture da Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini
Graves, I miti greci


Letture:

1.Il Cielo

(J.P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, 1999)

In principio fu Voragine. I Greci la chiamarono Chaos. Che cos’è Voragine? E’ un vuoto, un vuoto oscuro, dove niente può essere distinto. E’ un punto di caduta, di vertigine e di confusione, un precipizio senza fine, senza fondo (…).
Poi apparve la Terra. I Greci la chiamarono Gaia. E’ dal seno stesso di Voragine che nacque la Terra. (…). Alla confusione, all’indistinto carico di tenebre di Caos, Gaia oppone nettezza, compattezza, stabilità. Sulla Terra ogni cosa è ben delineata, visibile, solida. Gaia può essere definita come il suolo su cui dei, uomini e animali camminano con sicurezza. Gaia è il pavimento del mondo. (…)
Come la terra è sorta da Voragine, dalla Terra scaturirà ciò che essa contiene nella sua profondità. Quello che era in lei, mescolato a lei, si trova portato fuori: Terra lo partorisce senza aver bisogno di unirsi a nessuno. (…) La Terra partorisce dapprima un personaggio molto importante, Ouranos, il Cielo, e anche il Cielo stellato. (…)Attraverso la forza interiore che porta in sé, Terra sviluppa quello che già era in lei e che, dal momento in cui lo libera, diventa il suo doppio e il suo contrario. Perché? Perché crea il Cielo stellato uguale a sé, come una replica altrettanto solida, altrettanto stabile e simmetrica. Allora Urano si stende su di lei. Terra e Cielo costituiscono così due piani sovrapposti dell’Universo, un pavimento e una volta, un sotto e un sopra che si coprono a vicenda, completamente. (..)
Ecco dunque Urano, partorito da Gaia e a lei corrispondente in ogni sua parte. Urano è coricato, disteso, e pesa su colei che lo ha generato. Il Cielo ricopre completamente la Terra. Ogni angolo di terra è raddoppiato da un pezzo di cielo che si incolla perfettamente su di lei. A partire dal momento in cui Gaia, divinità potente, terra madre, crea Urano che è il suo corrispondente esatto, (…) ci troviamo in presenza di una coppia di opposti: un maschio e una femmina. (…) Urano non cessa mai di disseminarsi nel seno di Gaia. L’Urano primordiale non conosce altra attività se non quella sessuale. Coprire gaia senza sosta, per quanto è nella sua potenza. La povera Terra si trova incinta di una prole numerosa che non può neppure uscire dal suo grembo, che deve restare là dove Urano l’ha concepita. Visto che Cielo non si alza mai da Terra, non si crea mai uno spazio che permetta ai figli, i Titani, di uscire alla luce e di condurre un’esistenza autonoma. I Titani non possono assumere forma propria, né diventare esseri individuali, perché vengono di continuo ricacciati nel grembo di Gaia, così come ogni cosa, Urano stesso, si trovava ne grembo di Gaia prima di nascere. 
(…)
Non esiste ancora la luce, perché Urano, stendendosi su Gaia, mantiene una notte continua. La Terra dà libero sfogo alla sua collera. Non vuole più tenere in grembo i propri figli che, non potendo uscire, la gonfiano, la comprimono, la soffocano. Allora Gaia si rivolge a loro, in particolare ai Titani dicendo: -Ascoltatemi, vostro padre ci oltraggia, ci sottopone a violenze inaudite, bisogna che tutto questo abbia fine. Dovete ribellarvi al Cielo, vostro padre. – Al suono di queste vibranti parole, i Titani, nel ventre di Gaia, tremano di terrore. Urano, sempre ben piantato sopra la loro madre, grande tanto quanto lei, non appare un avversario facile da vincere. Solo Crono, l’ultimogenito, accetta di aiutare Gaia e di misurarsi così con il proprio padre. 
La Terra concepisce un piano particolarmente astuto: per portare a compimento il suo progetto fabbrica al proprio interno un piccolo attrezzo, un falcetto, che foggia in bianco metallo, in acciaio. Quindi lo mette in mano al giovane Crono che sta in agguato nel ventre di Gaia, proprio là dove Urano si unisce a lei. L’ultimogenito tende un’imboscata al padre. Non appena Urano si sfoga in Gaia, Crono gli afferra con la sinistra i genitali, li tiene ben stretti e con il falcetto impugnato nella desta li taglia in un colpo solo. (…) Nell’istante in cui viene castrato, Urano lancia con forza un grido di dolore e, allontanandosi da Gaia, si ferma per non muoversi più, in alto, lassù sopra il mondo. Così, visto che Urano ha uguale estensione di Gaia, non esiste un solo pezzo di terra dal quale, una volta alzati gli occhi, non si veda un angolo equivalente di cielo. 

2.Perseo, Pegaso, Andromeda, Cassiopea

Acrisio, re di Argo, ha solo una figlia, di nome Danae. Quando consulta l’oracolo per sapere se avrà un figlio maschio, l’oracolo risponde solo che il figlio di sua figlia lo ucciderà. Allora Acrisio rinchiude Danae in una torre, per impedire la nascita del bambino fatale. Ma Zeus vede Danae, che è splendida, e se ne innamora: per congiungersi a lei si trasforma in pioggia d’oro. Il bimbo che nasce da Danae fecondata dalla pioggia d’oro si chiama Perseo. Acrisio, per non contaminarsi uccidendo direttamente figlia e nipote, li abbandona in un baule di legno alla deriva su un fiume. L’arca viene raccolta da un pastore, Ditti, fratello del re di Serifo, Polidette. Ditti accoglie e protegge Danae, di cui si è innamorato, e cresce con affetto Perseo, finché Polidette non vede Danae, se ne innamora a sua volta e la vuole obbligare a sposarlo. Ma Perseo, ormai cresciuto, può ora vigilare sulla madre. Polidette finge allora di voler sposare Ippodamia, figlia di Pelope, signore dell’Elide, e chiede ai giovani nobili del suo regno un dono. Perseo, felice che Polidette abbia desistito dall’intento di sposare Danae, promette di donare quello che il re chiederà “anche la testa della Gorgone”. Polidette approfitta della sbruffonata di Perseo, e lo obbliga a portargli effettivamente la testa del mostro. Le Gorgoni sono tre sorelle, di cui solo una, Medusa, è mortale. Il loro volto è mostruoso, il loro capo è irto di serpi velenose, hanno lunghe zanne da cinghiale, la lingua cacciata fuori, hanno enormi ali d’oro che permettono loro di volare come uccelli, hanno mani di bronzo: chiunque la guardi, si trasforma in pietra per il terrore. Ma Perseo è figlio di Zeus: ha pertanto validi aiuti nell’impresa: Atena e Hermes. Atena gli consegna uno scudo lucentissimo, affinché possa guardare Medusa riflessa, per ucciderla senza essere pietrificato. Hermes gli consegna un taglientissimo falcetto, con cui decapitare il mostro. Le Ninfe Stigie gli consegnano poi un paio di calzari alati, un sacco dove infilare la testa mozzata di Medusa e l’elmo di Ade, che rende invisibili. Così equipaggiato, Perseo riesce a trovare e a decapitare Medusa, che dormiva tra le sorelle, senza guardarla in faccia: Dal cadavere balza fuori Pegaso, il cavallo alato;che Poseidone aveva generato in Medusa, e che fugge sull’Elicona, il monte delle Muse, dove, con un colpo del suo zoccolo lunato, farà sgorgare la sacra fonte Ippocrene. Dopo aver messo rapidamente il capo mozzato nel sacco, Perseo fugge volando senza essere raggiunto dalle Gorgoni superstiti, perché protetto dal casco che rende invisibili.

(R. Graves, I Miti greci, 1955)

Mentre Perseo superava a nord la costa della Filistia, vide una donna ignuda incatenata a uno scoglio presso il mare e subito se ne innamorò. Costei era Andromeda, figlia di Cefeo, l’etiope re di Joppa, e di Cassiopea. Cassiopea si era un giorno vantata dicendo che la sua bellezza e la bellezza di sua figlia superavano quella delle nereidi, e le Nereidi si lagnarono di quell’insulto invocando l’aiuto del loro protettore Poseidone. Poseidone scatenò contro la Filistia la furia delle acque e di un mostro marino; e quando Cefeo consultò l’oracolo di Ammone, gli fu risposto che l’unica speranza stava nel sacrificare Andromeda al mostro I sudditi furono perciò costretti a incatenarla a una roccia, perché il mostro la divorasse. 
Mentre si avvicinava in volo ad Andromeda, Perseo vide Cefeo e Cassiopea che lo seguivano ansiosi con lo sguardo dalla spiaggia, e scese accanto a loro per chiedere in gran fretta consiglio. Perseo ottenne dal re la promessa che, se fosse riuscito a salvare Andromeda, l’avrebbe potuta aver con sé in Grecia come moglie. Poi Perseo, preso di nuovo il volo, decapitò il mostro che si era lasciato trarre in inganno dall’ombra di Perseo sulla onde. Il giovane aveva estratto la testa della Gorgone dalla sacca per servirsene semmai il mostro avesse alzato lo sguardo, e la depose ora capovolta su un letto di alghe (che subito si trasformarono in coralli) mentre si ripuliva le mani; poi innalzò tre altari e sacrificò un vitello, una vacca e un toro a Ermete, ad Atena e a Zeus.
Cefeo e Cassiopea, seppure a malincuore, lo accolsero come genero e, per insistenza di Andromeda, ebbero subito luogo le nozze. Ma la festa fu interrotta bruscamente perché Agenore fece irruzione nella sala alla testa di un gruppo di armati, reclamando Andromeda come sua sposa. Egli era stato convocato, senza dubbio, da Cassiopea, che si riteneva sciolta dalla promessa fatta a Perseo in un momento di necessità e considerava Agenore il legittimo pretendente di Andromeda. “Perseo deve morire”, gridò infatti Cassiopea. 
Nella battaglia che seguì Perseo abbattè molti dei suoi avversari, ma fu costretto a strappare la testa della Gorgone dal cespuglio di corallo e a tramutare in pietre duecento guerrieri che erano rimasti in vita. 
Poseidone pose tra le stelle le immagini di Cefeo e Cassiopea, ma quest’ultima, in punizione del suo tradimento, è legata a una cesta della spesa che, in certe stagioni dell’anno, si capovolge, mettendo Cassiopea in posizione ridicola. Atena inseguito immortalò Andromeda in una costellazione più illustre, poiché essa aveva insistito nel voler sposare Perseo nonostante l’opposizione dei suoi genitori.

(J.P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, 1999)

Perseo conduce quindi Andromeda con sé. Riprende la sua bisaccia ben chiusa e giunge a Serifo dove lo aspetta la madre. Anche Ditti lo attende. Entrambi si sono dovuti rifugiare in un santuario per sfuggire alla persecuzione di Polidette. Allora Perseo decide di vendicarsi del malvagio re. Gli fa sapere di essere ritornato e di avere con sé il regalo promesso; glielo consegnerà durante uno sfarzoso banchetto. Tutti i giovani, tutti gli uomini di Serifo sono riuniti nel salone. Stanno bevendo, mangiando, è festa grande. Perseo arriva. Apre la porta, viene salutato, entra, Polidette si chiede cosa stia per succedere.
Mentre tutti i convitati sono seduti o distesi, Perseo resta in piedi. Prende dalla sua bisaccia la testa di medusa, la brandisce, la tira fuori, la brandisce tenendola lontana dal corpo con il braccio ben teso, voltando il proprio sguardo dalla parte opposta, in direzione della porta. Tutti i partecipanti al banchetto rimangono pietrificati…(…)
Resta il nonno Acrisio. Perseo sa che Acrisio ha agito verso di lui così perché pensava che suo nipote lo avrebbe ucciso. Nasce in lui l’idea di un possibile accordo con il nonno. Così parte insieme con Andromeda, Danae e Ditti verso Argo, dove Acrisio, avvertito che il piccolo Perseo è diventato grande, che ha compiuto grandi imprese e che sta dirigendosi verso Argo, si dirige in una città vicina dove si svolgono dei giochi.
Quando Perseo arriva ad Argo, gli viene annunciato che Acrisio è andato altrove per partecipare a dei giochi. In particolare, c’è una gara di lancio del disco. Il giovane Perseo, essendo un ragazzo di bell’aspetto, ben piantato, nel fiore dell’età, viene invitato a partecipare. Perseo afferra il suo disco e lo lancia. Per caso questo disco cade sul piede di Acrisio, provocando una ferita mortale. Il re muore, Perseo esita a salire sul trono di Argo che gli spetta di diritto. Non gli sembra molto indicato succedere al re di cui ha provocato la morte. Trova una specie di riconciliazione familiare attraverso uno scambio: Poiché il fratello del re defunto, Preto, regna su Tirinto, gli propone di salire sul trono a Argo. Lui, Perseo, Prende il suo posto a Tirinto.
Prima però restituisce gli strumenti della sua vittoria su Medusa a coloro che glieli avevano affidato. A Hermes restituisce la harpe e insieme i sandali alati, la bisaccia e l’elmo di Ade; perché facciano ritorno, al di là del mondo umano, nelle mani delle loro legittime detentrici, le Ninfe. Quanto alla testa mozzata del mostro, la offre in dono ad Atena, che ne fa il pezzo forte del suo equipaggiamento guerriero.
Tornato semplice mortale, l’eroe, la cui impresa coraggiosa aveva reso così a lungo un “signore della morte”, una volta giunto il suo giorno, lascerà la vita come uno qualunque. Ma Zeus, per onorare il giovane che osò affrontare la Gorgone dallo sguardo che pietrifica, trasporta Perseo in cielo, dove lo fissa nella costellazione che porta il suo nome e che, sulla scura volta notturna, disegna la sua immagine con punti luminosi visibili da ogni luogo, per sempre. 


3.Pleiadi, Orione, Scorpione

(Apollodoro, Biblioteca)

Dicono che Orione fosse nato dalla terra e avesse un corpo smisurato, mentre secondo altri era figlio di Poseidone e di Euriale. Poseidone gli aveva donato la capacità di camminare sopra il mare. Egli sposò dapprima Side, che Era sprofondò nell’Ade perché aveva osato rivaleggiare con la sua bellezza. Allora Orione, giunto a Chio, chiese la mano di Merope, figlia di Enopione. Enopione lo fece ubriacare e lo accecò nel sonno gettandolo poi sulla riva del mare. Ma egli penetrò nell’officina di Efesto e, rapito un bambino, se lo pose sulle spalle e si fece da lui condurre nella direzione dell’Aurora.

(R. Graves, I Miti greci, 1955)
Eos (aurora) si innamorò di lui e il fratello di Eos, Elio (sole), gli restituì la vista. Dopo aver visitato Delo in compagnia di Eos, Orione ritornò a Chio per vendicarsi di Enopione, ma non riuscì a trovarlo nell’isola. Mentre lo cercava, si imbattè in Artemide, che nutriva come lui una grande passione per la caccia. La dea lo indusse a rinunciare ai suoi propositi di vendetta e a recarsi a cacciare in sua compagnia. Ora, Apollo sapeva che Orione non aveva rifiutato di giacersi con Eos nell’isola sacra di Delo e che inoltre si vantava di voler liberare tutta la terra dalle belve e dai mostri. Poiché temeva che sua sorella Artemide cedesse come Eos al fascino del bel cacciatore, Apollo si recò dalla Madre Terra e, riferendole in modo equivoco le vanterie di Orione, la indusse a scatenare contro di lui la furia di un velenosissimo scorpione. Orione si difese dapprima con le frecce, poi con la spada, ma, resosi conto che lo scorpione era invulnerabile, si tuffò in mare e nuotò verso Delo dove sperava che Eos lo avrebbe protetto. Apollo allora disse ad Artemide: “Vedi quell’oggetto nero che galleggia sul mare vicino ad Ortigia? E’ la testa di un malvagio chiamato Candaone, che ha poc’anzi sedotto Opide, una delle tue sacerdotesse iperboree. Ti sfido a trafiggerlo con una freccia!” Ora, Candaone era il soprannome beota di Orione, ma Artemide non lo sapeva. Prese accuratamente la mira, scoccò la freccia e , quando raggiunse a nuoto la sua vittima, si accorse di aver trafitto il capo di Orione. Artemide pose tra le stelle l’immagine di Orione, eternamente inseguito dallo scorpione; la sua ombra è già scesa nei Campi degli Asfodeli.
Altri dicono tuttavia che Orione morì per il morso dello scorpione e che Artemide era irritata con lui perché egli aveva inseguito le sue vergini compagne, le Pleiadi, figlie di Atlante e Pleiona: Alcione, Merope, Celeno, Elettra, Sterope, Taigeta, Maia. Esse fuggirono attraverso i campi della Beozia finchè gli dei, mutatele in colombe, ne immortalarono le immagini tra le stelle. Ma questa versione è errata, perché le pleiadi non erano vergini: tre di loro si giacquero con Zeus, due con Poseidone, una con Ares, e la settima sposò Sisifo di Corinto, e non fu inclusa nella costellazione delle sue sorelle perché Sisifo era un mortale. 


4.Gemelli

(Igino, Astronomia)
Moltissimi astrologi dicono che i Gemelli sono Castore e Polluce; dimostrano che costoro furono i più affezionati di tutti i fratelli, sia perché non litigarono mai per la divisione del potere, sia perché non fecero mai nulla senza una decisione presa in comune. Si ritiene che, in cambio di queste loro virtù, Giove li abbia costituiti in questa notissima costellazione. Con lo stesso criterio, anche Nettuno li premiò: infatti donò loro i cavalli che utilizzano, e diede il potere di essere di salvezza per i naufraghi. (…) Omero racconta che Polluce concesse al fratello metà della sua vita, e così ciascuno di loro brilla a giorni alterni 

(Omero, Odissea, XI, 300-304)
E Leda vidi, la sposa di Tindaro,
che a Tindaro diede due figli dall’animo saldo,
Castore domatore di cavalli e Polluce pugno forte;
l’uno e l’altro vivi nasconde la terra generatrice.
Essi, anche sotto terra, onorati da Zeus, 
a vicenda vivono un giorno per uno, a vicenda
muoiono; e onore uguale ai numi hanno in sorte.

(Apollodoro, Biblioteca)
Zeus assunse la forma di un cigno e si unì a Leda; anche Tindaro visitò la moglie la medesima notte: ed ella da Zeus generò Polluce e Elena, da Tindaro Castore e Clitennestra. 

(R. Graves, I Miti greci, 1955)
Castore e Polluce erano comunemente noti come i Dioscuri. Essi, che partecipavano insieme ad ogni impresa, senza mai separarsi, divennero l’orgoglio di Sparta. Castore era famoso come guerriero e domatore di cavalli; Polluce come il miglior pugile dei suoi tempi; ambedue vinsero premi ai giochi Olimpici. 
(Avevano due cugini, anche loro gemelli, Ida e Linceo) non meno devoti l’uno all’altro. (Con essi nacque da subito un’aspra rivalità. Un giorno, durante una razzia di bestiame, sorse tra i giovani una contesa che portò alla morte Ida, Linceo e Castore) 
Dopo aver innalzato un trofeo presso la pista di Sparta per celebrare la sua vittoria su Linceo, Polluce pregò Zeus con queste parole: “Padre, non permettere che io sopravviva a mio fratello”. Tuttavia, poiché era destino che uno solo dei figli di Leda morisse, e poiché Tindaro, padre di Castore, era mortale, Polluce, come figlio di Zeus, ascese al cielo. Egli rifiutò l’immortalità a meno che Castore non potesse condividerla e Zeus concesse che trascorressero a turno un giorno nel cielo e un giorno sotto terra. E come ricompensa per il loro amore fraterno, ne pose l’immagine tra le stelle come costellazione dei Gemelli.

5.Callisto e Arcade (Orsa e Arturo)

(Ovidio, Metamorfosi, II, 409-531)
Mentre Zeus va e viene di continuo (dall’Arcadia), si arresta colpito da una fanciulla di Nonacri e la passione appena concepita si infiamma dentro le sue ossa. Occupazione di costei non era ammorbidire la lana cardandola, né acconciare in vario modo la capigliatura: era battagliera seguace di Artemide: nessuna più cara alla dea; ma nessun prestigio dura a lungo.
Alto il sole era giunto oltre il suo mezzo cammino, quando essa entra in un bosco. Quivi depone da una spalla la faretra, posa l’arco afflosciato, si pone a giacere sul terreno intessuto d’erbe e al capo reclinato pone come guanciale la faretra dipinta. Quando Giove la vede spossata e libera da chi la vegliasse, dice: “Certamente la mia consorte ignorerà questo inganno: oppure, se lo saprà, esso vale, vale molto di più del suo furore!” Tosto assume l’aspetto e il portamento di Diana, e dice: “O fanciulla, che fai parte del mio seguito, su quali gioghi montani hai cacciato?” La vergine si leva a sedere sul prato e dice. “Ti saluto, divina, che a mio giudizio sei superiore a Giove, e m’oda pure egli stesso”. Sorride Giove nell’udirla, gioisce d’essere anteposto a sé medesimo, e la bacia sulla bocca, non però con sufficiente cautela, né come si addice a una vergine. E mentre Callisto si accinge a raccontare in quale foresta abbia cacciato, Giove glielo impedisce con l’amplesso, e col violarla si rivela. Essa certamente, per quanto può una femmina, e se tu Giunone, figlia di Saturno, l’avessi vista saresti più mite, essa certamente si ribella, si difende; ma non dico una fanciulla, ma quale fra i numi avrebbe potuto vincere Giove? Vincitore Giove ascende verso l’etere, mentre costei odia quel recesso, quel complice bosco, da cui fugge quasi dimentica di raccogliere la faretra coi dardi e l’arco appeso a un ramo.
Corteggiata frattanto dal suo coro, Diana incedeva trionfante per la strage di animali selvatici: la vede, la riconosce, la chiama; ed essa, al suo nome, fugge e dapprima teme che in lei si nasconda Giove. Ma quando vede che insieme avanzano le ninfe, sente che i sospetti sono vani e si aggiunge alla frotta delle compagne. Ahimé, quanto è arduo non rivelare una colpa con l’espressione del viso! A stento essa leva da terra lo sguardo; non si pone al fianco della dea, com’era solita per l’innanzi; non sta alla testa dell’intera schiera; ma tace, e col rossore dà indizio della castità violata. 
Col nono mese saliva in cielo la bicorne Luna, quando la dea, stanca per la caccia sotto i caldi raggi del fratello, entrò in una frescura ombrosa, da cui scaturendo scendeva con mormorio un ruscello. Essa lodò quel posto, e lodò anche la corrente, quando la sfiorò col piede, e disse: “Ogni sguardo indiscreto è lontano: cospargiamo i nostri corpi nudi di limpidi effluvii, compagne!” Callisto avvampò: le altre lasciarono cadere i veli, lei sola cerca pretesti, ma, mentre esita, la veste le viene strappata, e il suo corpo nudo mette in luce la colpa. Lei, smarrita, si affannava a nascondere il ventre con le mani. “Va’ lontano da qui!”, le disse Diana “non contaminare le acque sacre!” e le impose di staccarsi dal suo seguito.
Da tempo era al corrente del fatto la moglie del grande Giove, ma aveva differito la vendetta a un momento opportuno. Ora non c’era più motivo di indugio: il piccolo Arcade era nato alla rivale. Allora disse a Callisto: “Adultera, pure questo mancava, di essere feconda, di diventare offesa palese col tuo parto, di essere incontestabile disonore a Giove che a me appartiene. Non ne andrai impunita: ti annienterò quell’aspetto di cui vai superba e per cui, intrusa, sei piaciuta al mio sposo”. Disse così; poi la affrontò, la afferrò per i capelli, e la abbattè in terra. Callisto tendeva supplice le braccia: ma le braccia presero a coprirsi di irti peli neri; le mani a curvarsi e a mutarsi in prensili artigli, a prendere funzione di piedi; il volto, un tempo ammirato da Giove, a farsi deforme per enormi fauci, dalla rauca gola esce un verso rabbioso, minaccioso, carico di spavento. Le rimase tuttavia l’anima di un tempo anche quando si mutò in orsa: col gemere continuo attesta il proprio strazio, alza al cielo e alle stelle quelle che sembran mani e, pur non potendo dirlo, esprime l’ingratitudine di Giove. Quante volte, attraverso dirupi, fu spinta dal latrare dei cani e, pur cacciatrice, fuggì sgomenta per l’incubo dei cacciatori! Spesso, dimentica della sua esistenza nuova, si nascose all’arrivo delle bestie feroci. 
Ed ecco, al compiersi del quindicesimo anno dalla nascita, apparire Arcade, ignaro della madre. Mentre insegue le fiere, mentre sceglie opportuni appostamenti, mentre stende le reti, si imbatte nella madre: essa si ferma alla vista di Arcade, come chi è sul punto di riconoscere. Ma egli si dà alla fuga: all’oscuro di tutto, si impaurisce di fronte a lei che gli tiene rivolto immobile lo sguardo. E al desiderio di lei di avvicinarsi, egli sta per trafiggerle il petto con una freccia mortale. Ne svia il colpo Giove, e sottrae entrambi insieme allo scempio. Con un turbine di vento entrambi li trascina nello spazio, li colloca nel cielo e li muta in costellazioni contigue. 
Arse di furore Giunone, dopo che vide la rivale fulgere fra le stelle, e si calò dentro il mare, presso la veneranda Teti e il vecchio Oceano (…ai quali disse): “Voi vedrete, nel punto più alto, quali mie ferite, stelle da poco assunte là dove l’ultima zona, la più breve, circonda l’estremità dell’asse celeste. Io non tollerai che essa avesse figura umana, ed essa fu trasformata in dea! (…) allora io vi chiedo: tenete lontane dalle onde azzurre le sette stelle dell’Orsa, ripudiate costellazioni accolte in cielo in ricompensa di uno stupro: quella concubina non si bagni nelle pure acque del mare…”
Gli dei marini acconsentirono.




ethnos… ma, come dice la parola, il mito è soprattutto un racconto…” (R.Graves, I miti greci).
Fra i miti che vanno alla ricerca delle cause dei fenomeni, il catasterismo (la trasformazione in stella) occupa un posto particolare: al termine di vicende spesso dolorose e terribili, la metamorfosi appare quasi sempre come un atto di pietà che la divinità concede a un suo protetto, che non è riuscito a salvaguardare dall’esperienza del dolore: quasi a dire che la bellezza del Cielo stellato è per gli uomini una sorta di risarcimento per un inevitabile male sulla terra.