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I Miserabili, Storia vera - Victor Hugo, Lev Tolstoj

lunedì 08 aprile 2002 legge Pier Cesare Bori
Ricorre il II centenario della nascita di V. Hugo. In Francia vi sono importanti celebrazioni. I Miserabili (1862) sono la sua opera più importante e più popolare, forse il romanzo più popolare in assoluto nella letteratura europea. L'ispirazione dell'opera risulta ben chiara dalla sua epigrafe: "Fino a quando esisterà, a causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale che crea artificialmente, in piena civiltà, inferni, e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, la degradazione dell'uomo a causa del proletariato, l'abbrutimento della donna a causa della fame e l'atrofia del fanciullo a causa delle tenebre che l'avvolgono, non saranno risolti; fino a quando in certe regioni, sarà possibile l'asfissia sociale; in altre parole, e sotto un punto di vista ancor più esteso, fino a quando ci saranno sulla terra ignoranza e miseria, libri come questo potranno non essere inutili". Leggeremo da I Miserabili l'episodio, da cui dipende tutta l'opera: il grande gesto di Monsignor Myriel con cui comincia il riscatto di Jean Valjean. Leggeremo il testo prima nella riduzione per ragazzi che ne fece L. Tolstoj, nei suoi Libri di lettura (primi anni '70 dell'800). Ma perché Tolstoj mise il sottotitolo "Storia vera"?
Lev N. Tolstoj, Il vescovo e il brigante (Storia vera)

Da lungo tempo un brigante era alla macchia. Un giorno si travestì ed entrò in città. Gli agenti di polizia lo riconobbero e lo inseguirono. Nella fuga il brigante giunse davanti al palazzo del vescovo: le porte erano aperte; egli entrò nel cortile.
Un frate laico gli si fece incontro e gli domandò che volesse. Il brigante non sapeva che rispondere e disse a caso: "Ho bisogno di vedere il vescovo". 
Il vescovo lo ricevette subito e gli domandò cosa desiderasse da lui.
Il malfattore rispose: "Sono un brigante; mi vogliono prendere; nascondimi o ti uccido!"
"Sono vecchio", rispose il vescovo, "non temo la morte, ma tu mi fai pietà. Rimani in questa camera, sei stanco; riposati, ti farò avere da mangiare".
La polizia non osò entrare nel palazzo del prelato; e il brigante vi restò per la notte.
Quando il brigante si fu riposato, il vescovo andò a trovarlo e gli disse: "Hai freddo, hai fame, sei inseguito come un lupo, e perciò sento una grande pietà per te; ma ancora di più mi commuovi perché hai fatto molto male e perché perderai la tua anima se continui sulla strada del delitto".
Il brigante rispose: "No, non posso cambiare. Brigante ho vissuto, brigante morrò".
Il vescovo lo lasciò, per andare a dormire.
Durante la notte, il brigante s'alzò e s'accorse che tutte le porte delle camere erano aperte. Gli pareva impossibile che il vescovo non avesse chiuso nulla sotto chiave.
Si guardò attorno. Vide un grosso candelabro d'argento, si disse: "Prenderò questo: vale molto denaro; me ne andrò di qui senza uccidere il vecchio".
E fece così.
Ma la polizia sorvegliava ancora il palazzo episcopale. Quando uscì, gli agenti lo circondarono e trovarono il candelabro, nascosto sotto il suo mantello. Il brigante negava, ma gli agenti gli dissero: "Puoi negare i tuoi misfatti passati, ma non il furto di questo candelabro. Andiamo a trovare il vescovo: egli dirà se l'hai rubato o no".
Il ladro fu condotto davanti al vescovo.
"Quest'oggetto è vostro?" domandarono al prelato.
Egli rispose: "E' mio".
Gli agenti di polizia dissero: "Quest'oggetto vi fu rubato, ed ecco il ladro".
Il brigante non diceva nulla. I suoi occhi, come quelli di un lupo prigioniero, vagavano da un angolo all'altro della stanza in cerca di uno scampo.
Il vescovo non disse parola; rientrò nella camera, prese un altro candelabro identico al primo, e disse: "Perché, amico mio, ne avete preso uno solo? Eppure io ve li ho regalati tutti e due".
Il brigante scoppiò in lacrime e disse agli agenti di polizia: "Io sono un ladro e un brigante, portatemi via!"
Poi rivolgendosi al vescovo: "In nome di Cristo, perdonami, e prega Dio per me".

(Tolstoj L. N., I quattro libri di lettura, Torino, Einaudi, a c. di P. C. Bori)


Victor Hugo, I Miserabili 

XI - CIO' CHE FECE

Jean Valjean ascoltò. Nessun rumore.
Spinse la porta. 
La spinse con un dito, leggermente, con la delicatezza furtiva e inquieta di un gatto che vuole entrare.
La porta cedette alla pressione e fece un movimento impercettibile e silenzioso che ampliò un poco l'apertura.
Egli attese un momento, poi spinse la porta una seconda volta, più arditamente.
Essa continuò a cedere in silenzio. L'apertura ora era abbastanza grande perché egli potesse passare. Ma c'era accanto alla porta un tavolino che formava con essa un angolo ingombrante e che sbarrava l'entrata.
Jean Valjean riconobbe la difficoltà. Bisognava ad ogni costo che l'apertura venisse ampliata. 
Prese la sua decisione, e spinse una terza volta la porta, più energicamente delle prime due. Stavolta un cardine mal oliato emise d'improvviso in quell'oscurità un grido rauco e prolungato.
Jean Valjean trasalì. Il rumore di quel cardine risuonò alle sue orecchie con un che di squillante e di formidabile, come la tromba del giudizio universale.
Nelle esagerazioni fantastiche del primo istante, egli si figurò che quel cardine si animasse e prendesse di colpo una vita terribile, che abbaiasse come un cane per avvertire tutti e svegliare la gente addormentata.
Si fermò; tremante, perduto, e ricadde dalla punta del piede sul tallone. Sentì le arterie battergli nelle tempie come due martelli di una forgia, e gli parve che il respiro gli uscisse dal petto col frastuono del vento che esce da una caverna. Gli sembrava impossibile che l'orrendo clamore di quel cardine irritato non avesse fatto tremare tutta la casa come una scossa di terremoto; la porta, spinta da lui, si era allarmata e aveva chiamato; il vecchio si sarebbe alzato, le due vecchie avrebbero gridato, qualcuno sarebbe corso in aiuto; prima di un quarto d'ora la città si sarebbe svegliata e la gendarmeria sarebbe accorsa. Per un attimo si credette perduto. 
Rimase dov'era, pietrificato come la statua di sale, senza osare il più piccolo movimento. Passarono alcuni minuti. La porta si era spalancata. Si azzardò a guardare nella camera. Nulla si era mosso. Tese l'orecchio. Nulla si muoveva nella casa. Il rumore del cardine arrugginito non aveva svegliato nessuno.
Quel primo pericolo era passato. Ma c'era ancora in lui uno spaventoso tumulto. Tuttavia non tornò indietro. Anche quando si era creduto perduto, non era tornato indietro. Non pensò più che a finirla rapidamente. Fece un passo ed entrò nella camera. 
Quella camera era in una calma perfetta. Vi si distinguevano qua e là orme confuse e vaghe che di giorno erano fogli sparsi su un tavolo, in-folio aperti, volumi ammucchiati su uno sgabello, una poltrona carica di abiti, un inginocchiatoio, e che a quell'ora non erano più che angoli tenebrosi e spiazzi biancastri. Jean Valjean avanzò con precauzione evitando di urtare i mobili. Sentiva in fondo alla camera il respiro regolare e tranquillo del vescovo addormentato.
Si fermò di colpo. Era accanto al letto. C'era arrivato prima di quanto credesse. 
La natura mescola talvolta i suoi effetti e i suoi spettacoli alle nostre azioni, con una specie di opportunità oscura e intelligente, come se volesse farci riflettere. Da circa una mezz'ora una gran nuvolaglia copriva il cielo. Nel momento in cui Jean Valjean si fermò davanti al letto, quelle nuvole si lacerarono, come se l'avessero fatto apposta, e un raggio di luna, attraversando la lunga finestra, venne a illuminare subitaneamente il volto pallido del vescovo. Egli dormiva serenamente. Era a letto quasi vestito, a causa delle notti fredde delle Basse Alpi; aveva una vestaglia di lana bruna che gli copriva le braccia fino ai polsi. La testa era rovesciata sul cuscino nell'atteggiamento abbandonato del riposo; lasciava pendere fuori del letto la mano adorna dell'anello pastorale, dalla quale erano venute tante buone opere, tante sante azioni. Tutto il suo viso s'illuminava di una vaga espressione di soddisfazione, di speranza e di beatitudine. Era più che un sorriso e quasi un'irradiazione. C'era sulla sua fronte l'inesprimibile riverbero di una luce che non si vedeva. L'anima dei giusti durante il sonno contempla un cielo misterioso.
Un riflesso di quel cielo era sopra il vescovo.
Era nel contempo una trasparenza luminosa, perché quel cielo era dentro di lui. Quel cielo era la sua coscienza.
Nel momento in cui il raggio di luna venne a sovrapporsi, per così dire, a quella luminosità interiore, il vescovo addormentato apparve come trasfigurato. Tutto peraltro rimase delicato e velato da una penombra ineffabile. Quella luna in cielo, quella natura assopita, quel giardino senza un tremito, quella casa così tranquilla, l'ora, il momento, il silenzio aggiungevano un non so che di solenne e indicibile al venerabile riposo di quell'uomo, e avviluppavano in una sorta di aureola maestosa e serena quei capelli bianchi e quegli occhi chiusi, quel profilo in cui tutto era speranza e in cui tutto era fiducia, quella testa di vegliardo e quel sonno di fanciullo.
C'era quasi un che di divino in quell'uomo così augusto a sua insaputa. 
Jean Valjean, lui, era nell'ombra, il puntello di ferro in mano, ritto, immobile, stupefatto da quel vegliardo luminoso. Non aveva mai visto nulla di simile. Quella fiducia lo spaventava. Il mondo morale non ha spettacolo più grande di questo: una coscienza turbata e inquieta, sulla soglia di una cattiva azione, mentre contempla il sonno di un giusto.
Quel sonno, in quell'isolamento, e con un vicino come lui, aveva qualcosa di sublime che egli sentiva vagamente ma imperiosamente.
Nessuno avrebbe potuto dire cosa accadeva in lui, nemmeno lui stesso. Per cercare di rendersene conto, bisogna pensare a ciò che v'è di più violento in presenza di ciò che v'è di più dolce. Sul suo stesso viso non si sarebbe potuto distinguere nulla con certezza. Era una sorta di sbalordimento sconvolto.
Egli guardava. Ecco tutto. Ma cosa pensava? Sarebbe stato impossibile indovinarlo. Ciò che era evidente è che egli era commosso e stravolto. Ma di quale natura era questa emozione? 
Il suo sguardo non abbandonava il vegliardo. La sola cosa che si deducesse chiaramente dal suo atteggiamento e dalla sua fisionomia era una strana indecisione. Si sarebbe detto che esitasse tra i due abissi, quello in cui ci si perde e quello in cui ci si salva. Sembrava pronto a fracassare quel cranio o a baciare quella mano.
In capo a qualche istante, il suo braccio sinistro si alzò lentamente verso la fronte, ed egli si tolse il berretto, poi il braccio ricadde con la stessa lentezza, e Jean Valjean rientrò nella sua contemplazione, il berretto nella mano sinistra, la mazza nella destra, i capelli irti sulla testa selvaggia.
Il vescovo continuava a dormire in una pace profonda sotto quello sguardo spaventoso.
Un riflesso di luna rendeva confusamente visibile al di sopra del caminetto il crocifisso che sembrava aprire le braccia a entrambi, con una benedizione per l'uno e un perdono per l'altro.
Improvvisamente Jean Valjean si rimise il berretto in capo, poi camminò rapidamente senza guardare il vescovo, verso l'armadio a muro che intravedeva accanto al capezzale; sollevò il puntello di ferro come per forzare la serratura; c'era la chiave; l'apri; la prima cosa che gli apparve fu il paniere dell'argenteria; lo prese, attraversò la camera a grandi passi senza precauzione e senza badare al rumore, raggiunse la porta, rientrò nell'oratorio, aprì la finestra, prese il bastone, scavalcò il davanzale del pianerottolo, mise l'argenteria nello zaino, gettò il paniere, attraversò il giardino, saltò al di là del muro come una tigre, e fuggì.


XII – IL VESCOVO LAVORA

L'indomani, al levar del sole, monsignor Bienvenu passeggiava in giardino. La signora Magloire accorse al suo cospetto, sconvolta.
"Monsignore, monsignore", gridò, "vostra Altezza sa dove sia il paniere dell'argenteria?"
"Sì", disse il vescovo.
"Sia lodato Gesù Cristo!", riprese lei. "Non riuscivo a trovarlo"
Il vescovo aveva appena raccolto il paniere da un'aiuola. Lo presentò alla signora Magloire. 
"Eccolo".
"Ma…", disse lei, "è vuoto! E l'argenteria?"
"Ah!", riprese il vescovo. "Dunque è l'argenteria che vi preoccupa? Beh, non so dove sia".
"Gran Dio!, l'hanno rubata! L'ha rubata l'uomo di ieri sera!"
In un batter d'occhio, con tutta la sua vivacità di vecchia arzilla, la signora Magloire corse all'oratorio, entrò nell'alcova e tornò dal vescovo. Questi era chino a esaminare con un sospiro una pianta di coclearia dei Guillons che il paniere aveva spezzato, cadendo sull'aiuola. Si raddrizzò al grido della signora Magloire.
"Monsignore, quell'uomo se n'è andato! Ha rubato l'argenteria!"
Mentre proferiva quest'esclamazione, i suoi occhi caddero su un angolo di giardino in cui si vedevano tracce di scalata. La capriata del muro era strappata.
"Ecco! E' di là che è scappato! E' saltato in vicolo Cochefilet! Ah!, il delinquente! Ha rubato la nostra argenteria!"
Il vescovo rimase per un istante silenzioso, poi alzò il suo sguardo serio, e disse con dolcezza alla signora Magloire:
"Anzitutto, quell'argenteria era proprio nostra?"
La signora Magloire rimase interdetta. Ci fu ancora un attimo di silenzio, poi il vescovo continuò: 
"Signora Magloire, io possiedo a torto e da troppo tempo quell'argenteria. Apparteneva ai poveri. E chi era quell'uomo? Un povero, evidentemente".
"O Gesù", riprese la signora Magloire. "Non è per me, né per la signorina. Per noi, non importa. Ma è per monsignore. Come mangerà monsignore adesso?"
Il vescovo la guardò con aria stupita.
"Ah, è questo! Ma non abbiamo posate di stagno?"
La signora Magloire alzò le spalle. 
"Lo stagno ha un odore".
"Allora, posate di ferro".
La signora Magloire fece una smorfia espressiva:
"Il ferro ha un sapore".
"E allora", disse il vescovo, "posate di legno".
Qualche istante dopo, egli fece colazione a quella stessa tavola cui si era seduto il giorno innanzi Jean Valjean. Mangiando, monsignor Bienvenu fece gaiamente notare alla sorella che non diceva motto e alla signora Magloire che brontolava sordamente, che non c'è affatto bisogno di un cucchiaio né di una forchetta, sia pure di legno, per inzuppare un pezzo di pane in una tazza di latte.
"Figurarsi!", diceva la signora Magloire fra sé andando avanti e indietro, "Ospitare un uomo di quella fatta! E farlo dormire nella stanza accanto! E meno male che ha solo rubato! Ah, buon Dio! C'è da tremare a pensarci!"
Mentre il fratello e la sorella stavano alzandosi da tavola, bussarono alla porta.
"Entrate", disse il vescovo. 
La porta si aprì. Un gruppo strano e violento apparve sulla soglia. Tre uomini ne tenevano un quarto per la collottola. Quei tre erano gendarmi; l'altro era Jean Valjean.
Un brigadiere della gendarmeria, che sembrava capitanare il gruppo, stava accanto alla porta. Entrò e avanzò verso il vescovo facendo il saluto militare. 
"Monsignore…", disse.
A quel titolo, Jean Valjean, che era cupo e sembrava abbattuto, rialzò il capo con un'espressione stupefatta.
"Monsignore!", mormorò. "Dunque non è il curato…" 
"Silenzio!", disse un gendarme. "E' monsignor vescovo".
Intanto monsignor Bienvenu si era avvicinato con tutta la rapidità permessagli dai suoi anni. 
"Ah! Eccovi qui!", esclamò guardando Jean Valjean. "Sono contento di vedervi. E allora! Vi avevo dato anche i candelieri, che sono d'argento come il resto, e da cui potreste ricavare almeno duecento franchi. Perché non li avete presi insieme con le posate?"
Jean Valjean spalancò tanto d'occhi e guardò il venerabile vescovo con un'espressione che nessuna lingua umana potrebbe descrivere.
"Monsignore", disse il brigadiere, "allora quest'uomo diceva la verità? L'abbiamo incontrato per la strada. Andava come se avesse il diavolo alle calcagna. L'abbiamo fermato, per vedere. Aveva questa argenteria".
"E vi ha detto", interruppe sorridendo il vescovo, "che gli era stata regalata da un buon vecchio prete da cui aveva passato la notte? Capisco. E voi l'avete riportato qui? E' un equivoco".
"Ma allora, rispose il brigadiere, "possiamo lasciarlo andare?"
"Ma certo", rispose il vescovo.
I gendarmi lasciarono Jean Valjean che indietreggiò. 
"Davvero mi lasciano andare?", disse con voce quasi inarticolata e come se parlasse nel sonno.
"Sì, ti lasciamo andare, non hai capito?", disse un gendarme.
"Amico mio", riprese il vescovo, "prima di andarvene, ecco i vostri candelieri. Prendeteli". Andò al caminetto, prese i due candelieri d'argento e li portò a Jean Valjean. Le due donne lo guardarono fare senza una parola, senza un gesto, senza uno sguardo che potesse disturbare il vescovo.
Jean Valjean tremava in tutto il corpo, prese i due candelieri macchinalmente, con aria smarrita.
"Ora", disse il vescovo, "andate in pace. A proposito, quando tornerete, amico mio, è inutile che passiate dal giardino. Potrete sempre entrare e uscire dalla porta della strada. E' chiusa solo con un saliscendi giorno e notte".
Poi, volgendosi ai gendarmi:
"Signore, potete ritirarvi".
I gendarmi si allontanarono.
Jean Valjean aveva l'aria di un uomo che sta per avvenire.
Il vescovo gli si avvicinò e gli disse a bassa voce:
"Non dimenticate, non dimenticate mai che mi avete promesso di usare questo denaro per diventare un uomo onesto".
Jean Valjean, che non ricordava affatto di aver promesso qualcosa, rimase interdetto. Il vescovo aveva enfatizzato quelle parole, pronunciandole. Riprese con solennità:
"Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male, ma al bene. E' la vostra anima che io acquisto; la sottraggo ai pensieri neri e allo spirito di perdizione, e la dono a Dio".

(Hugo V., I Miserabili, ed. it. Milano, Garzanti 199511, pp. 110 – 117)


Dibattito:

Pier Cesare Bori è un grande intellettuale. Insieme a Giancarlo Gaeta diede l’avvio al gruppo Simon Weil di cui noi in qualche modo abbiamo importato l’efficace metodo di lettura. Le sue attività e collaborazioni sono molteplici. Insegna filosofia morale presso la facoltà di Scienze politiche dell’ateneo bolognese. Certo, è un docente fuori dal comune, lo dimostra anche il suo impegno come insegnante presso il carcere della Dozza. 
I testi che Bori stasera pone a confronto sono un racconto di Tolstoj e l’episodio cardine dei Miserabili di Hugo. Il primo è un racconto tratto dal libro di lettura “Quattro libri di lettura”, redatto da Tolstoj per i bambini a cui insegnava. L’edizione italiana è a cura proprio di Pier Cesare Bori, che è esperto di Tolstoj a livello internazionale. Il racconto si intitola “Il vescovo e il brigante”, fu composto tra il 1870 e il 1875. Tolstoj aveva un’ansia religiosa che non si acquietava in seno alle confessioni. Il suo modo di comunicare insegnamenti morali era quello di proporre frammenti di letteratura, racconti. Erano racconti per bambini, per la gente, più in generale per il popolo. Tolstoj credeva nell’azione civilizzatrice e morale della letteratura. 
Lo stile è quello dei Fioretti di San Francesco, che Tolstoj amava molto. Si tratta pertanto di un raccolta di exempla. La composizione di questi libri di lettura è posteriore alla pubblicazione di “Guerra e pace” e anteriore alla stesura del capolavoro “Anna Karenina”. “I miserabili” di Hugo è datato 1862. Ma cosa hanno in comune questo racconto e il brano della grande opera francese? Il nucleo è lo stesso. Un brigante si rifugia presso un vescovo. In seguito fugge rubando l’argenteria del prelato. Acciuffato dalla polizia viene portato davanti al vescovo che lo difende e gli offre la possibilità del cambiamento. 
L’incontro tra Jean Valjean e il vescovo è ripreso nel testo di Tolstoj. Tolstoj conosceva “i miserabili”, ma tra il romanzo francese e “Guerra e pace” non sembrano esserci punti di contatto. Lo interessava l’episodio di Jean Valjean, che è il culmine del suo riscatto morale. Jean Valjean è il protagonista, santo laico di quell’imponente narrazione della Francia dei bassifondi, della povertà. Jean Valjean è l’uomo povero, caduto in disgrazia per un furto di pane. 
Hugo raccolse una documentazione ricchissima e dettagliata, scrisse da esule, in Gran Bretagna e il suo romanzo fu oggetto di censura per lungo tempo. Dalla pagina de “I miserabili” emerge la grande umanità di Hugo, il suo rifiuto per la pena di morte. La sua morale è fortemente laica -è il vescovo infatti che chiede al vecchio rivoluzionario di essere benedetto. 
La struttura di entrambi è la stessa: vi è l’elemento negativo e quello positivo, comincia Enzo Fano. Il vescovo vittima di un gesto di prevaricazione, legittima l’atto e ne redime così l’autore. La differenza è che nel racconto il brigante si converte esplicitamente, nel romanzo no. 
Osserviamo comunque l’intento diverso dei due autori. Tolstoj vuole dare un modello religioso, Hugo vuole descrivere una trasformazione morale.Ovviamente per ragioni stilistiche nel racconto non può esserci la descrizione psicologica dei personaggi. I protagonisti perdono complessità, diventano due figure simboliche e la loro contrapposizione tende al manicheismo. Quindi -come dice Rossella Lama- nel racconto i personaggi appaiono statici, non c’è movimento narrativo. 
Il gesto di generosità del vescovo è ciò che produce un cambiamento che non necessario, ma che è possibile. Il testo letterario ha il potere di imporre una necessità, di rendere necessario quello che nella realtà non sarebbe tale. Ma cos’è che interrompe una catena di male? E’ la risposta non aggressiva a un gesto aggressivo. Questo può interrompere una catena che potrebbe andare avanti necessariamente di offesa in offesa. La non violenza è la risposta che innesca una catena di causalità buona ne “I miserabili”. C’è un rapporto tra questo tipo di reazione e la risposta istintuale degli animali (il cane che mostra la pancia in segno di sottomissione). L’azione può produrre un cambiamento, ma non necessariamente. E’ il perdono del vescovo che cambia il mondo di Jean Valjean. Il vescovo passa sopra all’offesa patita, nel senso del latino ignoscere, non riconoscere -come ci ricorda Bollini, docente di latino. Secondo Capizzi quest’atteggiamento è sovversivo. 
Sono l’atto di giustizia e il dono che hanno la capacità di redimere Jean Valjean, sottolinea Bori. 
“I miserabili” sorge direttamente dalle ceneri della rivoluzione francese, affermando il diritto di autodeterminazione dell’individuo contro le gerarchie dell’ancienne regime , dice Filloni. Ma non è sicuramente conservatore Tolstoj, che fu scomunicato nel 1902! Ci suggerisce Bori. Anzi non vi è traccia dello stessa universalità del progetto di Tolstoj nella biografia di Hugo. Tolstoj fece delle sue convinzioni una condotta di vita e fu un antinazionalista ante litteram, contrario al servizio militare, vegetariano. Ebbero due visioni del mondo diverse. Ci sfugge tra l’altro la componente massonica di Hugo.
Non è la pietà del vescovo che cambia il brigante nel racconto di Tolstoj. Il brigante dice di essere tale e di non poter essere altrimenti:”No, non posso cambiare.” Nel momento in cui il vescovo lo accetta in quanto brigante, ne riconosce l’atto come giusto, in quanto vero. Non c’è la cancellazione del negativo, c’è la sua piena accettazione, che costituisce un nuovo punto di partenza. C’è sia nel racconto che nel romanzo un rovesciamento di valori. Ma Tolstoj lo rende nella brevità di una pagina.