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La città nella storia, Lirica dedicata al Po e alla piana padana - Lewis Mumford, Giovanni L. Ferretti

lunedì 15 aprile 2002 legge Marco Guerzoni
Uno dei meriti maggiori di Lewis Mumford, con "La città nella storia" (pubblicato negli Stati Uniti nei primi anni Sessanta), è di cogliere il futuro delle città nel significato della loro storia. Imprescindibile condizione per lo sviluppo della società urbana è la continua costruzione di relazioni e di strutture per la vita collettiva e cooperata, poiché in nessun altro modo l’umanità ha saputo progredire e svilupparsi com’è storicamente avvenuto nelle città. Su questo “senso” del vivere collettivo, è necessario trovare le basi per lo sviluppo futuro e per affrontare la complessità delle metropoli moderne. Ma la città non è l’unico “mondo artificiale” che ci è dato conoscere. Infatti tutto ciò che non è (più) natura è – in qualche modo – artificiale. Allora anche il territorio in senso lato è implicitamente un “mondo artificiale” e Giovanni Lindo Ferretti (musicista di Punk emiliano), in una lirica dedicata al Po e alla piana padana, rivela i termini di questo artificio, la fatica della costruzione e dello sviluppo, e la necessità di governare tutto ciò che non sta più in un equilibrio naturale.La lettura degli scritti di uno storico americano e quelli di un musicista Punk emiliano - soggetti così distanti – dà la misura di quanto l’esperienza urbana sia un fatto quotidiano e universale, e quanto il governo delle trasformazioni di questi “mondi artificiali” significhi “progettare il futuro” degli uomini.
1) Lewis Mumford

Nel suo processo di formazione la città antica radunò molti organi isolati della vita collet-tiva e favorì la loro interazione e la loro fusione entro le sue mura. Le funzioni collettive cui la città adempiva erano importanti, ma ancor più significative erano le finalità comuni che emersero dai nuovi metodi di comunicazione e di cooperazione. La città serviva da interme-diaria tra 1'ordine cosmico, rivelato dai sacerdoti-astronomi, e gli sforzi unificatori della mo-narchia. Il primo prese forma nel tempio e nel sacro recinto, il secondo nella cittadella e nelle mura urbane. Polarizzando aspirazioni umane rimaste sino allora insoddisfatte in precedenza e raccogliendole in un nucleo centrale politico e religioso, la città riuscì ad approfittare del-l'immensa energia creativa della cultura neolitica.
Grazie a questo ordine, masse enormi di uomini furono per la prima volta indotte a coope-rate tra loro. Organizzate in gruppi di lavoro disciplinati e controllati da un'autorità centrale, le popolazioni urbane della Mesopotamia, dell'Egitto e della valle dell'Indo contennero le inondazioni, ripararono i danni causati dalle tempeste, immagazzinarono 1'acqua, riplasmarono il paesaggio, costruirono una grande rete di canali per le comunicazioni e i trasporti e riempirono gli involucri urbani di energie umane disponibili per altre attività collettive. Col tempo i sovrani della città crearono una struttura interna di ordine e di giustizia che, grazie a uno sforzo razionale, assicurò alla sua popolazione composita un po' della stabilità morale e della solidarietà reciproca dell'antico villaggio. Nel teatro urbano si andavano rappresentando i nuovi drammi della vita.
Ma a questi progressi dobbiamo contrapporre i contributi negativi della civiltà urbana: guerra, schiavitù, eccessiva specializzazione professionale e, in molti luoghi, una cultura permanentemente orientata verso la morte. Queste istituzioni e queste attività, che determinavano una «simbiosi negativa», hanno accompagnato quasi tutta la storia della città e permangono ancor oggi, in forma particolarmente brutale perché priva della sanzione religiosa originaria, come la più grande minaccia all'evoluzione ulteriore dell'uomo. Sia gli aspetti positivi della città, sia questi negativi sono stati in parte ereditati da ogni struttura urbana posteriore.
Mediante questa concentrazione del potere fisico e culturale, la città accelerò il ritmo dei rapporti umani e convertì i propri prodotti in forme atte ad essere immagazzinate e riprodotte. Con i monumenti, i documenti scritti e le ordinate organizzazioni associative, allargò la portata di tutte le attività umane prolungandole avanti e indietro nel tempo. Con le sue installazioni di immagazzinamento (edifici, cripte, archivi, monumenti, tavolette, libri) riuscì a trasmettere da una generazione all'altra una complessa cultura perchè seppe organizzare non soltanto i mezzi materiali ma anche gli agenti umani necessari a trasferire e ad allargare questa eredità. E' appunto questo il maggior merito della città. In confronto al suo complesso ordine umano, i nostri ingegnosi meccanismi elettronici per immagazzinare e trasmettere informazioni appaiono rozzi e limitati.
E' dall'aggregazione originaria tra santuario, cittadella, villaggio, officina e mercato che tutte le forme urbane posteriori derivano in certa misura la loro struttura fisica e i loro motivi istituzionali. Molte sue componenti sono ancora indispensabili a una valida associazione umana, come del resto quelle originariamente provenienti dal villaggio e dal santuario. Senza l'attiva partecipazione del gruppo primario, famiglia e rione, è dubbio che si possano trasmettere da una generazione all'altra le regole morali di base: il rispetto per il vicino e il rispetto per la vita.
D'altro canto è pure dubbio che le molteplici forme di cooperazione che non si pre-stano ad essere trascritte in termini astratti e simbolici possano continuare a fiorire senza la città, in quanto soltanto una piccola parte dei contenuti della vita può essere messa per iscritto. Senza la sovrapposizione di molte attività umane diverse e di molti livelli di esperienza in un'area urbana limitata, dove siano continuamente a portata di mano, un settore troppo ampio dell'esistenza verrebbe limitato a ciò che è documentabile. Quanto più è vasta l'area di partecipazione e grande il numero dei partecipanti, tanto più è necessario disporre di numerosi centri permanenti per incontri diretti e riunioni frequenti a ogni livello.
Il ricupero delle attività e dei valori essenziali incorporati in origine nelle città antiche, soprattutto in Grecia, è di conseguenza una condizione essenziale per lo sviluppo ulteriore della città contemporanea.
I nostri elaborati rituali di meccanizzazione non possono sostituire il dialogo umano, il dramma, la cerchia vivente dei colleghi e dei collaboratori, la compagnia degli amici. Queste cose sono alla base dello sviluppo e della riproduzione della cultura umana e senza di esse le strutture più elaborate perdono significato o diventano addirittura ostili alle finalità della vita.
Oggi le dimensioni fisiche e la portata umana della città sono cambiate; e quasi tutte le sue funzioni interne e le sue strutture devono essere modificate per contribuire efficacemente all'attuazione di finalità più alte: l'unificazione della vita interiore ed esteriore dell'uomo e quella dell'umanità in genere. Compito attivo della città sarà in futuro quello di sviluppare al massimo la varietà e la individualità di regioni, personalità e culture. Sono obiettivi complementari; l'alternativa è l'attuale frantumazione meccanica del paesaggio e della personalità umana. Senza la città l'uomo moderno non potrebbe difendersi con efficacia da quei meccanismi collettivi che sono pronti ancor oggi a rendere superfluo ogni elemento di una vita veramente umana, se non in quanto svolge una funzione secondaria cui la macchina non è ancora in grado di adempiere.
Nella nostra epoca processi sempre più automatici di produzione e di espansione urbana hanno distrutto quegli obiettivi umani ai quali avrebbero dovuto tendere. La produzione quantitativa è diventata per i nostri contemporanei il solo fine categorico; essi apprezzano la quantità e sono indifferenti alla qualità. Nell'energia fisica, nella produrtività industriale, nell'invenzione, nella scienza e nella popolazione abbiamo espansioni ed esplosioni prive di significato. Man mano che aumentano volume e ritmo di crescita, queste attività continuano a discostarsi da ogni obiettivo umanamente desiderabile. Ne segue che la umanità è oggi minacciata da inondazioni ben più spaventose di quelle che l'uomo primitivo aveva imparato ad affrontare. Per salvarsi deve concentrare la propria attenzione sui mezzi per controllare, dirigere, organizzare e subordinate alle proprie funzioni biologiche e alle proprie finalità culturali quelle forze insensate che, per la loro stessa sovrabbondanza, rischiano di mettere in pericolo la sua vita. Deve domarle e addirittura eliminarle completamente quando minacciano la sua esistenza, come è il caso delle armi nucleari e batteriologiche. 
Adesso non si tratta di assoggettare al controllo umano soltanto la valle di un fiume, ma l'intero pianeta; non di affrontare un incontrollabile flusso di acqua ma esplosioni di energia ancor più allarmanti e nocive che possono distruggere l'intero sistema ecologico dal quale dipendono la vita e il benessere dell'uomo. Il primo dovere della nostra epoca è di indirizzare le energie in sovrappiù e le forze troppo impetuose che si sono allontanate dalle norme e dai limiti organici: in ogni settore per controllare l'inondazione culturale bisogna erigere argini, dighe e serbatoi per incanalare l'acqua e avviarla verso i suoi ricettacoli; le città, le regioni, i gruppi, le famiglie e gli individui che sapranno utilizzare questa energia per il proprio sviluppo e la propria espansione. 


La funzione prima della città è di trasformare il potere in forma, l'energia in cultura, la materia morta in simboli viventi d'arte, la riproduzione biologica in creatività sociale. E queste funzioni positive non possono essere svolte senza creare nuovi assetti istituzionali, capaci di controllare le immense energie a disposizione dell'uomo moderno, assetti arditi come quelli che in origine trasformano il villaggio troppo cresciuto e la sua fortezza nell'enucleata e organizzatissima città.
Difficilmente sarebbe stato possibile immaginare innovazioni, se le istituzioni negative che accompagnarono l'ascesa della città non avessero continuato a decadere per ben quattro secoli e non fossero sembrate prossime, sino ad epoca recentissima, a cadere definitivamente in disuso. La monarchia per diritto divino è praticamente scomparsa persino come idea residua, e le funzioni politiche che venivano un tempo soltanto dal palazzo e dal tempio, con l'intervento coercitivo della burocrazia e dell'esercito, furono assunte nel corso dell'Ottocento da un gran numero di organizzazioni, corporazioni, partiti, associazioni e commissioni. Nello stesso modo si sono in buona parte attuate le condizioni poste da Aristotele per l'abolizione della mano d'opera schiavistica, grazie allo sfruttamento di fonti inorganiche di energia e all'invenzione di macchine e attrezzature meccaniche. Così alla schiavitù, al lavoro forzato, alle espropriazioni legalizzate, al monopolio della conoscenza si sono sostituiti il libero lavoro, la sicurezza sociale, l'alfabetismo universale, l'istruzione gratuita, il libero accesso alla conoscenza e l'enorme aumento delle ore di riposo, tanto necessarie a una larga partecipazione alla vita politica. 

Prima che l'uomo moderno riesca ad assicurarsi il controllo di quelle forze che ora minacciano la sua stessa esistenza, deve riconquistare la padronanza di sé stesso. E qui è la prima missione della città del futuro: creare una struttura visibile, regionale e civica intesa a mettere l'uomo a proprio agio con il suo io più profondo e legata a immagini di solidarietà.
Dobbiamo dunque vedere nella città non tanto una sede degli affari e del governo, ma soprattutto un organo essenziale per esprimere e attuare la nuova personalità umana, quella dell'«uomo del mondo». L'antica distinzione tra uomo e natura, tra abitante di città e abitante di campagna, tra greco e barbaro, tra cittadino e forestiero, non vale più: l'intero pianeta è ormai diventato un villaggio, e di conseguenza il più piccolo dei rioni deve essere progettato come un modello funzionante del mondo intero. Di conseguenza la città non deve esprimere il volere di un unico sovrano deificato, ma la volontà individuale e collettiva dei suoi cittadini, che ha per meta l'autocoscienza, l'autogoverno e la realizzazione della propria per-sonalità. Al centro delle loro attività non sarà più l’industria ma 1'istruzione; processi e funzioni saranno valutati e approvati in quanto favoriscono lo sviluppo umano, mentre la città sarà un teatro vivente di incontri spontanei e di stimoli quotidiani.

Come abbiamo visto, negli ultimi cinquemila anni la città ha subito moltissimi mutamenti, e altri gliene riserva certamente l'avvenire. Ma le innovazioni più urgenti non consistono nell'estendere e nel perfezionare le sue attrezzature fisiche, e meno ancora nel moltiplicare i congegni elettronici automatici per disperdere in un informe pulviscolo suburbano i superstiti organi di cultura. Anzi i progressi veramente importanti si otterranno solo applicando arte e ingegno alle principali preoccupazioni umane della città, e a un nuovo interesse per i processi cosmici ed ecologici che si svolgono intorno a ogni creatura. Dobbiamo restituire alla città le sue funzioni materne e vitali, le attività autonome e le associazioni simbiotiche che per lungo tempo sono state trascurate o soffocate. Essa infatti dovrebbe es-sere un organo d'amore, e la migliore economia urbana è la cura e la cultura degli uomini. 

La grande missione della città consiste insomma nel favorire la partecipazione consa-pevole dell'uomo al processo cosmico e storico. Con la sua struttura complessa e durevole, essa accresce enormemente la capacità umana di interpretare questi processi e di parteciparvi attivamente e formativamente, in modo che ogni fase del dramma messo in scena contenga, il più possibile, la luce della consapevolezza, il marchio della finalità e il colore dell'amore. Questo allargamento di tutte le dimensioni della vita, attraverso la comunione dei sentimenti, la comunicazione razionale, la maestria tecnologica e soprattutto la rappresentazione drammatica è stato la massima ragione d'essere della città nel corso della storia. Ed è la principale ragione d'essere della sua futura esistenza. (Mumford L., La città nella storia, Bompiani, Milano 1997, ed. orig. The city in history, Harmondsworth, Penguin, 1966 )


2) Giovanni Lindo Ferretti

A Po

A Po, fiume, i coloni volgevano le cure, attenti per secoli a secondarne gli umori, contenere le furie, a scavare arginare erigere, traslocare terra. Tenace duttile e schietto carattere di fiume, passionale, da sempre gli argini erano i rilievi più importanti dell'orizzonte, dove svettavano come dighe, come colline. Presto superati in altezza dagli acquedotti a fungo, caduti chissà da dove a competere con i campanili; poi da qualche ciminiera di fornace, poi qua e là silos, poi... Padani senza più argini ora, sazi, vincitori prostrati, osserviamo distratti dai nostri ultimi piani climatizzati la pianura domata. La competitività che ci sospinge potrebbe rivelare oscuri bellicismi cromosomici di provenienza ellenica etrusca celtica e poi italica e longobarda. Memorie di querce e vischio, e agguati tra i canneti. Etnie a strati, su strati di metano di terra e di humus, coltivatori che prosciugano arano dissodano livellano seminano procreano e si estinguono. Su tutti, cresce un tappeto di erba medica, o piastrelle di Sassuolo. 
Ora scorre al ribasso, il Po, usato come confine, e le comunicazioni si affidano ad altre onde: onde catodiche, radio cibernetiche, inafferrabili, incessanti livellano con perizia da addetto alla bonifica i rilievi individuali, le fisionomie distintive, le espressioni inconsce. 
Le razze diventano popolo, il popolo uno, sempre più uguale, sempre più diverso. Nella Pianura Progressiva cambiano le facce ed i mestieri, rimane al fondo una sensazione che sbilancia. Che gli ingegneri magliari finanzieri studenti artisti notabili di oggi derivino frettolosamente da ranari e cacciatori di lumache, scarriolanti sdugatori carrettieri e braccianti di poco fa. Sotto le maschere di fondo tinta antirughe dopobarba si rivelano residui di sofferenze arcaiche e patimenti, artriti croniche, reumi endemici. Eredità farinacee, di suini e di uva, sommate ad anni di coca cola e gelati arrotondano scarne fisionomie protoromaniche e magritudini secolari. Difficile ora risalire le genealogie, attribuirsi tribù o genitori chiari. Lo sfumare della memoria può favorire le fantasie: al supermercato delle appartenenze, ognuno si scelga le sue. E’ in programmazione un revival etnico, con lo slogan "scopri il seme che è in te". 
Da parte nostra, segnali di cedimento. Visioni nostalgiche della via Emilia antica, un lungo corridoio di terra battuta tra le foreste. La polvere verrà poi. (Ferretti G. L., Il libretto rozzo dei CCCP e CSI, Giunti, Firenze, 1998)


Dibattito:

Tanti interventi ha stimolato la lettura di Lewis Mumford. Il testo è stato proposto da Marco Guerzoni, giovane e promettente urbanista. Da queste pagine ha preso avvio il tema della città. L’urbanistica è lo strumento che serve per regolare, governare razionalmente la città. Il brano è stato tratto da un libro di Mumford intitolato ‘La città nella storia’ del 1963. In quegli anni in Italia sorgevano i primi movimenti ambientalisti, ‘Italia nostra’ ad esempio fu fondata a Roma nel 1965. Mumford fu in questo senso un antesignano. Nessuno ancora, prima di lui negli anni ’50, aveva a cuore il problema dell’ecologia. Mumford è un urbanista organico, concepisce la città come un essere vivente. 
L’altro brano è una lirica di Giovanni Ferretti, parla del Po, della nostra bassa e dei nostri giorni.
La città è uno spazio artificiale, creato dall’uomo, perciò ha bisogno di mantenimento. Questo il motivo per cui intitolare la serata ‘Mondi artificiali’. Al di là del tono enfatico, Mumford concepisce la città come il laboratorio della civiltà, il luogo dove matura la consapevolezza dei diritti. La città riguarda tutti, replica Marco all’accusa di pia illusione sferrata da Enzo Fano. La città non è una somma di case, essa è un ricettacolo di relazioni sociali. 
Da una parte Fano sostiene che distinguere tra natura e cultura è impossibile, poiché tutto è cultura, anche la non-città. Questa nostalgia per la concordia perduta rischia di diventare un mito delle origini. Oggi pare (a lui) che i giovani non si sentano affatto a disagio nella città. Forse il desiderio di natura che si ha nelle metropoli fa parte dei paradossi che evoca Eros Drusiani. Il cittadino cosmopolita cerca l’alimentazione biologica, l’abitazione e le cure mediche naturali. I nostri avi nelle campagne invece non avrebbero desiderato altro che le comodità tecnologiche cittadine. 
Ma per capire quanto lontani siamo dal mito delle origini basta sapere che i problemi del vissuto sociale riguardano proprio l’urbanistica. Non è un problema estetico di architettura. Oggi, infatti, si parla di sostenibilità della città e la sostenibilità è in prima istanza sociale.
La signora Ferretti, infatti, è convinta che noi siamo quello che siamo in virtù della città. La città forma gli individui e quindi ne determina le scelte, le aspirazioni. La città è una insieme di condizioni di possibilità. Allora quanto può migliorare gli uomini il progetto urbanistico? Si può ancora sperare nell’utopia, rischiando di cadere nel sogno degli architetti rinascimentali? 
Pare purtroppo che nuovi luoghi di incontro e di socializzazione siano i centri commerciali, in linea con un modo di vivere che fa coincidere il tempo libero con lo shopping . Eros Drusiani dice che il vero flagello sono gli anziani che si ritrovano lì per non comprare niente e il cui massimo divertimento è salire e scendere le scale mobili… 
Dante nel Convivio - ricorda Paolo Bollini- dice che per avere una “ben ordinata civiltade”, occorre avere una piramide di poteri e che la causa del suo fallimento è l’avarizia, che nell’accezione dantesca significa ‘avidità’ . 
Marco ci vuol far comprendere quanto l’aspetto sociale sia di competenza urbanistica. Attualmente il centro di Bologna perde popolazione in direzione dei comuni limitrofi, e si riempie di vetrine di vestiti –è la nota questione delle ‘braghe’. Vi è la mancanza di controllo nel processo che regola la specializzazione dei luoghi fisici. Non si fa più edilizia popolare e, inoltre, in contrasto con l’esigenze di mobilità richieste dal lavoro, non c’è un progetto per gli affitti. Il disegno dello spazio deve essere guidato da un progetto politico che come obiettivo deve prefiggersi il benessere dei cittadini. 
Secondo Sandro Degli Esposti, Mumford pensa la città come luogo di moltiplicazione delle possibilità. Se ci si rapporta alle proprie radici in maniera dinamica si evita di cadere nell’errore di raffigurarsi in maniera reazionaria il passato come un locus amoenus . La città è un luogo dove dialogano le contraddizioni, pertanto il suo ruolo di mediazione è eminentemente politico. 
Marco è il primo a sostenere la necessità di capacità politica, diversamente dalla situazione bolognese attuale che è un rapporto tra il potere e proprietari, portatori di interessi economici. La città se non è la casa della società, diventa quindi la casa dei proprietari, che naturalmente sono una stretta minoranza. La sua funzione in tal caso è quella di segregazione sociale. 
Trent’anni fa, ricorda Eros Drusiani, Bologna aveva una popolazione di mezzo milione di abitanti. Adesso ci sono circa 120000 persone di meno, ma un numero spropositato di abitazione in più. Forse la ragione è da attribuire alla diminuzione di componenti per ciascun nucleo familiare, ma non è solo questo riflette sul paradosso Marco. La questione è di ampia portata: c’è meno attenzione per il benessere collettivo. Le persone contano come numeri e non come individui portatori di diritti, di bisogni. La quantità prevale sulla qualità. 
Altro quesito che si pone Eros riguarda la velocità della città. Quanto influenza la vita? Se si prende un appuntamento si devono calcolare tempi di spostamento estremamente lunghi. 
Daniela Zanasi è testimone della trasformazione del quartiere Barca. C’era negli anni ’70 molto più verde in relazione al numero di abitazioni e furono i giovani a non volere che questo spazio di giardini venisse recintato. 
Il quartiere Barca fu pianificato con l’idea di farne un cosiddetto quartiere ‘bilanciato’, edilizia popolare insieme a complessi più residenziali. La differenza rispetto ad oggi è nei fatti, non nella retorica: gli edifici costruiti negli anni ’90 sorgono su quello che ai Bolognesi è noto come stradone, vent’anni prima non lo si poteva concepire proprio per il rispetto per la qualità della vita dei cittadini. 
Pertanto far star meglio le persone non è un’utopia. Si parla di cose concrete, come la decisione di far sorgere delle scuole, degli uffici postali, delle biblioteche, dei luoghi di ritrovo, di dare spazio alle necessità. Tutto questo nella convinzione che serva a rendere migliori gli individui. Mumford, come vuole sottolineare Alessandro Del Piano, insiste sulla responsabilità che implica la dimensione collettiva. Se di un ritorno c’è bisogno, è un ritorno non del passato ma della politica. 
Bisogna capire i cambiamenti di Bologna, nota Gian Luigi Bovini. Chi e che cosa accoglie Bologna la grassa? Chi e che cosa elimina, rifiuta? E’ ancora una città amichevole per una straniero? La frenesia di chi cammina in centro comincia a far sentire in colpa di un’innocua passeggiata. 
Renzo Tosi finalmente dice che la sconfitta della sinistra è da imputare alla mentalità che si è instaurata. E’ proprio l’ora della sveglia, Bologna ha una rete di trasporti pubblici che risale a quarant’anni fa! 
Secondo Enzo Fano una città che offre tutto non può far sentire a proprio agio l’io profondo dell’uomo, di cui per altro ci è ignota l’essenza… 
Piero Cavalcoli dice che Mumford non rifiuta la contemporaneità, in quanto urbanista organico. Il problema della città, o meglio la patologia -per rimanere nella metafora dell’organismo, sorge quando si rompe l’equilibrio tra la produzione economica e la qualità della vita. Allora nascono i mostri. Se non c’è l’equilibrio tra i tessuti della città, allora c’è segregazione delle funzioni: un centro per il terziario, una periferia per l’industria. 
Per concludere Marco parla della mediazione tra consumatori e produttori. Per citare Mumford “servono riforme ardite” e quindi, nel concreto, classi politiche capaci.