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Cosmicomiche, Il cielo infinito - Calvino, Amendola

Lunedì 11 marzo 2002 legge Flavio Fusi Pecci
Quale sia stata l'origine e l'evoluzione dell'universo e quale sarà la sua fine è da sempre oggetto di studio, curiosità, fantasie, sogni, a volte sgomento.

Non solo non si sa lo scopo della sua esistenza, ma tuttora non se ne conoscono i confini (se ne ha), né la struttura a grande scala, né le più dettagliate articolazioni in galassie, stelle, buchi neri, pianeti, gas e particelle.
Eppure in questi ultimi anni, quasi con una nuova rivoluzione copernicana della scienza, si è toccato con mano come l'infinitamente grande converga con l'inifinitamente piccolo in un grandioso quadro interpretativo che può portarci a sperare di capire, almeno a grandi linee, la storia del nostro universo conosciuto.
E' per tanti aspetti folgorante vedere come concetti e pensieri apparentemente tanto distanti ed astrusi possano essere tradotti, perfino nella loro essenza scientifica, in una fantastica raccolta di racconti come le Cosmicomiche di Italo Calvino. Tutti avvincenti e penetranti.
Ne leggeremo uno: Tutto in un punto. Che, oltre a fare esplodere in noi ed insieme a noi l'idea del Big Bang e della sua evoluzione, ci regala un flash sorprendente (visto il contesto) ed incisivo sulla immigrazione e sulla nostra meschinità, mentre tutto, anche il pensiero, si espande...



Calvino. Tutto in un punto

Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità d'allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell'universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio.

Si capisce che si stava tutti lì, - fece il vecchio Qfwfq, - e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?
Ho detto "pigiati come acciughe" tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c'era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d'ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l'aspetto del carattere, perché quando non c'è spazio, aver sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd– è la cosa più seccante.
Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall'altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera.
Ognuno finiva per aver rapporti solo con un ristretto numero di conoscenti. Quelli che ricordo io sono soprattutto la signora Ph(i)Nko, il suo amico De XuaeauX, una famiglia di immigrati, certi Z'zu, e il signor – che ho già nominato. C'era anche una donna delle pulizie – "addetta alla manutenzione", veniva chiamata -, una sola per tutto l'universo, dato l'ambiente così piccolo. A dire il vero, non aveva niente da fare tutto il giorno, nemmeno spolverare – dentro un punto non può entrarci neanche un granello di polvere -, e si sfogava in continui pettegolezzi e piagnistei.
Già con questi che vi ho detto si sarebbe stati in soprannumero; aggiungi poi la roba che dovevamo tenere lì ammucchiata: tutto il materiale che sarebbe poi servito a formare l'universo, smontato e concentrato in maniera che non riuscivi a riconoscere quel che in seguito sarebbe andato a far parte dell'astronomia (come la nebulosa d'Andromeda) da quel che era destinato alla geografia (per esempio i Vosgi) o alla chimica (come certi isotopi del berillio). In più si urtava sempre nelle masserizie della famiglia Z'zu, brande, materassi, ceste; questi Z'zu, se non si stava attenti, con la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria.
Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z'zu, a cominciare da quella definizione di "immigrati", basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, loro fossero venuti dopo. Che questo fosse un pregiudizio senza fondamento, mi par chiaro, dato che non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare, ma c'era chi sosteneva che il concetto di "immigrato" poteva esser inteso allo stato puro, cioè indipendentemente dallo spazio e dal tempo.
Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa dell'ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi, badate: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi s'incontrano – alla fermata d'un autobus, in un cinema, in un congresso internazionale di dentisti -, e si mettono a ricordare di allora. Ci salutiamo – alle volte è qualcuno che riconosce me, alle volte sono io a riconoscere qualcuno -, e subito prendiamo a domandarci dell'uno e dell'altro (anche se ognuno ricorda solo qualcuno di quelli ricordati dagli altri), e così si riattacca con le beghe di un tempo, le malignità, le denigrazioni. Finché non si nomina la signora Ph(i)Nko - tutti i discorsi vanno a finir sempre lì -, e allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nko, la sola che nessuno di noi ha dimenticato e che tutti rimpiangiamo. Dove è finita? Da tempo ho smesso di cercarla: la signora Ph(i)Nko, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un altro.
Sia ben chiaro, a me la teoria che l'universo, dopo aver raggiunto un estremo di rarefazione, tornerà a condensarsi, e che quindi ci toccherà di ritrovarci in quel punto per poi ricominciare, non mi ha mai persuaso. Eppure tanti di noi non fan conto che su quello, continuano a far progetti per quando si sarà di nuovo tutti lì. Il mese scorso, entro al caffè qui all'angolo e chi vedo? Il signor Pbert Pberd. – Che fa di bello? Come mai da queste parti? – Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. E' rimasto tal quale, col suo dente d'argento, e le bretelle a fiori. – Quando si tornerà là, - mi dice, sottovoce, - la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa gente rimanga fuori… Ci siamo capiti: quegli Z'zu…
Avrei voluto rispondergli che questo discorso l'ho sentito già fare a più d'uno di noi, che aggiungeva: "ci siamo capiti… il signor Pbert Pberd …"
Per non lasciarmi portare su questa china, m'affrettai a dire: - E la signora Ph(i)Nko, crede che la ritroveremo?
- Ah, sì… Lei sì… - fece lui, imporporandosi.
Per tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci ancora insieme alla signora Ph(i)Nko. (E' così anche per me che non ci credo). E in quel caffè, come succede sempre, ci mettemmo a rievocare lei, commossi, e anche l'antipatia del signor – sbiadiva, davanti a quel ricordo.
Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie fra noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto col suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c'è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta di andare, ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. Fosse stata un'altra persona, chissà quante cose le si sarebbero dette dietro. La donna delle pulizie era sempre lei a dare la stura alle maldicenze, e gli altri non si facevano pregare a imitarla. Degli Z'zu, tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figlie fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca insinuazione. Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei, e quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l'impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più?
E tutto questo, così come era vero per me, valeva pure per ciascuno degli altri. E per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente.
Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: - Ragazzi, avessi un po' di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d'olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l'acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e, nello stesso tempo del pensarlo, questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: - …le tagliatelle, ve', ragazzi! – il punto che conteneva lei e noi tutti s'espandeva in una raggiera di distanze d'anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell'universo (il signor – fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d'energia luce calore, lei signora Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace d'uno slancio generoso, il primo, "Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!", un vero slancio d'amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione universale, e all'universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla. (Calvino I., Le Cosmicomiche, Torino, Einaudi 1980, pp. 55 – 60, I ed. 1965)


Amendola. Il cielo infinito

In natura esistono due forme di semplicità: quella dell’infinitamente grande, e quella dell’infinitamente piccolo. 
L’infinitamente grande è semplice perché ci è consentito di trascurare i dettagli. Nella descrizione del cosmo possiamo dimenticare stelle e pianeti, e considerare masse ed energie come se fossero uniformemente distribuite, proprio come nella rappresentazione della Terra su un mappamondo trascuriamo montagne e vallate. 
All’altro estremo dello spettro, l’infinitamente piccolo è semplice perché i dettagli sono assenti. Le particelle elementari costituiscono l’ultima realtà prima del vuoto assoluto. I quark, gli elettroni, i neutrini sono particelle puntiformi dotate di semplici proprietà come massa e carica. Non hanno un dentro. Non hanno componenti interne, non hanno motori o ruote dentate.
Forse per queste ragioni la fisica delle particelle e la fisica dell’universo – la cosmologia – sono tra le branche più sviluppate della scienza moderna. E’ alla scale intermedie, quelle delle cellule, del cervello, della biosfera e dell’atmosfera, che le cose si complicano. Sono sistemi troppo grandi per essere elementari, e troppo piccoli per trascurare i dettagli. Pochi gradi in più nell’acqua del Pacifico meridionale significano siccità in Indonesia e tempeste nel Mediterraneo. I dettagli dell’ecosistema muovono le montagne.
Questo libro esplora l’inifinitamente grande. La sua semplicità, abbiamo scoperto dopo secoli di indagine, permette di avvicinarci alla sua comprensione. Ma ecco il paradosso della cosmologia moderna: siamo ad un passo dalla comprensione ultima del nostro universo, eppure sentiamo che la rivoluzione potrebbe essere dietro l’angolo. Per la prima volta nella storia dell’umanità disponiamo di risposte ragionevoli e in discreto accordo con le osservazioni a tutte le grandi ed antiche domande sull’origine, l’evoluzione, il destino dell’universo. L’età del cosmo, la distribuzione delle galassie, i loro processi evolutivi, le deboli tracce delle ere passate, sono frammenti di conoscenza che sembrano magicamente disporsi in un grande quadro, il modello standard cosmologico, che ci narra lo svolgersi di un fenomeno durato, finora, almeno dieci miliardi di anni, esteso per altrettanti anni-luce e popolato da almeno altrettante galassie. Dopo secoli di studio e di drammatiche svolte, dopo che gli orizzonti dell’astronomia sono arretrati dai pianeti alle stelle, dalle stelle alle galassie, dalle galassie alla radiazione cosmica del “big bang”, siamo giunti ad un passo dall’ultimo orizzonte. Eppure, le teorie del cosmo sono ancora incomplete, alcune predizioni cruciali non sono state ancora verificate e molte osservazioni appaiono divergere su punti importanti. Siamo al bivio tra comprensione e rivoluzione, ed è difficile dire quale delle due prospettive sia più emozionante. (Amendola L., Il cielo infinito, Sperling & Kupfer 2000)




Dibattito:

Flavio Fusi Pecci è uno scienziato, un astronomo, ma anche un abile divulgatore. Le regole della “bottega dell’elefante” ieri sera sono state piacevolmente violate. In primo luogo ci deve essere il testo con le sue parole, non esistono gerarchie. Ognuno è esperto nella misura in cui legge. Fusi Pecci ci ha fatto una conferenza, forse perché tale era l’esigenza della materia, parlandoci di astronomia. 
Il testo chiedeva di non essere interrotto, se non altro perché era di un grande maestro. 
Perché ha scelto una pagina delle cosmicomiche di Italo Calvino? Italo Calvino riesce a dare in un testo di narrativa informazioni di carattere scientifico precise, mescolando in maniera sapiente la sua visione del mondo con la sua visione dell’uomo. Forse anche in questo libro vi è quell’idea di esattezza di cui parla nelle lezioni americane. La terza delle sei proposte per il nuovo millennio –Le lezioni americane- prende le mosse dalla precisione degli antichi nell’osservare i fenomeni celesti. Probabilmente non è un caso. 
Le piccole invidie, la meschinità prettamente umana, l’attrazione amorosa, la perenne tentazione del pettegolezzo, tutte quelle ristrettezze mentali che sono costitutive dell’uomo si vanno a condensare in un punto, privo di spazio e di tempo. In esso non c’è spazio, ma c’è posto per l’esclusione, la diffidenza per l’altro. Mentre a un esame attento della natura, in qualunque sua parte, si osserva che è proprio la differenza a dare ricchezza e in senso lato bellezza.
Tornando al tema della serata in cui il testo è apparso solo sporadicamente, Fusi Pecci ci avverte che ci sono alcune considerazioni che dobbiamo preliminarmente fare circa i nostri pregiudizi e le nostre credenze. 
Normalmente guardiamo le stelle con l’illusione di guardarle su uno schermo, come se fossero proiettate su di esso. Ci dimentichiamo di quello che abbiamo imparato a scuola sui manuali. Le stelle sono situate a distanze enormemente diverse, occorre distinguere tra una distanza reale e un’apparente. Inoltre la luce che noi guardiamo ha impiegato milioni di anni ad arrivare fino al nostro misero pianeta. E’ possibile che quello che appare ai nostri occhi abbia già avuto un suo ciclo evolutivo e che sia morto. Il cielo in un certo senso è già storia. Osservarlo significa andare indietro nel tempo. 
Una volta si pensava che l’universo si fosse espanso a partire da un punto che doveva costituire il suo centro, in linea con una tradizione che prima lo aveva identificato con la terra, poi con il sole, successivamente con la galassia. Ebbene il centro dell’universo non esiste più. L’espansione è avvenuta a partire da una rete di punti. I modelli della teoria dell’espansione sono tre: quello dell’espansione continua, quello dell’espansione cui segue una contrazione altrettanto potente, infine quello dell’equilibrio tra espansione e contrazione. 
Originariamente vi era una mescolanza di elementi, il brodo primordiale. Da pochi anni lo studio degli elementi è congiunto allo studio dell’astronomia, secondo un’importante svolta di carattere metodologico. Si cerca di proporre un modello per particelle come i neutrini -prodotto di reazione nucleare- che riesca ad essere di valore euristico per intere galassie. In questo modo l’infinitamente grande si coniuga con l’infinitamente piccolo. E’ infatti da microscopiche fluttuazioni della materia che possono innescarsi meccanismi di portata enorme e, soprattutto, irreversibili -basti pensare alla reazione nucleare… 
Un giovane si chiede se è vero che l’espansione è in accelerazione, l’universo come un treno che abbia perso il controllo. Fusi Pecci dice che pare di no. Ma ci sono molte variabili da calcolare. L’espansione è eterna? Quant’è la materia nell’universo? Ecco che la disciplina dell’infinitamente piccolo corre in aiuto. Valutare se il neutrino ha massa nulla oppure no, determina il calcolo della materia e lo studio dell’antimateria, che, nonostante lo sbigottimento dei profani, viene creata in laboratorio. Se si prendono materia e antimateria come due alternative possibili, si può ipotizzare che l’universo della materia sia solo una delle realizzazioni degli altri universi di antimateria paralleli. Certo, sono dimensioni con cui non siamo in grado di rapportarci, ma non c’è indeterminatezza nello studio dell’astronomia, i modelli sono frutto dell’osservazione sperimentale e della matematica, posto che le leggi siano valide ovunque. 
Riguardo al rapporto tra modello e fenomeno, Sandrolini domanda in che misura il principio di indeterminazione di Heisemberg -quello per cui all’interno di una certa dimensione è impossibile stabilire dove un oggetto stia e come si muova perché la presenza stessa dello scienziato influenza e distrugge il fenomeno- influisca sulla ricerca scientifica. 
La descrizione complessiva del modello interpretativo, in particolare quello cosmologico, è data dalla stima di alcune osservazioni, di cui si elabora una statistica. In una certa misura è qualcosa di fittizio, è una ricostruzione interpretativa. Si può dire che il modello funziona finché nuovi dati non concorrono a confutarlo, è il caso della Rivoluzione scientifica. La certezza assoluta è qualcosa che gli scienziati hanno abbandonato agli albori del metodo sperimentale. Esistono verità altamente probabili, ma ci può sempre essere un colpo di scena. Esiste il dato fornito dall’osservazione e che può confermare o smentire l’ipotesi che il ricercatore ha fatto. Ma l’idea di partenza non può forzare la verifica, o influenzarla in qualche modo. Questo succederebbe se allo scienziato fosse sottoposto qualcosa che travalica l’osservazione empirica, ma così si tornerebbe al noumeno kantiano. Dio non può condizionare la ricerca scientifica. 
Come si può convivere coscienti della marginalità dell’uomo? Lo scienziato si abitua all’infinito come il medico al sangue? Chiede Benedetta Nanni. Questa consapevolezza è già un progresso. Essa deve spingere lo scienziato a valicare i limiti umani e a tradurre quello slancio anche nella pratica politica. Se è possibile conoscere l’universo in cui hanno luogo mutamenti sconvolgenti, perché non deve essere possibile cambiare il mondo?