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L'anello di Re Salomone - Konrad Lorenz

martedì 18 dicembre 2001  legge Giorgio Celli
Questa sera leggerò alcune pagine dal libro più celebre di Konrad Lorenz, dal titolo "L'anello di Re Salomone". La lettura tratterà delle peripezie etologiche dell'oca Martina, un animale che viveva in casa dell'etologo e che dormiva ai piedi del suo letto. Un'occasione per parlare più in generale dell'etologia e del comportamento degli animali.

K. Lorenz, L'anello di Re Salomone

In quella prima estate ho trascorso un’incredibile quantità di tempo con i miei dieci piccoli e ho imparato da loro un’enormità di cose. Che scienza felice quella che ci costringe a compiere una parte essenziale delle ricerche gironzolando liberamente sulle sponde del Danubio, nudi, in compagnia di un branco di oche selvatiche! Io sono una persona molto pigra, e la mia pigrizia mi rende assai migliore come osservatore che non come sperimentatore. Se qualche volta lavoro veramente, lo faccio solo sotto la pressione del più rigoroso imperativo categorico kantiano, ma ciò è del tutto contrario alle mie tendenze naturali. L’aspetto più straordinario di questa attività, che consiste semplicemente nel vivere assieme agli animali selvatici e nell’osservarli, è il fatto che gli animali stessi sono così meravigliosamente pigri: all’animale è assolutamente estranea la folle smania di lavoro dell’uomo moderno, cui manca perfino il tempo di farsi una vera cultura. Anche le api e le formiche, queste personificazioni della solerzia, trascorrono la maggior parte della giornata immerse in un dolce far niente, solo che quelle ipocrite non si fanno vedere quando se ne stanno tranquillamente a casa, ma solo quando sono al lavoro. E agli animali non si può fare premura: se si vogliono studiare le oche selvatiche bisogna vivere con loro, e, se si vuol vivere con loro, bisogna adattarsi al loro ritmo; e se madre natura non vi ha dotato di una benedetta pigrizia, non ci riuscirete assolutamente. Una persona costituzionalmente laboriosa e attiva perderebbe la ragione se fosse costretta a trascorrere un’estate in qualità di oca fra le oche come ho fatto io (con qualche interruzione). Almeno metà della giornata le oche la trascorrono intente tranquillamente a digerire, e dell’altra metà ne hanno bisogno, a dir poco, i tre quarti per pascolare; e le attività che val la pena di osservare, cui le oche si dedicano quando non digeriscono e non pascolano, coprono complessivamente al massimo un ottavo del periodo di veglia. Le oche selvatiche sarebbero proprio degli animali mortalmente noiosi, se in quell’ottava parte della giornata non facessero cose tanto interessanti. Quando siete in giro sulle rive del Danubio con un branco di oche selvatiche, potete poltrire senza il minimo rimorso, perché siete costretti a starvene sdraiati al sole per sette ottavi della giornata, con la macchina fotografica a portata di mano carica e pronta allo scatto, ma non siete affatto tenuti a sorvegliare gli uccelli: il vostro orecchio esperto comprende subito, dal verso che fanno, se essi smettono di pascolare o di dormire per dedicarsi a cose più interessanti. Naturalmente, finché le oche sono ancora piccole e ci stanno ansiosamente alle calcagna, è assai facile indurle a seguirci nei nostri spostamenti. Se si conoscono ed entro certi limiti si sanno imitare i versi delle oche selvatiche, si può indurre anche un branco di oche adulte, che non hanno più bisogno di stare appiccicate a noi, a spostarsi, o a volar via, o che altro si voglia. Ma in questi tentativi di influenzare gli animali bisogna essere prudenti e moderati, e non si deve andar molto oltre ciò che fanno normalmente i genitori oche quando guidano i loro piccoli. Questi ultimi sono subito affaticati, sia fisicamente sia psichicamente, se non li si lascia un po’ in pace. Senza dubbio io avevo preteso troppo dalla mia Martina nei primi giorni della sua vita, e perciò essa rimase un po’ indietro nello sviluppo e crebbe magra e nervosa. Le oche più grandicelle, in cui è un poco scemato il timore di restare sole, non accettano pressioni in questo senso, e se ne rimangono tranquillamente indietro a pascolare. Però anche con loro bisogna andare assai cauti con le incitazioni vocali o di altro genere, soprattutto perché altrimenti si finisce per ottundere e far scomparire proprio le reazioni che si voleva studiare. Farò un esempio. Le oche reagiscono istintivamente al verso dei genitori o di altre oche che esprimono l’intenzione di spostarsi di luogo. La persona che si prende cura delle oche può imitare assai bene questo verso, inducendole così a seguirla. Ma se lo fa troppo spesso, cioè praticamente più spesso di quello che fanno le oche nella loro vita normale, logora la reazione, e di conseguenza le oche non faranno più caso a quel verso: quindi con un tale addestramento negativo si viene ad annullare proprio quelle reazioni innate ed ereditarie che si volevano studiare. Per evitare questo errore si deve possedere quella che a ragione si chiama una pazienza da bestia.
Particolarmente interessanti sono i versi con cui le oche selvatiche esprimono la voglia di andarsene o di nuotare o volare via. Anche se molto piccole, le ochette reagiscono, in virtù di un meccanismo innato, alle più sottili sfumature di questo vocabolario veramente complesso. Il normale verso delle oche, quel ben noto sbattere del becco sommesso e veloce, risuona, di tanto in tanto, anche quando gli animali sono fermi, o pascolano, o camminano lentamente. Questo verso, a causa della forza dei suoni armonici che lo compongono, risulta tipicamente spezzato in sei-dieci sillabe. Il numero delle sillabe e la forza dei suoni armonici acuti aumentano di pari passo nel verso abituale delle oche, ma sono inversamente proporzionali all’intensità del suono nel suo complesso. Quante più sillabe ha il verso delle oche, tanto più ha un suono acuto e sommesso. Se questi tre segni caratteristici sono molto pronunciati, vuol dire che gli animali si trovano molto a loro agio e non hanno tendenza a mutar presto di luogo. Di conseguenza, un verso polisillabico, acuto e sommesso, in termini umani significa: «Qui stiamo bene, lasciateci rimanere qui», con in più il significato accessorio dell’«Io sono qui, ci sei ancora anche tu?». Se invece nell’oca si fa strada il desiderio di cambiare luogo, cambia anche il suo verso: diminuisce il numero delle sillabe, scompaiono i suoni acuti e lo schiamazzo diviene più forte. Un verso di sei sillabe corrisponde di già alla marcia lenta ma continua, ad esempio, in un pascolo magro dove gli animali devono fare uno o due passi tra uno stelo e l’altro. Se il verso è di sole cinque sillabe è già assai evidente la voglia di marciare, e gli animali pensano principalmente ad avanzare, fermandosi di rado a beccare un altro stelo. Con quattro sillabe si manifesta una motivazione assai intensa al cambiamento di luogo, e quasi sempre in questo stato d’animo l’oca ha il collo allungato e teso. Con tre sillabe si annuncia una marcia velocissima, il collo dell’oca è estremamente allungato, e già si fa sentire la disposizione al volo. Un verso di due sillabe, che suona sempre come un profondo e assai forte «gangang, gangang», indica inequivocabilmente che l’oca è in procinto di volar via. Se non si appresta a volar via, ma solo a spostarsi per via terrestre o acquatica l’oca dispone di una particolare espressione sonora, cui ricorre solo in questa occasione; pressappoco fra il verso a tre e quello a quattro sillabe, là dove di solito si potrebbe cominciare a sospettare una disposizione al volo, l’oca emette un forte suono metallico, ben distinto dagli altri, un verso di tre sillabe, la cui sillaba intermedia, fortemente accentuata, è più alta di circa sei toni delle altre due; esso suona pressappoco come un «ganghingang». I genitori che hanno i piccoli ancora incapaci di volare si trovano comprensibilmente assai spesso a dover esprimere l’intenzione di cambiare luogo, accentuando però il fatto che «non» si deve volare. Anche le oche domestiche che guidano i loro piccoli emettono assai spesso questo verso, che al conoscitore fa sempre un effetto assai comico perché queste grasse bestiole non possono comunque volare, e quindi le loro ininterrotte «rassicurazioni» che si recheranno a piedi e non in volo nel luogo prescelto sono del tutto superflue. Ma dato che questi versi dipendono da un meccanismo del tutto istintivo, gli animali naturalmente non hanno la più pallida idea di tali contraddizioni. Parimenti innato ed ereditario è, come abbiamo già detto, il meccanismo in virtù del quale la giovane ochetta comprende il vocabolario dei suoi simili: a soli due o tre giorni di vita i piccoli già reagiscono prontamente a tutte le sottili sfumature sopra descritte. Se diminuiscono le sillabe e aumenta l’intensità dei suoni con cui vengono chiamati, i piccoli smettono di pascolare, alzano il capino, e a poco a poco tutto il branco entra nello stato d’animo di andarsene ed incomincia ad avanzare.


Dibattito:

Giorgio Celli è un personaggio eclettico: scienziato di fama internazionale, deputato del parlamento europeo, ma anche scrittore. Ha scritto poesie, romanzi, commedie, pubblicando oltre cento libri. E’ importante per noi, per come è lo spirito della Bottega dell’elefante, che persone dalle più diverse esperienze abbiano voglia di mettere in comune con noi la lettura.
L’autore che Celli ha ci ha presentato e fatto conoscere come uno dei suoi maestri di vita è Konrad Lorenz.
Ethos in greco significa ‘carattere’, l’etologia infatti è lo studio delle abitudini dagli animali. Proprio l’osservazione e la descrizione degli animali è ciò che avvicina e accomuna Lorenz e Celli.
Lorenz vinse il premio Nobel nel 1973. Egli visse a contatto con gli animali tutta la vita e scoprì quello che poi chiamò l’imprintig. Questo è il fenomeno per cui gli uccelli alla nascita designano la prima cosa che vedono muoversi come mamma prima e anche come partner poi. L’investimento affettivo infatti dura tutta la vita. In questo tipo di comportamento si può forse ritrovare l’origine del feticismo.
Il brano che è stato estratto da L’anello di re Salomone parla della celeberrima ochetta Martina, piccolo animale grazie a cui Lorenz fece l’importante scoperta e da cui, proprio in virtù di quella caratteristica ornitologica, non poté più separarsi. Il titolo del libro non fu dato dall’autore stesso, ma da un geniale traduttore francese. Secondo la leggenda, questo anello conferiva a chi lo indossava la facoltà di comunicare con tutti gli esseri viventi. Proprio con poteri quasi straordinari Lorenz imparò a decifrare il ‘linguaggio’degli animali. Essi non comunicano segni come l’uomo, ma segnali che corrispondono a dolore, paura, come già aveva detto Aristotele - Pol. A2 - duemila anni fa. Il loro linguaggio è solo vocale, non ancora verbale o scritto. Tuttavia, esiste un’eccezione che testimonia quanto siano complessi i rapporti tra gli animali: le api hanno un linguaggio gestuale che comunica segni. Esse sono capaci di dare informazioni tramite una danza del corpo sulla distanza del nettare nello spazio.
Probabilmente anche quello che pare essere un dono esclusivamente umano ha avuto origine da una primitiva trasmissione di emozioni. Non esiste infatti un legame di necessità tra le parole e le cose, anzi il rapporto che intercorre tra di loro è arbitrario, come già rilevò De Saussure.
Gli animali sono comunque esclusi dalla comunità dei parlanti, ma non lo sono totalmente. A favore di questa tesi c’è un fatto: cani e gatti capiscono alcune parole, tra queste il loro nome, cosa che dimostra anche una qualche forma di coscienza. Proprio sulla consapevolezza è stato fatto un esperimento su uno scimpanzé: è stato dipinta una macchia rossa sul petto del primate mentre dormiva e al risveglio lo si è fatto specchiare. Risultato? Lo scimpanzé davanti allo specchio non era incuriosito dall’immagine ma si toccava stupito. Sul fatto che le scimmie ci siano molto affini -qui emerge un altro dei grandi maestri di Celli, Darwin- ci sono altri elementi a favore. Vari esperimenti sul linguaggio sono stati condotti sulle scimmie anche se sono stati piuttosto discussi dai linguisti. Per prima cosa è stato dimostrato che esse sono in grado di pronunciare alcune parole e poi che sono in grado di apprendere il sistema linguistico dei sordomuti (ASL). La verità è che confutare o rendere meno certa una differenza che da millenni ci distingue dagli animali, significa avventurarsi in un campo minato: la posta in gioco è l’antropocentrismo.
Siamo solo dei cugini un po’ più evoluti, ma questo ci deve anche ricordare che non possiamo trattare i nostri animali domestici come esseri umani. Essi hanno memoria, ma non hanno una sequenza logico-temporale, vivono in un eterno presente. Pertanto non sgridiamo Fido se non lo cogliamo in flagrante. E inoltre cani e gatti non hanno poteri paranormali, sono solo fini osservatori; capiscono che c’è qualcosa di diverso se il padrone non è del solito umore. Questo anche grazie al fatto che il loro olfatto percepisce le nostre variazioni metaboliche, quali l’aumento di sudore, che possono svelare l’insorgenza di malattie. Si può dire che gli odori non siano quasi più del nostro mondo, dedichiamo molto del nostro tempo a cancellare quelli che allo stato di natura sarebbero segni importanti. Del resto la donna ha perso anche l’estro per diventare sempre disponibile all’accoppiamento, rendendo indeterminabile e misterioso il momento della sua fertilità, anche per ragioni di convivenza sociale.
A conferma del fatto che gli animali non hanno intelligenza si diceva una volta che non potevano impazzire, ma è ormai ampiamente dimostrato che essi danno segni di squilibrio psichico, quanto noi. Nonostante questo, se si immaginasse un esperimento di vivisezione sull’uomo, con l’applicazione di un microelettrodo nella zona dell’ipotalamo, forse non si otterrebbe lo stesso effetto che veniva riscontrato nei gatti. Sarebbe a dire che lo stimolo artificiale della nostra aggressività non basterebbe a scatenare la rabbia di un essere umano. Il motivo è che l’uomo ha bisogno di motivazioni, ad esempio il concetto di nemico, forse, per dirla con Marx, è la sua cattiva coscienza che glielo impone. Così dovremmo essere capaci di controllare gli istinti. Abbiamo creato una morale che non appartiene agli animali. Ecco perché le nostre bestiole hanno quello sguardo innocente che Maria Teresa Cacciari vede nel suo cane. Non sono né buoni né cattivi, acquisiscono il senso di colpa per la loro frequentazione umana. Quindi è inutile attribuire loro responsabilità che appartengono alla nostra cultura. E’ non solo inutile ma perfino dannoso da un punto di vista scientifico rapportarci a loro in termini di superiorità.