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Non siamo mai stati moderni - Bruno Latour

lunedì 03 dicembre 2001 legge Francesco Marsciani
Ancora una definizione della modernità. Nel momento in cui la modernità, per come se la rappresenta il nostro senso comune, mostra sempre più numerosi luoghi di frattura e cedimento, può diventare indispensabile discutere, o ridiscutere, alcune grandi partizioni tra saperi e pratiche su cui essa si fonda. Ne può risultare una profonda illusorietà del moderno, che, per attestare le proprie conquiste (soprattutto tecnologiche) nasconde il mondo-della-vita. In questo, peraltro, non smette di mescolare conoscenze e interessi, spinte etiche e determismi naturali. Al centro, la questione della scienza e dei saperi epurati.
La lettura di Latour che viene proposta affronta il tema della crisi della modernità attraverso la strada del dibattito antropologico contemporaneo, che stravolge inevitabilmente un implicito radicato, quello della superiorità dell’Occidente.


Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni

“Noi, gli Occidentali, siamo assolutamente diversi dagli altri”: ecco il grido di vittoria o il lungo lamento dei moderni. La Grande Divisione tra Noi, gli Occidentali, e Loro, tutti gli altri, dai mari della Cina allo Yucatan, dagli Inuit ai Tasmaniani, continua a ossessionarci. Qualunque cosa facciano, gli Occidentali si trascinano appresso la storia, negli scafi delle loro caravelle e delle loro corazzate, nei cilindri dei telescopi e in quelli delle siringhe per la vaccinazione. Fardello che l’uomo bianco si porta dietro ora come un fine esaltante, ora come una tragedia, ma sempre come un destino. Non pretendono soltanto di essere diversi dagli altri, come i Sioux dagli Algonchini, o gli Esquimesi dai Lapponi, ma di esserlo radicalmente, assolutamente, al punto che è possibile mettere da una parte l’Occidentale e dall’altra tutte le altre culture, che hanno appunto in comune la caratteristica di essere culture come tante. L’Occidente e solo l’Occidente non sarebbe una cultura, non sarebbe solo una cultura.
Come mai l’Occidente si pensa così? Perché, unico, non sarebbe esclusivamente una cultura? Per comprendere la profondità di questa Grande Divisione tra Noi e Loro bisogna tornare a quell’altra tra umani e non umani di cui ho dato prima la definizione [...tra Natura e Società, tra cose della natura e relazioni sociali...]. In effetti, la prima è l’esportazione della seconda. Noi, gli Occidentali, non possiamo essere una cultura tra le altre perché mobilitiamo anche la natura. Non, come fanno le altre società, un’immagine o una rappresentazione simbolica della natura, ma la natura così com’è, o almeno come la conoscono le scienze: scienze che restano appartate, instudiabili, instudiate. Al centro della questione del relativismo si trova quindi quella della scienza. Se gli Occidentali non avessero fatto altro che commerciare e conquistare, che depredare e asservire, non si distinguerebbero radicalmente dagli altri mercanti e conquistatori. Ma ecco che ti inventano la scienza, un’attività completamente distinta dalla conquista e dal commercio, dalla politica e dalla morale.
Perfino coloro che in nome del relativismo culturale hanno tentato di difendere la continuità delle culture, senza ordinarle in una serie progressiva, senza rinchiuderle nelle loro prigioni (Lévi-Strauss, in Razza e storia,1952), pensano di poterlo fare solo accostandole il più possibile alle scienze.
[...]
Quel generoso avvocato che è Lévi-Strauss non riesce a immaginarsi altre circostanze attenuanti, se non quella di assimilare il suo cliente alle scienze esatte! Se i primitivi non sono così diversi da noi come si pensa, è perché essi anticipano con strumenti inadeguati e con “errori di localizzazione” le conquiste più recenti della teoria dell’informazione, della biologia molecolare e della fisica. Le scienze che servono a questo innalzamento restano fuori gioco, fuori dalla pratica, fuori campo. Concepite secondo criteri epistemologici, restano obiettive ed esterne, sono quasi-oggetti ripuliti dalle loro reti. Se date un microscopio ai primitivi, essi penseranno esattamente come noi. Ecco come mettere nei guai qualcuno volendogli salvare la testa. Per Lévi-Strauss (come per Canguilhelm, per Lyotard, per Girard, per la maggioranza degli intellettuali francesi) questa nuova conoscenza è completamente fuori cultura. Questa trascendenza permette di relativizzare tutte le culture, le loro come le nostre. A parte il fatto, beninteso, che è appunto la nostra cultura, e non le loro, che si struttura con la biologia, i microscopi elettronici e i network delle telecomunicazioni... L’abisso che si voleva colmare si spalanca di nuovo.
Da qualche parte, nelle nostre società e solo nelle nostre, si è manifestata una trascendenza inaudita: la natura così com’è, a-umana, talora inumana, sempre extra-umana. Dopo questo evento (che lo si collochi nelle matematiche greche, nella fisica italiana, nella chimica tedesca, nel nucleare americano, nella termodinamica belga), l’asimmetria è diventata totale tra le culture che considerano la natura e quelle che considerano solo se stesse o le versioni deformate che eventualmente hanno della materia. Coloro che inventano le scienze e scoprono i determinismi fisici non si trovano mai, salvo rari casi, nel solo commercio degli umani. Gli altri hanno della natura solo rappresentazioni offuscate o codificate dalle preoccupazioni culturali degli umani, che le occupano completamente e inciampano solo per caso (“come attraverso una nuvola”) sulle cose così come sono.
[...]
La Grande Divisione interna spiega così quella esterna: noi siamo gli unici che fanno una distinzione assoluta tra la natura e la cultura, tra la scienza e la società, mentre tutti gli altri, che siano cinesi o amerindi, zandesi o baruyas, non possono separare davvero quello che è conoscenza da quello che è società, il segno dalla cosa, ciò che viene dalla natura così com’è da quello che richiedono le loro culture. Qualunque cosa facciano, per quanto adattabili, precisi, funzionali possano essere, resteranno sempre ciechi a causa di questa confusione, prigionieri del sociale come del linguaggio. Qualunque cosa facciamo noi, per quanto criminali, imperialisti si possa essere, riusciemo a evadere dalla prigione del sociale e del linguaggio e accedere alle cose stesse attraverso una provvidenziale scappatoia, quella della conoscenza scientifica. La partizione interna tra umani e non-umani ne definisce una seconda, esterna, grazie alla quale i moderni diventano a sé stanti rispetto ai premoderni. Da Loro la natura e la società, i segni e le cose, sono quasi coestensivi. Da Noi nessuno può più mescolare le preoccupazioni sociali e l’accesso alle cose stesse.

[...]
Quando l’antropologia ritorna dai tropici per ricongiungersi a quella del mondo moderno che la sta aspettando, lo fa in un primo tempo con circospezione, per non dire con titubanza. Prima di tutto non crede che le sia possibile applicare i suoi metodi se non qundo gli Occidentali confondono segni e cose come nel pensiero selvaggio. Cercherà dunque quello che più assomiglia al suo terreno tradizionale, come l’aveva definito la Grande Divisione esterna. E’ vero che deve sacrificare l’esotismo, ma il prezzo da pagare è accettabile, perché essa conserva la sua distanza critica, studiando solo i margini, le fratture, quello che sta oltre la razionalità. La medicina popolare, la stregoneria del nord-ovest francese, la vita contadina all’ombra dele centrali nucleari, le maniere dei salotti aristocratici, tutti questi terreni si prestano bene a ricerche, d’altronde eccellenti, perché la questione della natura ancora non si pone.
Però, il rimpatrio dell’antropologia non può fermarsi qui. In effetti, fatto il sacrificio dell’esotismo, l’etnologo ha perso quello che rendeva originali le sue ricerche rispetto a quelle disperse dei sociologi, degli economisti, degli psicologi sociali e degli storici. Sotto il sole dei tropici l’antropologia non si accontenterebbe di studiare i margini delle altre culture. Anche se resta marginale per vocazione e per metodo, è comunque il loro centro che vuole ricostituire, il sistema di credenze, le tecnologie, le etnoscienze, i giochi di potere, le economie, insomma la totalità della loro esistenza. Se ritorna al suo Paese si accontenta di studiare gli aspetti marginali della sua cultura, finisce col perdere tutti i vantaggi dell’antropologia, tanto faticosamente conquistati. [...] Un Marc Augé simmetrico studierebbe non solo qualche graffito sui muri delle stazioni del metrò, ma la rete socio-tecnica del metrò stesso, i suoi ingegneri e conducenti, i suoi dirigenti e i suoi utenti, lo Stato proprietario e gestore, e via discorrendo. Molto semplicemente, continuerebbe a fare nel suo Pese quello che ha sempre fatto laggiù. Ritornando, gli etnologi non dovrebbero limitarsi alla periferia, altrimenti, restando asimmetrici, dimostrerebbero coraggio verso gli altri e timidezza nei propri confronti.
Solo che, per acquistare questa libertà di movimento e di tono. Bisogna saper guardare con gli stessi occhi entrambe le Grandi Divisioni e considerarle tutte e due come una definizione particolare del nostro mondo e dei suoi rapporti con gli altri. Ora, queste Divisioni non definiscono noi meglio degli altri: non sono strumenti di conoscenza più di quanto lo siano la Costituzione [...i principi fondamentali su cui si fonda la modernità...] da sola o la temporalità moderna da sola. Bisognerà aggirarle insieme, non credendo né alla distinzione radicale tra umani e non-umani da noi, né alla totale sovrapposizione del saperi e delle società tra gli altri.

(Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, 1995, estratti dalle pp. 119-123)


Bibliografia essenziale

Degli Esposti A., Le culture diverse, Thema
Foucault M., Archeologia del sapere, Rizzoli
Frazer J. G., Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione, Bollati Boringhieri
Greimas A. J., Del senso, Bompiani
Lévi-Strauss Cl., Il crudo e il cotto. Dal rituale del fuoco all'analisi strutturale dei miti, Il Saggiatore
Lévi-Strauss Cl., Tristi tropici, Il Saggiatore
Nagel Th., L'ultima parola, Feltrinelli
Todorov Tz., La conquista dell'America. Il problema dell'"altro", Einaudi


Dibattito:

Francesco Marsciani si è presentato come uno studioso di processi di significazione, ossia di quella disciplina che si occupa del senso dei testi.
Ma il libro di Latour non è un testo di semiotica, esso ci parla piuttosto di antropologia e in una maniera antipatica. La sua analisi procede apparentemente semplice, attraverso antitesi e contrapposizioni. Marsciani ce ne offre solo un brano. Molti si sentono esclusi dalle sue parole.
La modernità è un creazione ideologica che la nostra cultura ha messo in atto all’alba della scienza. La tesi è che non siamo mai stati moderni.
Paolo Bollini subito esprime una riflessione, cosa hanno in comune Canguilhem, Lyotard e Girard? Qual è il loro comune denominatore? E a quale tradizione si rifà Latour?
Marsciani comincia a delineare quello che è un pensiero che si lega alla riflessione sulla crisi della modernità. Quale razionalità è ancora possibile per pensare, ma soprattutto quale per pensarsi? Emerge il problema dell’altro…
Sandro Degli Esposti - autore di un’antologia di antropologia per le scuole superiori - pone un interrogativo: è ancora possibile considerare valida la contrapposizione tra scienze-dei-dati-di-fatto e scienze-dei-simboli? Secondo lui, Latour dispone di questa schematizzazione con troppa disinvoltura. La vera proposta sarebbe la ricerca di intersoggettività su base linguistica. Resta l’ostacolo di esaminare un testo, ai presenti sconosciuto per lo più, di cui abbiamo davanti solo brani. Marsciani rimane l’unico interlocutore che ne abbia la visione globale. Il rischio che corriamo, pare sempre a Sandro Degli Esposti, è che si metta sotto accusa tutto il mondo occidentale e la storia del suo pensiero.
Marsciani difende la riflessione di Latour come tentativo di trovare chiavi interpretative per un mondo che è in crisi, che non è più capace di fornire risposte adeguate. Qui è opportuno introdurre una integrazione al brano che abbiamo letto. Latour concepisce una realtà articolata in due aspetti che si integrano reciprocamente: natura e società. La strategia della modernità è quella di rimuovere sistematicamente le connessioni tra di esse e i loro prodotti, che sono fenomeni ibridi, anfibi con cui l’Occidente non sa rapportarsi. Il pensiero non è più adeguato, o forse non lo è mai stato. Gli effetti di naturalizzazione e di socializzazione sono velati. Ma ciò che avviene in natura ha delle ripercussioni sull’agire umano e, a sua volta l’agire umano è modificato dalla natura, in una spirale senza fine.La proposta di Latour è quella di cercare di comprendere queste reti, stando in esse.
Renzo Tosi vede minacciato nell’attacco di Latour il sistema logico matematico che da Aristotele in poi si basa sul principio di non contraddizione. Questo infatti ha permesso all’Occidente di studiare la realtà e di modificarla.
Andrea Severi chiede cosa sono le versioni deformate della materia di cui parla Latour.
Ma che cosa sono gli ibridi esattamente? Coincidono con le reti? Le reti, prosegue Marsciani, sono luoghi di mediazione e traduzione. Ad esempio è una rete l’HIV . Intorno ad essa si sviluppano discorsi, modi di pensare, organizzazioni di spazi e di luoghi, di risorse economiche, il tutto saldamente intrecciato. Come viene invece concepita la malattia? Abbiamo da una parte la sfera di pertinenza scientifica, che è quella governata da leggi della natura e dall’altra quella di pertinenza sociale, con conseguenze di ordine politico e morale. Il punto è proprio questo: il nostro modo di ragionare sarebbe ancora imbrigliato in una semplificazione fuorviante. C’è, infatti, una trascendenza che attribuiamo sia alla natura che alla società. In conclusione, abbiamo due poli con cui viene schematizzato l’esistente: la natura e la società, che a loro volta hanno una dicotomia interna, un elemento che trascende e uno nel suo farsi concreto.
Un passo avanti nel colmare questo divario è stato, sempre nell’ottica latouriana, la svolta linguistica che ha dato autonomia alle strutture di mediazione - leggi linguaggio. Tuttavia, anche in questo modo, ancora si trascura quella che è la matrice della dicotomia che è il fenomeno ibrido.
Enzo Fano dice di conoscere la cerchia di studiosi francesi che sono vicini a Latour. E’ pericoloso questo modo di procedere, questo relativismo radicale da cui mette in guardia un grande come Paolo Rossi. Il rischio da cui si farebbe tentare Latour è quello di confondere le parole e le cose.
Latour non vuole questa confusione, ci ricorda tuttavia che le parole sono anche cose e che le cose sono anche parole. La modernità non riesce a mettere in discussione che la natura la trascenda. Essa vede la natura come scienza e questo è un tratto caratteristico della sua costituzione.
A questo punto Paolo Bollini spezza una lancia a favore del nostro deprecato autore. Latour sembra un illuminista, perché su un punto pare proprio avere ragione: la nostra società non sa fare i conti con se stessa. Dunque c’è un elemento politico nel suo pensiero: cosa pensiamo? Cosa dobbiamo pensare?