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Il Centauro - Josè Saramago

unedì 18 febbraio 2002 legge Vittorio Franceschi
"Nel mio libro le cose si svolgono in un tempo senza distinzione fra passato e presente. Il presente per me è la schiuma che arriva alla spiaggia sulla cresta dell'onda, il passato è tutto il mare che muove quell'onda. Il passato ci spinge avanti… Io sono convinto d'un punto molto importante: la storia stessa è un'invenzione… Ciò che lo scrittore deve fare, è guardare la storia in ogni angolo, raccontarla da tutti i punti di vista" (José Saramago, portoghese, Premio Nobel 1998). Nel racconto, ci viene incontro questo Oggetto Quasi, una creatura proveniente dal passato, a dimostrarci la difficoltà enigmatica delle (nostre) forme (legge l'attore, autore e regista teatrale Vittorio Franceschi).
Biografie:

José Saramago, premio Nobel per la Letteratura 1998. Nato in Portogallo, ad Azinhaga, nel Ribatejo, nel 1922. Durante il periodo della dittatura di Salazar, dopo diversi mestieri, fu anche direttore di produzione e direttore letterario di una casa editrice. Esordisce con il romanzo Terra do peccado, nel '47, poi, a partire dal '66, acquista la prima notorietà con la pubblicazione di romanzi, racconti e poesie. Dopo la rivoluzione del 25 aprile 1975 diventò condirettore del quotidiano di Lisbona Diário de Notícias. 

Os Poemas Possíveis (1966, poesia)
Provavelmente Alegria (1970, poesia)
Deste Mundo e do Outro (1971, cronache)
A Bagagem do Viajante (1973, cronache). trad. it. Milano, Bompiani
As opiniões que o DL teve (1974)
O Ano de 1993 (1974)
Os apontamentos (1976)
Manual de Pintura e Caligrafia (1977, romanzo)
Objecto Quase (1978), trad. it Torino, Einaudi
Poética dos Cinco Sentidos. O Ouvido (1979)
A Noite (1979, teatro), trad. it. in Teatro, Torino, Einaudi
Levantado do Chão (1980, romanzo), trad. it. Una terra chiamata Alentejo, Milano, Bompiani 1992
Que Farei com est Livro? (1980, teatro), trad. it. in Teatro, Torino, Einaudi
Viagem a Portugal (1981, guida), trad. it. Torino, Einaudi
Memorial do Convento (1982, romanzo), trad. it Milano, Feltrinelli
O Ano da Morte de Ricardo Reis (1984, romanzo), trad. it. Torino, Einaudi
A Jangada de Pedra (1987, romanzo), trad. it. La zattera di pietra, Milano, Feltrinelli, poi Torino, Einaudi
A Segunda Vida de Francisco de Assis (1987, teatro), trad. it Torino, Einaudi
Historia do Cerco de Lisboa (1989, romanzo), trad. it. Storia dell'assedio di Lisbona, Milano, Bompiani
O Evangelho segundo Jesus Cristo (1991, romanzo), Il Vangelo secondo Gesù, Milano, Bompiani
La trilogia
Cecità (1996, romanzo), trad. Torino, Einaudi
Tutti i nomi (1997, romanzo), trad. Torino, Einaudi
La caverna (2000, romanzo), trad. it. Torino, Einaudi


Da un'intervista di José Saramago a Mario Passi, in L'Unità, 3 ottobre 1990:

"Quando si dice che la storia è senza tempo, si sbaglia. Perché un tempo esiste, ed è il passato, solo il passato. Non c'è il presente. Noi, all'eterna domanda su cos'è il presente rispondiamo: il momento in cui viviamo. Ma quando lo domandiamo, questo momento è già passato. Nel mio libro le cose si svolgono in un tempo senza distinzione fra passato e presente. Il presente per me è la schiuma che arriva alla spiaggia sulla cresta dell'onda, il passato è tutto il mare che muove quell'onda. Il passato ci spinge avanti… Io sono convinto d'un punto molto importante: la storia stessa è un'invenzione… Ciò che lo scrittore deve fare, è guardare la storia in ogni angolo, raccontarla da tutti i punti di vista".


Vittorio Franceschi
Attore, autore e regista teatrale, Vittorio Franceschi dopo le prime esperienze di teatro-cabaret negli anni Sessanta (Come siam bravi quaggiù e Resta così, o sistema solare, di cui era autore insieme a Sandro Bajini), ha lavorato con i principali Teatri Stabili italiani (Roma, Torino, Genova, Bologna, Trieste, Parma, Bolzano e Piccolo di Milano); per una stagione (in lingua francese) con la "Comédie de Genève", Teatro Stabile di Ginevra; e per due stagioni con la "Compagnia Glauco Mauri". 

Per dieci anni, dal 1970 al 1980, è stato alla guida della Cooperativa Teatrale Nuova Scena di Bologna. Fra le sue principali interpretazioni: Tartufo (nell'omonima commedia di Molière) e il reduce (nel Parlamento di Ruzante), entrambe per la regia di Francesco Macedonio; Edipo (Edipo Tiranno di Sofocle) e Tartaglia (L'oiseau vert di Besson, da Carlo Gozzi), entrambe per la regia di Benno Besson; Robespierre (L'affare Danton di Stanislawa Przybyszewska), regia di Andrzej Wajda; Monologo in briciole (collage di materiali di Cesare Zavattini) di cui ha curato anche la regia; il monologo Beckett-concerto (brani letterari e poetici di Samuel Beckett) e Pietra-di-paragone (Come vi piace di Shakespeare), entrambe per la regia di Marco Sciaccaluga; Giovanni Pascoli (Un anno nella vita di Giovanni Pascoli di Melania Mazzucco e Luigi Guarnieri) regia di Walter Pagliaro; Miscin (L¹imbalsamatore di Renzo Rosso), regia di Guido De Monticelli; Hauk-Sendorf (L'affare Makropulos di Karel Capek), e Sampognetta (Questa sera si recita a soggetto di Pirandello) regìa di Luca Ronconi. 

Nel '97 ha firmato la regia della propria commedia Ordine d'arrivo, prodotta dallo Stabile di Genova. Nel '99 ha scritto e diretto Cabaret da viaggio. Nell'ambito del Progetto Colosseo 2000 ha interpretato il ruolo di Edipo in Edipo a Colono di Sofocle, musiche di scena di Mendelssohn dirette da Jonathan Webb con l'Orchestra e il Coro giovanili di Santa Cecilia, a cura di Walter Le Moli. Nella stagione 2000/2001 ha interpretato il ruolo di Jaques (Come vi piace di Shakespeare) regia di Gigi Dall'Aglio, mentre la sua commedia La signora dalle scarpe strette è andata in scena allo Stabile di Parma (Protagonista Elisabetta Pozzi, regia di Walter Le Moli). Nella presente stagione ha tradotto per lo Stabile di Genova L'ispettore generale di Gogol (dalla riduzione in lingua francese di André Markovicz), andato in scena per la regia di Matthias Langhoff. 
Prossimamente sarà protagonista del John Gabriel Borkman di Ibsen, prodotto dallo Stabile di Torino per la regia di Massimo Castri. 
Autore di numerosi testi teatrali, fra cui Pinocchio minore (Teatro Stabile di Trieste), L'Amleto non si può fare (Coop. Nuova Scena), Scacco pazzo (Coop. Nuova Scena / Teatro Stabile di Trieste), Jack lo sventratore (Coop. Nuova Scena / Teatro Stabile di Trieste), Ordine d¹arrivo (Teatro Stabile di Genova), L'uomo che mangiava i coriandoli (Meiningen Theater di Meiningen - Germania). Scacco pazzo è andato in scena in Francia, Germania, Spagna, Svizzera, Russia, Polonia, Scozia, Finlandia. 

Riconoscimenti

Premio RICCIONE - ATER 1976 per la commedia L'Amleto non si può fare (Prodotta da Nuova Scena, regia di Francesco Macedonio).
Targa St. Vincent 1983, per il complesso della sua attività.
Premio IDI 1990 per la commedia Scacco pazzo (Coprodotta dagli Stabili di Bologna e Trieste, regia di Nanni Loy).
Premio IDI 1992 (Maschera con lauro d'oro) per l'interpretazione del ruolo di Valerio in Scacco pazzo.
Segnalazione al Premio IDI 1992 per la commedia Jack lo sventratore (coprodotta dagli Stabili di Bologna e Trieste in collaborazione con il Festival dei Due Mondi di Spoleto, regia di Nanni Garella).
Premio Speciale della Giuria al Premio Riccione 1997 per la commedia La Regina dei cappelli.
Premio Ubu 1999 per l'interpretazione del ruolo di Sampognetta in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, regia di Luca Ronconi.
Nell'estate 2001 gli è stata attribuita la Gru d'oro - Tino Schirinzi per la nuova drammaturgia. 

E' insegnante di recitazione presso la Scuola di Teatro di Bologna.

Testo:

Il Centauro(da "Oggetto Quasi" di Josè Saramago)

Il cavallo si fermò. Gli zoccoli sferrati poggiarono sui ciottoli rotondi e scivolosi che coprivano il greto quasi asciutto del fiume. L’uomo allontanò con le mani, cautamente, i rami spinosi che gli impedivano la vista della pianura. Stava albeggiando. In lontananza, dove le terre cominciavano a salire, prima in dolce pendio, come ricordava, se lì erano uguali al passaggio da cui era sceso molto a nord, poi interrotte bruscamente da una catena basaltica che si ergeva come una muraglia verticale, vi erano alcune case a quella distanza bassissime, striscianti, e alcune luci che sembravano stelle. Sulla montagna, che nascondeva tutta quella parte dell’orizzonte, si vedeva una linea luminosa, come se una leggera pennellata avesse percorso le vette e, ancora nuda, si spandesse a poco a poco sui versanti. Da li sarebbe sorto il sole. L’uomo lasciò andare i rami con un movimento distratto e si graffiò: emise un suono inarticolato e si portò il dito alla bocca per succhiare il sangue. Il cavallo indietreggiò picchiando le zampe, spazzò con la coda l’erba alta che assorbiva quel po’ di umidità che ancora si manteneva sulla sponda del fiume grazie al riparo creato dai rami pendenti, una cortina a quell’ora oscura. Il fiume era ridotto a un filo d’acqua che scorreva nella parte più profonda del letto, fra i sassi, aprendosi qua e là in pozze d’acqua dove sopravviveva angosciato qualche pesce. C’era nell’aria un’umidità che preannunciava pioggia, tempesta, certo non quel giorno, ma il successivo, o forse dopo tre soli, o alla prossima luna. Molto lentamente, il cielo si andava rischiarando. Era tempo di cercare un nascondiglio, per riposare e dormire.
Il cavallo aveva sete. Si avvicinò al corso d’acqua, che sembrava immobile sotto la cappa della notte, e quando le zampe anteriori sentirono la liquida frescura, si sdraiò per terra, sopra un fianco. L’uomo, con la spalla poggiata sulla ruvida sabbia, bevve lungamente, anche se non aveva sete. Al di sopra dell’uomo e del cavallo, la parte ancora scura del cielo si spostava lentamente, trascinandosi dietro una luce pallida, per adesso ancora giallastra, il primo e, se non conosciuto, ingannevole annuncio del cremisi e del vermiglio che poi sarebbero esplosi sopra la montagna, come aveva visto accadere su tante altre montagne di luoghi tanto diversi, o sulle pianure. Il cavallo e l’uomo si alzarono. Davanti a loro c’era la spessa barriera degli al-ben, che si difendeva con i rovi fra i tronchi. Sui rami cominciavano già a cinguettare gli uccelli. Il cavallo attraversò il letto del fiume con trotto incerto e voleva inoltrarsi sulla destra nell’intrico di vegetazione, ma l’uomo preferiva un passaggio più facile. Con il tempo, e di tempo ne aveva avuto davvero tanto, aveva imparato a moderare l’impazienza animale, talvolta opponendovisi con una violenza che esplodeva e proseguiva tutta nel suo cervello, o magari in un punto del corpo in cui si incrociavano e scontravano gli ordini che partivano proprio dal cervello e gli oscuri istinti alimentati forse tra i fianchi, dove la pelle era nera. Altre volte cedeva, incurante, pensando ad altre cose, a cose che appartenevano si a questo mondo fisico in cui egli si trovava, ma non a questo tempo. La stanchezza aveva innervosito il cavallo: la pelle tremava come se lui volesse scuotersi via un tafano frenetico e avido di sangue, e i movimenti delle zampe si moltiplicavano inutili e tanto più stancanti. Sarebbe stata un’imprudenza tentare di farsi strada attraverso il groviglio di sterpi. C’erano troppe cicatrici sul pelo bianco del cavallo. Una di esse, molto antica, tracciava sulla groppa un segno lar
go, obliquo. Quando il sole vi batteva, a picco, o quando, al contrario, il freddo faceva rabbrividire e rizzare il pelo, era come se in quel punto, fascia sensibile ed esposta, fosse poggiata la lama incandescente di una spada. Benché sapesse molto bene che avrebbe visto solo una cicatrice un po’ più grande delle altre, in quelle occasioni l’uomo torceva il busto e guardava indietro, come se spiasse la fine del mondo.
A poca distanza, verso il punto di riflusso della marea, la sponda del fiume formava una rientranza nei campi: doveva esserci uno sbarramento, o forse c’era un affluente, altrettanto asciutto o magari anche di più. Il fondo era fangoso, con pochi sassi. Intorno a questa specie di sacca, che non era altro che un semplice braccio del fiume e insieme a esso si riempiva e si svuotava, c’erano alberi alti, neri sotto l’oscurità che molto lentamente cominciava a sollevarsi dalla terra. Se la cortina di tronchi e rami abbattuti fosse stata abbastanza folta, avrebbe potuto trascorrere li la giornata, ben nascosto, finché di nuovo fosse giunta la notte consentendogli di proseguire per la sua strada. Allontanò le fresche fronde con le mani e, spinto dalla forza dei garretti, balzò sulla riva scoscesa nell’oscurità quasi totale che, in quel punto, le cime rigogliose degli alberi difendevano.
Subito dopo, il terreno riprendeva a scendere verso un canale che, più avanti, forse attraversava la campagna allo scoperto. Aveva trovato un buon nascondiglio per riposare e dormire. Tra il fiume e la montagna c erano campi coltivati, terreni dissodati, ma quel canale, profondo e stretto, non sembrava un punto di passaggio. Fece qualche altro passo, ora nel silenzio più totale. Gli uccelli, spaventati, osservavano. Lui guardò in alto: vide illuminate le punte più alte dei rami. La luce levigante che proveniva dalla montagna adesso sfiorava l’alta frangia vegetale. Gli uccelli ripresero a cinguettare. La luce scemava a poco a poco, un pulviscolo verdognolo che diventava roseo e bianco, la foschia sottile e instabile dell’albeggiare. I tronchi scurissimi degli alberi, in controluce, sembravano avere solo due dimensioni, come se fossero stati ritagliati da ciò che restava della notte e appiccicati sulla trasparenza luminosa che sprofondava nel canale. Il suolo era coperto di erbacce. Un buon posto per passare il giorno dormendo, un rifugio tranquillo.
Vinto da una fatica di secoli e millenni, il cavallo si inginocchiò. Trovare una posizione per dormire che convenisse a entrambi era sempre un’operazione difficile. In genere, il cavallo si sdraiava sui fianco e cosi anche l’uomo si riposava. Ma il cavallo poteva passare una notte intera in quella posizione, senza muoversi, mentre l’uomo, per non indolenzire la spalla e tutto quel lato del busto, doveva vincere la resistenza del grande corpo inerte e addormentato per farlo voltare sul lato opposto: era sempre un sonno difficile. Quanto a dormire in piedi, il cavallo avrebbe potuto farlo, ma non l’uomo. E quando il nascondiglio era troppo stretto, lo spostamento diventava impossibile e il suo bisogno si tramutava in ansia. Non era un corpo comodo. L’uomo non poteva mai sdraiarsi bocconi a terra, incrociare le braccia sotto il mento e restarsene cosi a guardare le formiche o i granelli di terra, oppure a contemplare il candore di un tenero stelo che fuoriusciva dall’humus nero. E per vedere il cielo, aveva sempre dovuto torcere il collo, tranne quando il cavallo si impennava sulle zampe posteriori e il viso dell’uomo, in alto, riusciva a inclinarsi un po’ di più all’indietro: allora si, poteva vedere meglio la grande campana notturna piena di stelle, il prato orizzontale e tumultuoso delle nuvole, oppure la campana azzurra e il sole, come l’ultima traccia della forgia originale.
Il cavallo si addormentò subito. Con le zampe fra l’erba, i crini della coda sparpagliati sulla terra, respirava profondamente, con ritmo regolare. L’uomo, appena reclinato, con la spalla destra appoggiata sulla parete del canale, afferrò alcuni rami bassi e si copri. In movimento sopportava bene il freddo e il caldo, per quanto non cosi come il cavallo. Ma quando era fermo e addormentato si raffreddava rapidamente. Adesso, per lo meno fintanto che il sole non riscaldava l’aria, sarebbe stato bene sotto il conforto delle foglie. Nella posizione in cui si trovava, poteva notare che gli alberi non si chiudevano completamente lassù in cima: una fascia irregolare, ormai azzurra e mattutina, si stendeva davanti a lui e di tanto in tanto, attraversandola da parte a parte, o per alcuni istanti percorrendola nella stessa direzione, volavano velocemente gli uccelli. Gli occhi dell’uomo si chiusero lentamente. L’odore della linfa dei rami strappati lo stordiva un po’. Si avvicinò al viso un ramo e si addormentò. Non sognava mai come sogna un uomo. E non sognava neppure come sognerebbe un cavallo. Nelle ore in cui erano svegli, le occasioni di pace o di semplice conciliazione non erano molte. Ma il sogno dell’uno e il sogno dell’altro creavano il sogno del centauro.
Era l’ultimo sopravvissuto della grande e antica specie degli uomini-cavallo. Aveva partecipato alla guerra contro i Lapiti, la prima grande sconfitta sua e dei suoi. Insieme a essi, vinto, si era rifugiato fra montagne di cui aveva ormai dimenticato il nome. Fino al giorno fatale in cui, con la parziale protezione degli dèi, Eracle aveva decimato i suoi fratelli, e solo lui era sfuggito, perché la lunga lotta fra Eracle e Nesso gli aveva dato il tempo di rifugiarsi nella foresta. Si erano estinti allora i Centauri. Ma, contrariamente a quanto affermavano gli storici e i mitologi, uno era rimasto, proprio questo che aveva visto Eracle schiacciare in un tremendo abbraccio il busto di Nesso e poi trascinarne il cadavere per terra, come con Ettore avrebbe fatto in seguito Achille, mentre rendeva lodi agli dèi per aver vinto e sterminato la prodigiosa razza dei Centauri. Forse pentiti, quegli stessi dèi avevano poi favorito il centauro nascosto, accecando gli occhi e l’intelletto di Eracle, chissà con quali disegni.
Tutti i giorni, in sogno, lui lottava con Eracle e lo sconfiggeva. In mezzo agli dèi in circolo, ogni volta e sempre riuniti agli ordini del suo sogno, lui lottava braccio a braccio, sottraeva la scivolosa groppa all’astuto salto che tentava il nemico, schivava la corda che gli fischiava tra le zampe e lo costringeva a lottare faccia a faccia. Il suo viso, le braccia, il busto sudavano come può sudare un uomo. Il corpo del cavallo si ricopriva di schiuma. Questo sogno si ripeteva da migliaia di anni, e sempre vi si ripeteva l’epilogo: lui vendicava con Eracle la morte di Nesso, richiamava alle braccia e ai muscoli del busto tutta la sua forza di uomo e di cavallo. Saldo sulle quattro zampe come se fossero aste piantate nel suolo, sollevava Eracle in aria e stringeva, stringeva, finché udiva la prima costola incrinarsi, poi un’altra, e infine la spina dorsale che si spezzava. Eracle, morto, scivolava per terra come un cencio e gli dèi applaudivano. Non vi era alcun premio per il vincitore. Gli dèi si alzavano dai loro sedili d’oro e si allontanavano, sempre più allargando il circolo fino a scomparire all’orizzonte. Dalla porta attraverso cui faceva il suo ingresso nel cielo Afrodite, sempre appariva e brillava una grande stella.
Da migliaia di anni percorreva la terra. Per molto tempo, finché il mondo si era mantenuto anch’esso misterioso, aveva potuto muoversi alla luce del sole. Quando passava, le persone si avvicinavano alla strada e gli lanciavano sul dorso di cavallo fiori intrecciati, o ne facevano corone che lui si poneva sul capo. Vi erano madri che gli affidavano i figli perché li sollevasse in aria e così superassero la paura dell’altezza. E in ogni luogo vi era una cerimonia segreta: al centro di un circolo di alberi che raffiguravano gli dèi, gli uomini impotenti e le donne sterili passavano sotto il ventre del cavallo. Era credenza comune che sbocciasse cosi la fertilità e si rinnovasse la virilità. In certe epoche, portavano al centauro una cavalla e si ritiravano dentro le case: ma un giorno qualcuno, che per
quel sacrilegio fu accecato, vide che il centauro copriva la cavalla come un cavallo e poi piangeva come un uomo. Da quelle unioni non nacque mai alcun frutto.
Poi giunse il tempo del rifiuto. Il mondo trasformato perseguitò il centauro, lo costrinse a nascondersi. E altre creature dovettero fare lo stesso: come l’unicorno, le chimere, i lupi mannari, gli uomini piè-di-capra, certe formiche più grandi delle volpi, ma più piccole dei cani. Nel corso di dieci generazioni umane, questo popolo diverso visse riunito in regioni deserte. Ma, con il passare del tempo, la vita divenne loro impossibile anche il, e si dispersero tutti. Alcuni, come l’unicorno, morirono; le chimere si accoppiarono con i topiragni, e così comparvero i pipistrelli; i lupi mannari si introdussero nelle città e nei paesi e soltanto certe notti seguono il loro destino; gli uomini piè-di-capra si estinsero anch’essi, e le formiche cominciarono a diminuire di grandezza e oggi non c’è più nessuno in grado di distinguerle dalle loro sorelle che sono sempre state piccole. Il centauro fini per ritrovarsi solo. Per migliaia di anni, fin dove il mare lo consentiva, percorse tutta la terra possibile. Ma nei suoi itinerari passava sempre alla larga quando intuiva le frontiere dell’originario paese. Passò il tempo. Alla fine non vi era più terra dove potesse vivere al sicuro. Cominciò a dormire durante il giorno e a camminare di notte. Camminare e dormire. Dormire e camminare. Senza alcuna ragione di cui fosse consapevole, solo perché aveva zampe e sonno. Di mangiare, non aveva bisogno. E il sonno gli era necessario solo per poter sognare. E l’acqua, solo perché esisteva l’acqua.
Migliaia di anni dovevano essere migliaia di avventure. Migliaia di avventure, però, sono troppe perché valga-no quanto una sola, vera e indimenticabile avventura. Perciò tutte insieme non valevano più di quella, avvenuta in quest’ultimo millennio, quando, in un luogo deserto e arido, vide un uomo con lancia e armatura, in sella a un Cavallo imbizzarrito, attaccare un esercito di mulini a vento. Vide il cavaliere scagliato in aria e poi un altro uomo, basso e grasso, accorrere gridando sopra un mulo. Li udì parlare in una lingua che lui non capiva, e poi li vide allontanarsi, l’uomo magro malandato e l’uomo grasso che gemeva, il cavallo magro zoppicante e il mulo indifferente. Pensò di seguirli per aiutarli, ma rivolgendo lo sguardo ai mulini, vi si diresse al galoppo e, appostatosi davanti al primo, decise di vendicare l’uomo che era stato disarcionato dal cavallo. Nella sua lingua natia gridò:
«Anche se tu avessi più braccia del gigante Briareo, me la pagherai». A tutti i mulini furono spezzate le pale e il centauro fu inseguito sino alla frontiera con un altro paese. Attraversò campagne desolate e arrivò al mare. Poi tornò indietro.
Il centauro dorme. Dorme il suo corpo. Il sogno è venuto ed è passato, e adesso il cavallo galoppa in un giorno antichissimo perché l’uomo possa vedere sfilare le montagne come se camminassero da sole, o perché possa salire per sentieri fino alla loro cima e da li guardare il mare sonoro e le isole sparpagliate e nere, con la schiuma che frange intorno ad esse come se fossero appena sorte dalle profondità ed emergessero abbaglianti. Ma questo non e un sogno. Viene dal largo un odore salino. Le narici dell’uomo si dilatano e le braccia si tendono verso l’alto, mentre il cavallo, eccitato, scalpita con gli zoccoli su pietre che sono marmo e affiorano. Le foglie che coprivano il viso dell’uomo sono scivolate via, ormai appassite. Il sole, alto, ricopre il centauro di macchie di luce. Non è un viso vecchio, quello dell’uomo. Ma neppure giovane, perché non potrebbe esserlo, visto che gli anni si contano a migliaia. Ma lo si può paragonare a quello di una statua antica: il tempo lo ha consumato, non tanto da cancellarne i lineamenti, ma solo quanto basta per mostrarli in pericolo. Un piccolo lago luminoso scintilla sulla pelle, scivola lentamente verso la bocca, la riscalda. L’uomo apre gli occhi d’improvviso, come lo farebbe la statua. Nell’erba, si allontana sinuosamente un serpente. L’uomo porta la mano alla bocca e sente il sole. In quell’istante, la coda del cavallo si agita, spazza la groppa e scaccia un moscone che sondava la pelle sottile della grande cicatrice. Rapid4-mente, il cavallo si mette in piedi e l’uomo io segue. E passata quasi metà del giorno, ne manca altrettanto perché arrivi la prima ombra della notte, ma non si può dormire più. Il mare, che non è stato un sogno, risuona ancora nelle orecchie dell’uomo, o forse non il rumore reale del mare, ma il rifrangere delle onde che gli occhi hanno visto e trasformato in onde sonore che si sovrappongono all’acqua, si insinuano profondamente nelle gole rocciose, fino al sole e al cielo azzurro di nuovo trasformato in acqua.
E vicino. Il canale in cui procede è solo un accidente, porta ovunque, è opera di uomini e cammino per arrivare agli uomini. Ma punta a sud, e questo è ciò che conta. Avanzerà in quella direzione fin dove gli sarà possibile, anche se è giorno, anche se il sole splende su tutta la pianura e denuncia tutto, uomo e cavallo. Ancora una volta aveva vinto Eracle nel sogno, davanti a tutti gli dèi immortali, ma, concluso il combattimento, Zeus si era allontanato verso sud ed era sparito dopo che le montagne erano sfilate e dal loro punto più alto, su cui si ergevano colonne bianche, si vedevano le isole e la schiuma intorno. E vicino alla frontiera e Zeus si è allontanato verso sud.
Procedendo lungo il canale stretto e profondo, l’uomo può vedere la campagna da un lato e dall’altro. Adesso le terre sembrano abbandonate. Lui non sa più dove sia finito l’abitato che ha visto all’albeggiare. Il grande picco roccioso si è ingrandito, o forse è più vicino. Le zampe del cavallo sprofondano nel terreno molle che a poco a poco comincia a salire. Tutto il busto dell’uomo è già fuori dal canale, gli alberi sono più radi, e d’improvviso, nel momento in cui tutta la campagna è allo scoperto, il canale finisce. Con un semplice movimento il cavallo supera l’ultimo declivio e il centauro appare tutto nel chiarore dei giorno. Il sole si trova sulla destra e batte con forza sulla cicatrice che, ferita, arde. L’uomo guarda indietro, come sua abitudine. L’atmosfera è soffocante e umida. Ma non perché il mare sia tanto vicino. L’umidità promette pioggia, come quest’improvviso soffio di vento. A nord, si stanno accumulando nuvole.
L’uomo esita. Da tanti anni non osa camminare allo scoperto, senza la protezione della notte. Ma oggi si sente eccitato quanto il cavallo. Avanza sul terreno coperto di vegetazione da cui provengono odori penetranti di fiori selvatici. La pianura è finita e il suolo, adesso, fa delle piccole gobbe e limita l’orizzonte o lo allarga sempre più, perché le alture sono già colline e davanti si innalza una cortina di monti. Comincia a comparire qualche arbusto e il centauro si sente più protetto. Ha sete, molta sete, ma non v’è traccia d’acqua. L’uomo guarda indietro e vede che metà del cielo è già coperta di nuvole. Il sole illumina il bordo nitido di un grande nembo grigio che avanza.
In quel momento si sente abbaiare un cane. Il cavallo freme innervosito. Il centauro si lancia al galoppo fra due colline, ma l’uomo non perde l’orientamento: proseguire verso sud. Il latrato si avvicina e vi si aggiunge un tintinnio di campanelle e poi una voce che parla al bestiame. Il centauro si è fermato per orientarsi, ma gli echi lo hanno ingannato e, d’improvviso, in un avvallamento umido e inatteso, gli appare un gregge di capre e, davanti, un grosso cane. Il centauro si è bloccato. Alcune delle cicatrici che gli segnavano il corpo le doveva ai cani. Il pastore lanciò un grido spaventato e cominciò a scappare, come un folle. Chiamava e urlava: doveva esserci un abitato li vicino. L’uomo dominò il cavallo e avanzò. Strappò un grosso ramo da un arbusto per scacciare il cane, che si strozzava ad abbaiare, di rabbia e di paura. Ma prevalse la rabbia: il cane aggirò rapidamente alcuni sassi e tentò di prendere il centauro di fianco, al ventre. L’uomo voleva guardare indietro, vedere da dove provenisse il pericolo, ma il cavallo lo precedette e, ruotando veloce sulle zampe anteriori, sferrò un calcio violento che colpi il cane nell’aria. L’animale andò a sbattere contro i sassi, morto. Non era la prima volta che il centauro si difendeva cosi, ma tutte le volte l’uomo si sentiva umiliato. Nel corpo gli pulsava la risacca della vibrazione di tutti i muscoli, l’onda di energia che deflagrava, lui udiva il sordo calpestio degli zoccoli, ma si trovava con le spalle rivolte alla battaglia, non ne prendeva parte, al massimo ne era spettatore.
Il sole si era nascosto. Il calore scomparve improvvisamente dall’aria e l’umidità si fece palpabile. Il centauro cominciò a correre per le colline, sempre verso sud. Nell’attraversare un piccolo ruscello, vide dei terreni coltivati e mentre cercava di orientarsi si ritrovò davanti a un muro. Da un lato c’erano alcune case. Fu allora che si udì uno sparo. Come investito da uno sciame, senti il corpo del cavallo contrarsi sotto le punture. C’era gente che gridava e poi spararono di nuovo. Sulla sinistra crepitarono i rami dilacerati, ma questa volta nessun piombino lo colpi. Indietreggiò per prendere la rincorsa e, d’un balzo, oltrepassò il muro. Vi passò sopra volando, uomo e cavallo, centauro, quattro zampe distese o ripiegate, due braccia tese verso il cielo azzurro al di là. Risuonarono altri spari e poi il calpestio degli uomini che lo inseguivano per i campi, urlando, e l’abbaiare dei cani.
Aveva il corpo coperto di schiuma e di sudore. Vi fu un momento in cui si fermò per cercare la strada. Anche la campagna intorno sembrò in attesa, quasi tendesse l’orecchio in ascolto. E caddero i primi goccioloni di pioggia. Ma l’inseguimento continuava. I cani fiutavano una traccia per loro strana, ma di un nemico mortale: un misto di uomo e di cavallo, dalle zampe assassine. Il centauro continuò a correre, a correre, finché si rese conto che le grida erano ormai diverse e l’abbaiare dei cani era dovuto a frustrazione. Guardò indietro. A una buona distanza, vide gli uomini fermi, udì le loro minacce. E i cani che li avevano preceduti tornarono dai loro padroni. Ma nessuno si faceva avanti. Il centauro aveva vissuto abbastanza tempo per sapere che quella era una frontiera, un limite. Gli uomini, tenendo i cani, non osavano sparargli: un solo colpo fu sparato, ma da così lontano che lui non udì neppure cadere la pallottola. Era in salvo, sotto la pioggia che si abbatteva torrenziale e creava tra i sassi rigagnoli veloci, su questa terra dove era nato. Continuò a camminare verso sud. L’acqua gli inzuppava il pelo bianco, lavava la schiuma, il sangue e il sudore e tutta la sporcizia accumulata. Se ne tornava a casa invecchiato, coperto di cicatrici, ma immacolato.
D’improvviso, la pioggia cessò. Un attimo dopo, il cielo fu spazzato delle nuvole e il sole risplendette sulla terra bagnata da cui, ardendo, faceva sollevare nuvole di vapore. Il centauro andava a passo, come se procedesse su una neve imponderabile e tiepida. Non sapeva dove si trovasse il mare, ma li c’era la montagna. Si sentiva forte. Aveva placato la sete con l’acqua della pioggia, sollevando il viso al cielo, a bocca aperta, bevendo a grandi sorsate, mentre l’acqua gli scivolava lungo il collo, giù per il busto, purificatrice. E adesso stava discendendo il versante sud della montagna, lentamente, aggirando gli enormi massi ammucchiati e puntellati gli uni contro gli altri. L’uomo appoggiava le mani sui picchi più alti e sentiva sotto le dita i soffici muschi, gli aspri licheni, o la rugosità eccessiva della pietra. In basso, da un capo all’altro, c’era una vallata che a quella distanza sembrava stretta, erroneamente. Nella vallata, a grandi intervalli, vedeva tre paesi, con il più grande al centro, e al di là di esso il sud. Tagliando la vallata a destra, sarebbe dovuto passare vicino all’abitato. Lo avrebbe fatto? Ripensava all’inseguimento, alle urla, agli spari, a quegli uomini al di là della frontiera. All’odio incomprensibile. Questa era la sua terra, ma chi erano gli uomini che ci vivevano? Il centauro continuava a scendere. Il giorno era ancora lontano dal concludersi. Il cavallo, esausto, poggiava gli zoccoli con prudenza, e l’uomo pensò che meglio avrebbe fatto a riposare prima di avventurarsi nell’attraversamento della valle. E, continuando a pensare, decise che avrebbe atteso la notte, che prima avrebbe dormito in qualunque rifugio avesse trovato, per riprendere le forze necessarie alla lunga camminata che gli rimaneva fino al mare.
Continuò a scendere, sempre più lentamente. E mentre si accingeva infine a fermarsi tra due rocce, vide l’ingresso oscuro di una caverna, alta abbastanza per entrarvi tutto, uomo e cavallo.