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Un commentatore disonesto - Giorgio Manganelli


lunedì 17 gennaio 2011 legge Filippo Milani
Giorgio Manganelli non amava l'etichetta di “scrittore”, egli preferiva definirsi “scrivente” in senso lato, un vero e proprio grafomane, sperimentatore di tutte le possibilità della parola; infatti la sua vasta ed eterogenea produzione comprende: trattatelli secenteschi, commenti filologicamente scorretti, saggi sulla natura menzognera della letteratura, e ancora traduzioni, elzeviri, corsivi, recensioni, reportage, poesie. Le difficoltà connesse all'impossibilità di una catalogazione immediata e all'oscurità della sua prosa hanno fatto sì che Manganelli venisse relegato ad un ruolo marginale all'interno del panorama letterario italiano del secondo dopoguerra, anche quando prese parte attivamente alle prime riunioni del Gruppo 63 (dal quale, per altro, si distaccò presto). Egli non può essere considerato un autore militante in senso ideologico, perché la sua militanza è del tutto disonesta, nel senso che egli sceglie di stare non dalla parte dell'uomo ma della letteratura, in quanto attività per natura ambigua, contraddittoria e paradossale. Per Manganelli, infatti, la letteratura è al contempo “ascetica e puttana”, è menzogna, è attività inutile e fraudolenta di cui però non possiamo fare a meno. Per queste ragioni nei suoi corsivi, apparsi sulle numerose testate giornalistiche per cui collaborava, Manganelli ritorna con insistenza sui temi della scrittura, della lettura e della rilettura, come valori imprescindibili per qualsivoglia commento della realtà e delle sue inestirpabili contraddizioni.


Giorgio Manganelli
Il libro e la lettura


In piazza del Popolo a Roma, una lapide affissa alle mura verso piazzale Flaminio rammenta il sacrificio di due carbonari, giustiziati nell'800; la lapide non si rivolge a nessuno in particolare, ma tutti possono leggerla; coloro che la leggono provano emozioni, e forse la ricorderanno a lungo, o forse quelle due morti “vere” resteranno nella memoria solo come poche, anonime parole incise sul marmo. Quella lapide ha qualcosa che fa pensare ad una pagina; la pagina di un libro; forse, è un libro minuscolo e insieme vasto; le sue parole ingenue e grandi, appartengono a tutti coloro che le vogliono leggere. Noi viviamo in un mondo di messaggi scritti: nella stessa piazza, certamente, ci sono manifesti che annunciano eventi prossimi, e anche manifesti che si riferiscono a eventi ormai dimenticati. Sono parole destinate a scomparire insieme a ciò di cui parlano. Le ascoltiamo rapidamente, se ci interessa ne prendiamo nota, e procediamo. Altre parole ammoniscono automobilisti e pedoni. Sono parole utili, ed è bene porvi attenzione. Ma quella lapide è diversa. Non annuncia, non dà istruzioni. Racconta, celebra. Soprattutto è dedicata a tutti coloro che, generazione dopo generazione, passeranno per quella piazza. Cambieranno i mezzi di trasporto, cambierà la lingua delle persone che scorgono la lapide. Roma è piena di scritte vecchie di molti secoli, che ci ricordano che per queste strade, su questo selciato un tempo si parlava una lingua diversa, simile e lontana alla nostra di oggi. Supponiamo che quella lapide sia una pagina, e che si giustapponga ad altre innumerevoli pagine; tutte dedicate a tutti e a nessuno in particolare: ecco un libro. La legge tutela il segreto epistolare, perché una lettera è scritta da un'unica persona ad un'altra, ugualmente unica; reca un messaggio comprensibile solo nell'ambito segreto di una vita singola. Può decidere tutto per una o due persone, ma non ha nulla da dire alle altre. Il libro è una lettura che non ha busta, né indirizzo.
Riguarda la vita di tutti noi, di ciascuno di noi. È nostra, ma anche di persone che non sono più, o che non sono ancora. Nulla di un libro ci fa consapevoli di appartenere ad una comune umanità, illuminata e tormentata dalle medesime speranze e angosce. Il libro non si sa dove va, chi incontrerà, come sarà accolto; esso viaggia in mezzo a noi, come un meraviglioso enigma. Non tutti i libri hanno la stessa vitalità. Molti, la grande maggioranza, si estinguono; ma quei pochi che sopravvivono sembrano eterni. Essi sono totalmente umani e che siano vecchi di una sola, o di trenta generazioni, pare non avere alcuna importanza. Leggiamo Omero, leggiamo Leopardi.
Tra mille anni, se vi saranno uomini, leggeranno Omero e Leopardi. 
Dunque, ci sono “grandi” libri, e ci sono “piccoli” libri. Ma non è facile definirli, né i grandi né i piccoli. Vi è qualcosa di misterioso attorno ad un libro “grande”, e di solito il mistero avvolge anche il suo autore. Chissà se è esistito Omero. Di Shakespeare conosciamo data di nascita e morte e il nome della moglie. Di un “grande” libro possiamo dire che viene letto una generazione dopo l'altra; i Fratelli Karamazov di Dostoevskij ha compiuto cent'anni, e grandi libri sono stati scritti e si scriveranno sull'autore e su quel grande libro. Un grande libro racconta contemporaneamente molte storie; ed ogni lettore vi trova qualche cosa di diverso. Dunque, un grande libro è inesauribile, come inesauribili sono gli esseri umani, misteriosi a se stessi. Vi sono libri che restano piccoli per molto tempo, poi, improvvisamente, diventano grandi. Pinocchio fu un libro per bambini, e solo da pochi anni ci si è accorti che è grande. I romanzi storici del nostro Ottocento ebbero migliaia di lettori, fecero piangere e disperare, e ora non si leggono più neppure a scuola, e di regola li leggono solo professori pagati per farlo. Non avere accesso al libro dunque è non avere accesso a noi stessi, alle zone più oscure, magiche, enigmatiche, a ciò che in noi sogna, ama, teme, crede e dispera. Oggetto umile e potente, il libro entra nella nostra vita con una forza terribile: e non è un caso che quelle parole siano state così spesso, siano tuttora perseguitate, siano trattate con diffidenza, con astio, con ira, giacché esse parlano a tutto ciò che è umano, o debbono tacere. Ma la totalità dell'uomo, sempre proposta e sempre elusa, è una oscura minaccia per chiunque abbia una verità in testa, e la forza di imporla.
Ci fu un tempo in cui la parola scritta era intimidatoria; pochi leggevano, e leggevano poche cose, e ne scrivevano anche di meno. Poi la parola scritta venne consegnata a tutti: divenne un privilegio, e insieme un mezzo per dominare. Parole liberatrici si mescolavano a parole che volevano persuadere all'ubbidienza. Allora qualcuno si rammentò che il bandito analfabeta imprendibile in mezzo alle montagne, era libero, assai più libero dell'uomo d'ordine che quotidianamente imparava una piccola e disonesta verità da un giornale qualsiasi. Ma il tempo passa, e le cose cambiano. Oggi, nuovamente, l'uomo orecchio, l'uomo palpebra, l'uomo che si consegna al quotidiano ipnotismo – manifesti, televisione, discorsi di potenti, immagini, tutto ciò che, apertamente o occultamente, è “propaganda” - è l'analfabeta che sa leggere, colui che ignora i libri, e soprattutto quello che i libri possono toccare dentro di lui.
In un mondo di pubblicità e di imbonimento, di menzogne non di rado confortate da cultura e da ingegnosa malafede, la possibilità di non essere catturati irreparabilmente, di non essere strumenti di incomprensibili, fittizie battaglie, sta nella nostra esperienza di noi stessi, della vastità e della drammaticità della sorte dell'uomo.
Da questo punto di vista, non vi sono libri innocui, e non v'è cultura “che non fa male a nessuno” e rende migliori. Un grande libro è terribile, perché la sua storia dentro di noi non si spegnerà mai, e sarà la storia della nostra libertà. 
Una biblioteca è molte, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia; soprattutto è un infinito labirinto, ed è un enigma che non vogliamo sciogliere, perché la sua misteriosa grandezza dà un oscuro senso alla nostra vita – quel senso che la pubblicità va cercando di cancellare.


[L'inedito di Giorgio Manganelli – ora pubblicato dalla figlia Lietta sul sito http://manganelli.altervista.org/ – è stato rinvenuto da Emanuele Dattilo e dalla dottoressa Carla Nardi presso il Fondo del Movimento di Collaborazione Civica annesso all'Archivio Nazionale di Roma, busta 9.41. "Il Movimento di collaborazione civica – si legge nel sito dei Beni Culturali – si occupò nell'immediato dopoguerra dell'educazione degli adulti e, per mezzo dell'Umanitaria e del Fronte della cultura, diede impulso alla fondazione dell’Unione italiana della cultura popolare"]



Pronto? Lei è lo scrittore?
Ogni tanto mi capita di ricevere posta indirizzata non al dr., come si usava ed usa con gli italiani genericamente esistenti, non con il prof., titolo cui ebbi indegno diritto, e dal quale avrei abdicato, ma che tuttavia mi resta aderente e aggrovigliato come un cerotto giapponese; il che deriva, io suppongo, dal fatto che in Italia tutto quello che uno è stato una volta, non può cessare di esserlo; come dimostrano le alternative blandizie e ingiunzioni che continuo a ricevere dalla Università cui mi sono sottratto; aggiungerò che negli anni della mia docenza ho sviluppato alcuni accessori professorali, che vanno dagli occhiali, ad una impettita benevolenza, il vestito tra approssimativo e afflitto, una solerzia un po' sospetta, infine l'acuto fastidio per Il vecchio marinaio di Coleridge, sul quale ho esaminato intimiditi o insorti candidati, che, spero, si occuperanno di giovani figli e devoti coniugi, e non del “tipo di mare cu cui navigava il Vecchio Marinaio”. Divago; stavo in realtà dicendo che mi accade di ricevere lettere che non mi apostrofano né di dr. né di prof. Come mi chiamano costoro? Mi chiamano, senza scherno, ironia o beffa, “scrittore”. Aggiungerò che mi è accaduto di ricevere telefonate che cominciavano al quel modo: «Lei è lo scrittore?». Non erano telefonate scortesi, ma semplicemente denunciavano, da parte del telefonante, una ferma volontà di volere di volere il prodotto autentico, senza conservanti, senza additivi; è un atteggiamento da cliente probo, pronto a respingere, con educata fermezza, come nella pubblicità degli amari, un Manganelli dentista, miniaturista, bottinaio o trafficante in avorio, sebbene si tratti di lavori dignitosi e socialmente apprezzati. Il Cielo – che ha tanto da fare – cerchi di trovare il tempo per salvarmi dallo sgomento che mi dà quella definizione. Passi quando è scritta sulla busta, la si può ignorare: sebbene l'immaginazione mi terrorizzi, evocando il profilo di postini, impiegati, portieri, sotto i cui occhi onesti passa quel titolo esibizionista e impudico, oltre che assurdo. All'incirca come se, dopo il nome, scrivessero “zebra malinconica”; o “alchimista” o “spogliarellista a Miami” o “produttore di rossetti per pellicani”. Ma al telefono è un brutto momento: devi dire “sì” o “no” e non è mica da ridere; se dici “no” salvi l'anima, ma quel gentile signore andrà a cercarsi altri Manganelli, che forse lo redarguiranno con non immeritato sdegno. Ma come si fa a dire “sì”? È come dire: mi par di capire che a lei, per scopi che non sta a me indagare, serve un Ingegno, un Bel Talento, magari un Genio. Lei vuole un esperto di aggettivi, un giocolieri degli ossimori, un flautista della prosa. Lei vuole spiare nell'indice dei nomi e delle cose notevoli della letteratura italiana edita nel 2050. Non è così? Ecco: io sono l'articolo che lei chiede. Sono, appunto, uno scrittore. Vuole romanzi, epitalami, sonetti, note in calce? Le serve spedire una lettera di sfida che uccida con la sola insolenza degli aggettivi il suo analfabeta avversario? Deve fare una domanda al provveditorato agli studi, mescolando sottilmente la fredda marmorea prosa del burocrate con il pathos del derelitto e la dignità del ribelle? Lei ha in animo di fare una rivoluzione e le servono concetti ben detti, e slogans insieme eleganti e persuasivi? Si aspetta una condanna alla ghigliottina, e vuole imparare a memoria un discorso d'addio che cambi, insieme, il corso della storia, della vita privata, e della letteratura? Io sono qui per questo: fischi il motivo e scriverò per lei.
Ecco: non è facile rispondere un “sì” a quella domanda; forse la risposta giusta sarebbe: «Guardi che ha sbagliato numero. Io scrivo».
(«La Stampa», 19 marzo 1978.)


Più ti conosco e più mi meravigli

Qualche tempo fa, non molti mesi, mi son messo a rileggere dei libri che avevo conosciuto, frequentato, variamente letto. Si dice spesso che in Italia si legge poco, e forse non è più vero come una volta; certo, molto non si legge; ma quanto si rilegge, vorrei sapere? Una civiltà letteraria non è fatta di letture, è fatta di riletture; forse, semplicemente una civiltà. Ci sono generazioni che hanno conseguito una dignità duratura leggendo e rileggendo un solo libro, la Bibbia. Non leggevano altro, ma tanto bastava a farli individui colti, talora artisti, letterati, scrittori.
I Promessi sposi, la Divina Commedia sono stati libri perenni; come in altre letterature il Don Chisciotte, Guerra e pace, e, naturalmente, l'Iliade e l'Odissea. Non credo che per noi, soprattutto per chi fa professione di una qualche letterarietà, esista più il libro perenne. Se dovessi indicarne uno che per me si è avvicinato ad esser tale, indicherei le Operette morali di Leopardi.
Rileggere è una esperienza che non ha nulla a che fare con il leggere; leggiamo un libro che non conosciamo, può essere un classico che abbiamo ignorato – qualche volta arrivano da noi dei russi, dei polacchi, degli scandinavi che non abbiamo mai conosciuto –, può essere un giovane scrittore all'opera prima, o più raramente un inedito di un antico scrittore.
In ogni caso, leggeremo mossi da curiosità, interesse, magari una punta di disagio per la nostra scoperta ignoranza; saremo un po' come degli spettatori al cinema, vediamo cosa succede, come va a finire. Se, finito il film, usciamo e già sappiamo che quella esperienza è finita, vuol dire che non è successo nulla; molti libri, anche importanti, interessanti, entrano nella nostra vita e se ne vanno. Rileggerò Forse che sì forse che no? Appunto: mi ripeto il titolo. Ho un vago desiderio di rileggere le Memorie di un italiano di Nievo; da molti anni non le prendo in mano, ecco un libro che ho letto una sola volta.
Esiste una rilettura immediata, quella che è pressoché la regola per una recensione; è una rilettura interessante, perché non è distratta da preoccupazioni esteriori; che succederà ora, come va a finire, lo spiega o non lo spiega. Questa rilettura immediata rivela pieghe, implicazioni, allusioni che ad una prima lettura sfuggono; in verità, ad una prima lettura sfugge quasi tutto; suppongo che la maggior parte dei best-seller moderni non conoscano la rilettura: posso leggere con qualche divertimento un thriller La cruna dell'ago, ma l'idea di una rilettura immediata mi fa orrore; ma debbo riconoscere che ci sono libri gialli o di fantascienza che sanno farsi rileggere a distanza: mi è capitato con The Puppet Masters (Il terrore della sesta luna) di Heinlein, e con Mad Universe (Assurdo universo) di Fredric Brown. Cercavo di trovare certe emozioni, e qualche volta ci riuscivo.
Sto tuttavia pensando ad altre riletture. Recentemente ho riletto: la Giostra del Poliziano, il Morgante del Pulci, l'Orlando furioso dell'Ariosto, la Gerusalemme liberata e l'Aminta del Tasso. In nessun caso era la prima rilettura; forse la quarta o la quinta. Dunque, dovevo conoscerli, quei libri; eppure il sentimento dominante è stato di sorpresa, di curiosità, di scoperta dell'inatteso. Scoprivo la specifica melodia dell'ottava del Poliziano, che sembra alludere profeticamente all'Ariosto, mentre affatto se ne discosta il Pulci, che ha qualcosa del Dante incanaglito (i sonetti con Forese Donati?); ho goduto incredibilmente il puro gioco labirintico dell'Ariosto, libro dalle infinite ambagi, impossibile ricordarlo in tutti i suoi anfratti. Ed ecco la Gerusalemme liberata, non ricordavo, non sapevo che fosse un libro così palesemente tormentato e tormentoso, ed ecco che poi mi accorgo di altro che avrei dovuto sapere, l'aggettivazione del Tasso è del tutto diversa da quella dell'Ariosto, tanto quest'ultimo è in genere pacato e funzionale, tanto il Tasso è drammatico, ingegnoso, prezioso. L'Aminta la so quasi a memoria, ma quando la rileggo mi dimentico di conoscerla, ritorno un primo lettore, restando insieme il rilettore, colui che, camminando per casa propria, la scopre di una inedita meraviglia, come se l'avesse trascurata. E invero, chi legge una volta, trascura.
Il rileggere è questa alleanza discorde: insieme ritrovare, riconoscere e scoprire; trovare ciò che la lettura precedente, o anche più letture, non ci aveva rilevato. Il libro riletto ci offre qualcosa che nessuna lettura, per quanto accurata, poteva darci. La prima lettura può anche essere un innamoramento; ma esistono delizie di amorosità mentale che si abbandonano solo dopo anni di solidarietà, di complicità. Ecco, forse, come accade, sono inciampato sulla parola giusta; ci sono libri che esigono complicità, una attenzione maliziosa e un po' disonesta, nel senso che non deve esitare a coscientemente fraintendere, o lasciarsi illudere da un gioco astuto, un poco in malafede. Un'altra parola che mi piace: esiste una malafede, un gioco dentro un gioco, una allucinazione, addirittura una moneta fuori corso, o falsa, secondo le nostre ubbie monetarie, con cui acquistare una pietra rara, forse inesistente; nel cuore del grande libro sta il nulla più prezioso, irrepetibile. Per accedere a quel nucleo fatale, inafferrabile, in bilico squisito tra esistere non esistere, occorre rileggere, camminare per strade che crediamo di conoscere, aggirarsi per anfratti che ci illudiamo di conoscere a memoria, scrutare ciò che abbiamo guardato, guardare ciò che abbiamo scrutato, essere superficiali dove abbiamo osato essere profondi, cercare nella superficie quella profondità che abbiamo creduto di trovare altrove.
Mi accorgo di non aver nominato un libro che più di tutti mi pare sia così insieme segreto ed esplicito, forse quello che più spesso ho letto, riletto e spero rileggerò: un libro ovvio e segreto, l'inesauribile Pinocchio.
(«Il Messaggero», 21 aprile 1990.)



Breve profilo autobiografico

Giorgio Manganelli, nato a Milano nel 1922, risiede - sebbene non si possa dire che viva - a Roma. Dal punto di vista sindacale è stato professore ed è giornalista e autore iscritto alla SIAE. Ha scritto saggi e pseudoracconti di cui non mena alcun vanto; di tutto il suo opus, è vanitoso, spesso in modo intollerabile, unicamente dei suoi corsivi; talora li legge da solo, e ride. 
(Giorgio Manganelli, 1922-1990)