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L’ordine del terrore - Wolfgang Sofsky




lunedì 25 gennaio 2010 leggono Giulia Armao, Carlo Alberto Pacilio, Sara Parenti e Vittorio Tovoli   
Un percorso all’interno del campo di sterminio attraverso le voci di chi l’ha vissuto; la ricostruzione delle regole, delle abitudini, dei linguaggi e delle violenze che il potere assoluto utilizzava per disintegrare l’umanità dell’individuo; la trasformazione dell’esistenza in un perenne presente in cui il lavoro è tortura, la vita confina con la morte, la percezione dello spazio e del tempo è piegata all’ordine del terrore. 
Una lettura non solo per commemorare, ma anche per analizzare uno dei prodotti più terrificanti della storia dell’umanità.


Wolfgang Sofsky, L’ordine del terrore, Laterza 2004, Traduzione a cura di N. Antonacci con la collaborazione di F. S. Nisio.

Le guerre si combattono altrove, le grandi calamità sono riservate agli altri. La nostra vita rifugge dagli estremi. Eppure, uno degli insegnamenti del nostro recente passato è appunto che non esiste rottura tra estremi e centro, bensì una serie di impercettibili transizioni. Se nel 1933 Hitler avesse proclamato ai tedeschi che dieci anni dopo avrebbe sterminato tutti gli ebrei d’Europa, non avrebbe mai vinto le elezioni, come invece accadde. Ogni concessione accettata da una popolazione assolutamente non estremista è di per sé insignificante; prese insieme, portano all’orrore.(1)

Nero latte dell'alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell'aria chi vi giace non sta stretto.
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d'oro Margarete.
egli scrive
egli s'erge sulla porta e le stelle lampeggiano egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare.
Negro latte dell'alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al mattino come al meriggio ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo.
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d'oro.
Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba
nell'aria chi vi giace non sta stretto
Egli grida puntate più fondo nel cuor della terra e voialtri cantate e suonate
egli trae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate
perché si deve ballare.
Negro latte dell'alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi.
Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Mastro di Germania
grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell'aria
così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto.
Negro latte dell'alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Mastro di Germania
noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un Mastro di Germania il suo occhio è azzurro
egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell'aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Mastro di Germania.
I tuoi capelli d'oro Margarete,
i tuoi capelli di cenere Sulamith.
Paul Celan(2)

Dietro il filo spinato iniziava un altro mondo, anch’esso dotato di una struttura spaziale peculiare, più simile al reticolato geometrico dei vecchi accampamenti militari che al modello delle caserme moderne. Per meglio suddividere i settori, le SS svilupparono come ulteriore tecnica di controllo il sistema a scacchiera. La divisione in settori garantiva la separazione delle funzioni e dei gruppi ma non l’ordine al suo interno. Questo era un problema perché lo spazio limitato del lager doveva essere controllato e utilizzato al meglio, migliaia di individui dovevano essere smistati senza creare confusione, i nuovi arrivati essere alloggiati senza sprechi, tutti i movimenti coordinati nel dettaglio. Cosa si fece allora? Si delimitarono dei rettangoli di eguale misura, tagliati al centro da una strada e attraversati nel lato destro da vie secondarie. In tal modo venne creata una rete composta da tanti piccoli rettangoli, ognuno dei quali conteneva un blocco, senza lasciare spazio a luoghi di riunione o spiazzi aperti. Ogni blocco era dotato di un numero, del suo personale e di guardia e del suo mobilio. Tutti i blocchi erano uguali, e assieme formavano un abitato uniforme fatto per accogliere una popolazione umana massificata e ordinata in serie. Ma mentre nelle normali prigioni vige il principio dell’isolamento, nel campo di concentramento vige il principio della massa addensata e segmentata. I reclusi vengono sorvegliati come un corpo unico e compatto e tuttavia gli aguzzini cercavano in ogni modo di scongiurare la formazione di gruppi e gli affollamenti. Questo obbiettivo non era raggiunto sparpagliando gli individui, ma al contrario ammassandoli gli uni agli altri, fino al punto di abolire quasi del tutto lo spazio di movimento del singolo. La struttura massificata dei blocchi riduceva a zero la libertà di movimento individuale attraverso il sovraffollamento. Nella cella è il senso di solitudine che piega il detenuto, mentre nel campo di concentramento il recluso viene soffocato dalla mancanza di spazio e dalla presenza continua degli altri. Lo spazio poteva essere riempito fino all’ultimo centimetro evitando curve, archi e angoli morti.
Infine il sistema a scacchiera facilitava l’espansione regolare della superficie del lager: bastava prolungare la strada principale e le vie secondarie e proseguire la numerazione. Perciò in teoria, qualora non si presentassero ostacoli fisici insormontabili, il sistema dei campi rettangolari era estensibile all’infinito.

Siamo separati dal filo spinato. Sembra che i tedeschi abbiano per il filo spinato una passione tutta particolare. Dovunque si vada o si stia c’è filo spinato. E non solo: la qualità è della migliore, non c’è ombra di ruggine. Le spine sono lunghe e fitte. Filo spinato in orizzontale e filo spinato in verticale!
Jean Amery

Il potere assoluto addensa gli spazi e priva la persona umana dei suoi territori vitali. L’addensamento degli spazi aveva un riflesso immediato sui rapporti che i prigionieri stabilivano con altri e con se stessi. Quella della baracca era una comunità nella quale nessuno aveva la possibilità di scegliersi il proprio compagno di letto. La densità fisica non basta da sola a determinare il senso dell’oppressione, i suoi effetti devono essere rafforzati da rapporti sociali che si creano nello spazio dato: negli aggregati di massa anonimi e seriali le tendenze discordanti cominciano a esasperarsi già in situazioni di scarsa densità. La cancellazione dei territori individuali, l’abolizione delle norme sulla distanza e la preclusione di ogni via d’uscita, provocano l’esasperazione dei comportamenti di “rivendicazione territoriale: lo spaizo intimo cessa di esistere. Quanto più densamente gli individui si trovano ammassati, tanto più cresce l’aggressività reciproca e si inasprisce la lotta per ottenere la distanza dall’altro. Come se non bastasse, l’addensamento fisico deforma le basi del contatto sociale. I sensi a distanza, l’udito e la vista perodno importanza a vantaggio del tatto, dell’olfatto e della percezione caldo/freddo. I territori dell’Io erano costantemente minacciati e così gli spazi di movimento e di fruizione e persino gli involucri protettivi rappresentati dai vestiti e dalla pelle. Continui erano le violazioni e gli attacchi all’intimità degli individui, provocati sia dal rumore, dall’invadenza, dai furti sia dalla semplice mancanza di spazio. Il senso del pudore veniva meno del tutto. Gli individui erano incarcerati in una cella fatta di corpi umani e così la presenza degli altri schiacciava l’Io. Ognuno stava per sé, confuso nella massa, impossibilitato a protestare, ad allontanarsi, a muoversi, e l’unica via d’uscita era rappresentata dal sonno. In nessun altro caso la solitudine del singolo è più assoluta di quanto non accada dentro una massa pressata e atomizzata nella quale ognuno cerca di sottrarre posto all’altro. La regolamentazione dello spazio è una delle tecniche privilegiate del potere assoluto, perché mediante essa si può fare a meno del ricorso continuo alla forza.
L’annientamento dell’essere umano iniziava con questo modello di organizzazione fisica.

Non so chi sia il mio vicino; non sono neppure sicuro che sia sempre la stessa persona, perché non l’ho mai visto in viso se non per qualche attimo nel tumulto della sveglia, in modo che molto meglio del suo viso conosco il suo dorso e i suoi piedi. Non lavora nel mio commando e viene in cuccetta solo al momento del silenzio; si avvolta nella coperta, mi spinge da parte con un colpo alle anche ossute, mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena contro schiena, io mi adopero per conquistarmi una superficie ragionevole di pagliericcio; esercito colle reni una pressione progressiva contro le sue reni, poi mi rigiro e provo a spingere con le ginocchia, gli prendo le caviglie e cerco di sistemarlo un po’ più in là in modo da non avere i suoi piedi accanto al mio viso: ma tutto è inutile, è molto più pesante di me e sembra pietrificato dal sonno.
Primo Levi

La mancanza di privacy durante l’atto della defecazione era e restava un’autentica sofferenza. I WC, quando esistevano (con il nome di ritirata), non erano altro che cessi comuni perennemente occupati, durante le pause del lavoro, da quattro, otto o anche dodici persone, tutte con i pantaloni abbassati, spesso due sulla stessa tazza. A volte però, non c’era nemmeno questa ritirata. Così ci si doveva accontentare di una semplice fossa attraversata da una tavola di legno appoggiata in senso orizzontale sui due bordi estremi della buca e – che lusso!- di una tettoia che copriva il tutto. Allora risuonava una specie di concerto all’aria aperta, eseguiro da dieci, quindici, venti uomini seduti l’uno accanto all’altro sulla stanga come rondini sul filo del telefono. E anche in questi casi il terreno fangoso su cui si apriva la fossa era teatro di risse violente, come quando sopraggiungeva qualcuno di corsa tenendosi lo stomaco con le mani e cominciando a spingere per farsi largo sulla tavola, perché ormai non riusciva più a trattenersi. In tali frangenti la nostra umiliazione non conosceva limiti.
Floris B. Bakels

Le tecniche di controllo spaziale distribuiscono i corpi e dirigono i movimenti, mentre il controllo dei tempi costringe l’azione entro fasi concatenate e reiterate, trasformando il tempo sociale in tempo standard dell’organizzazione, obbiettivo e imposto, e tuttavia suscettibile di essere allungato, rallentato o accelerato ad arbitrio del potere. Il tempo nel lager penetrava nel senso temporanee degli esseri umani e rompeva il nesso interiore tra ricordo, aspettativa e speranza. Il potere assoluto non si accontenta di sincronizzare e coordinare i tempi, m distrugge la continuità del tempo interiore, spezzando il collegamento fra passato e futuro e rinchiudendo gli individui in un eterno presente. Da un lato la regolamentazione rigida del tempo si rivela una tecnica di controllo efficacissima, dall’altra però condiziona il regime concentrazionario e limita la sua sovranità. Forzandosi in una griglia temporale troppo rigida, il terrore rischierebbe di autodistruggersi, perché le sue aggressioni sarebbero prevedibili e le vittime potrebbero prendere le necessarie contromisure. Nei campi di concentramento invece il terrore oscillava fra disordine e pianificazione, fra interventi arbitrari e regolamenti prestabiliti. Esso creava un ordinamento temporale capace di assicurare un minimo di organizzazione, ma in questa griglia erano inserite fasi di accelerazione e rallentamento da gestire a seconda dei casi. La legge stabilita dal potere non si fonda sulla prevedibilità, ma sulla libera variazione dei ritmi, sull’alternanza fra durata e istantaneità, fra fretta concitata e attesa senza fine, fra quiete e shock improvvisi. Il potere si garantiva il dominio del tempo sottraendo ai prigionieri la possibilità di concepire piani d’azione a lunga scadenza.
Il tempo del lager non era un tempo evolutivo. Era un tempo scandito dal lavoro. La giornata lavorativa sembrava non finire mai. Nessun prigioniero portava l’orologio e così soltanto le guardie sapevano quanto tempo era trascorso e quanto restava. Oltre che alle scansioni collegate alla misurazione del tempo, molte mansioni risultavano prive anche di uno scopo visibile. In tal modo l’agire si trasformava in un’attività continua senza un fine sensato. Scavare una lunga fossa, spianare un mucchio di pietre o trascinare in salita un carrello da miniera erano lavori che non davano la possibilità di dividere il tempo in fasi intermedie. L’unico rimedio era costruirsi nella propria testa un sistema di riferimento ma misura esterna e tempo interno potevano essere continuamente interrotti da momenti di pericolo mortale. Il tempo del lavoro era, infatti, sempre un tempo di terrore, all’interno del quale erano possibili ovunque e in qualsiasi momento violenze, maltrattamenti e incidenti provocati con dolo. Questo tempo del terrore non conosceva né un prima né un dopo, ma solo presenza assoluta, e divide il tempo in un adesso e in un non adesso. In questa situazione domina un tema esclusivo: il pericolo della morte. La giornata era scandita dall’appello, momento culmine della giornata. I detenuti durante l’appello formavano un’entità collettiva senza coesione interna e l’appello serale aveva proprio lo scopo di inscenare questo contrasto fra la massa impotente e la sovranità assoluta. I prigionieri erano molte migliaia e le guardie poche decine, ma nessuno pensava a ribellarsi. Diversamente da altri appelli quello serale non aveva un limite di durata, e ogni suo minuto in più significava per i prigionieri meno tempo a disposizione per la cena, il riposo e il sonno. La domenica pomeriggio era libera dal lavoro, cosa che consentiva ai prigionieri di prendere atto che la settimana era giunta al termine. La ripetizione regolare delle fasi dei giorni imprimeva al tempo un andamento circolare, che scorreva in parallelo con il movimento ciclico delle forme di aggregazione sociale che caratterizzavano la vita del lager. Il futuro poteva dirsi concluso come il passato, in un tempo senza inizio e senza la prospettiva di una fine, in cui tutte le differenze tendevano ad appiattirsi a vista d’occhio costringendo i prigionieri del lager a vivere in un eterno presente fatto di incertezze e di terrore.

Anche oggi, anche questo oggi che stamattina pareva invincibile ed eterno, l’abbiamo perforato attraverso i suoi minuti; adesso giace concluso ed è subito dimenticato, già non è più un giorno, non ha lasciato traccia nella memoria di nessuno. Lo sappiamo che domani sarà come oggi: forse pioverà un po’ di più o un po’ di meno, o forse invece di scavare terra andremo al Carburo a scaricare mattoni. O domani può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi o trasferiti in un altro campo. Ma chi potrebbe seriamente pensare a domani?
Primo Levi

Un periodo di tempo breve come il giorno, riempito ogni ora dalle più svariate forme di vessazione, sembrava diventare eterno; un periodo più lungo come una settimana, con le sue sofferenze quotidiane, sembrava invece trascorrere in un baleno. E i miei compagni mi davano sempre ragione quando dicevo che nel lager un giorno dura più di una settimana!
Victor Frankl

A Buchenwald l’appello costringeva ad un’attesa di ore. In piedi c’erano migliaia di persone. ‘Arriva!Arriva!’ Egli è ancora lontano. Adesso bisogna soltanto annullarsi, non essere nient’altro che questa massa. ‘Arriva!’ Non c’è ancora ma è come se si spostasse l’aria, la rendesse più rarefatta e creasse una corrente a distanza. Ci sono soltanto le migliaia e nessun altro, soltanto i quadrati dei plotoni in cui si articola la massa. E’ arrivato ma non si vede ancora. Alla fine compare. Solo. Un volto insignificante, un uomo insignificante, ma un uomo delle SS, l’uomo delle SS. Gli occhi guardano la faccia di un uomo qualunque. Ma egli è l’uomo. Il Dio con l’aspetto di un cervo dalle corna a dodici palchi. Chiama all’appello le migliaia urlando.Poi se ne va. Vuoto. Non c’è più. Il mondo si popola nuovamente.
Robert Antelme

Il controllo del tempo sociale è soltanto una tappa del cammino che conduce alla completa sopraffazione degli individui. Il potere assoluto non cerca solo di controllare il tempo ma cerca anche di deformare o cancellare qualsiasi dimensione interiore del tempo, che è quella dell’azione, della mente, dell’anima. Il potere assoluto invade il senso pratico e mentale del sé, penetra nel tempo biologico delle persone, cancella il ricordo e impedisce di elaborare progetti per azioni future. Il suo punto di arrivo è la distruzione della personalità. L’inizio della prigionia era accompagnato da una prima esperienza sconvolgente. Al loro arrivo i deportati venivano sottoposti ad una procedura di accoglienza che li spogliava in un colpo solo di tutto il loro passato. Il nuovo arrivato doveva compiere un rito di passaggio che segnasse la separazione violenta dalla sua vita passata e lo trasformasse in un membro vero e proprio della società del lager. Dopo di ciò il prigioniero non sarebbe stato solo diverso, sarebbe stato un’altra cosa. Normalmente i riti di passaggio si compongono di tre fasi. Prima ci sono delle pratiche di separazione che allontanano l’individuo dal suo mondo abituale e successivamente lo sospingono in uno stato di sospensione caratterizzato dalla sottomissione e dal silenzio, dalla privazione dei beni, della sessualità, dall’anonimato e dall’assenza di uno status sociale. Infine seguono delle cerimonie di integrazione, mediante le quali l’oggetto del rito viene accolto nel nuovo mondo e nel nuovo gruppo. La cermonia d’iniziazione dei detenuti non comportava né un mutamento né un capovolgimento temporaneo del loro status sociale, piuttosto una degradazione continua, una trasformazione radicale della loro esistenza personale e sociale. L’iniziazione iniziava quindi con la fame e la sete e le percosse già durante la deportazione verso il lager, mentre alcuni dei prigionieri venivano torturati fin dal momento dell’arresto o nel corso degli interrogatori. Dopo l’arrivo i novizi erano lasciati per qualche tempo in un’attesa carica d’incertezza, fino a quando il comitato di accoglienza non si degnava di entrare in azione. I nuovi arrivati venivano percossi e insultati. Già prima del rito i prigionieri dovevano rendersi conto della loro totale impotenza. Il primo atto di violenza subìto, il primo colpo ricevuto facevano crollare in essi l’assunzione di fondo dell’invulnerabilità del proprio corpo e la speranza di trovare un aiuto nel momento del bisogno. Cancellando queste certezze basilari dell’esistenza quotidiana, la violenza compiva il primo passo per la trasformazione degli esseri umani in oggetti di iniziazione. Dopo il primo shock seguivano una serie di attacchi diretti alla dignità individuale. I prigionieri dovevano spogliarsi e consegnare tutti i loro effetti personali. La perdita aveva un valore materiale e simbolico, al prigioniero veniva sottratto non solo ciò che gli apparteneva ma anche ciò che faceva parte di lui. Poi venivano lasciati nudi ad aspettare. Dal barbiere aveva inizio la metamorfosi fisica degli iniziati: agli uomini venivano rasati i capelli e tutti i peli del corpo, e le parti rasate venivano passate con delle spatole sporche intinte nel disinfettante. Così si rendevano i novizi tutti uguali, privati di qualsiasi segno di individualità. Dopo la mutilazione simbolica e la spoliazione fisica, la distribuzione del vestiario in dotazione al lager segnava l’inizio della fase dell’inserimento dei novizi nella nuova società dei reclusi. La fase conclusiva dell’iniziazione, cioè la registrazione d’ufficio sotto la sigla di un numero, provava i novizi dell’ultimo barlume d’individualità residuo, il nome.

Ci misero in fila per farci tatuare i numeri di matricola. Alcuni svenivano, altri continuavano ad urlare. Alla fine giunse il mio turno. Sapevo che questo dolore sarebbe sato insignificante a confronto delle sofferenze che ci aspettavano. Una detenuta del reparto politico con un numero di matricola basso e con un triangolo rosso senza P ( quindi di nazionalità tedesca) mi prese la mano e cominciò a incidere il numero successivo della sua lista: 55.908. Mi sembrò di sentire la puntura non sul braccio, ma dritta la cuore. Da quel momento avevo cessato di essere un uomo. Smisi di pensare, di provare sentimenti. Non avevo né nome né indirizzo. Ero il prigioniero numero 55.908. E nello stesso momento quella puntura mi portò via un pezzo di vita.
Krystyna Zywulska

Da un discorso tenuto da un comandante delle SS:
“Voi siete in un campo di concentramento tedesco. Siete entrati dalla porta principale, su cui c’è scritto Il lavoro rende liberi. Qui c’è una sola via d’uscita, il camino dei forni crematori. Per noi tutti voi non siete uomini, ma soltanto un mucchio di spazzatura. Vi puniremo come si deve, e di questo vi convincerete voi stessi fra poco. Per nemici del terzo reich della vostra fatta come voi siete, noi tedeschi non avremmo alcuna compassione, ed è con vero piacere che vi metteremo tutti a cuocere nei forni crematori. Dimenticate le vostre famiglie, i vostri figli, le vostri mogli. Qui creperete come cani!”

Dopo lo shock dell’iniziazione, i prigionieri avevano pochissimo tempo per abituarsi al regime di vita del lager. Se il tempo dell’organizzazione non era un tempo evolutivo, meno ancora il tempo dei prigionieri si configurava come un tempo di adattamento e apprendimento. L’onnipresenza del terrore richiedeva prontezza di spirito sin dall’inizio e ciò spiega la convinzione diffusa tra i prigionieri secondo cui chi riusciva a sopravvivere per i primi tre giorni, aveva la possibilità di arrivare a fine mese; chi riusciva a sopravvivere per le prime tre settimane poteva sperare di farcela per un anno e chi, infine la scampava nei primi tre mesi aveva grosse probabilità di sopravviere per altri tre anni. Il presupposto principale per salvarsi era dunque la capacità di lasciarsi alle spalle tutte quelle convinzioni, esperienze e pretese della vita passata e che potevano essere ostacolo ai fini della sopravvivenza. La deformazione della percezione interiore del tempo era il prodotto del reciproco gioco al rialzo che si instaurava fra terrore, reazioni di difesa e manovre protettive. Così la destrutturazione del tempo personale non fu soltanto una conseguenza delle condizioni esterne della vita dei prigionieri, ma l’effetto di diverse strategie mentali e sociali di sopravvivenza.
La prima caratteristica temporale della vita carceraria nel lager era la durata indefinita della detenzione. La vita nel campo di concentramento diventava così un’esistenza provvisoria dalla durata indefinita. La caduta di ogni prospettiva di libertà, che altro non significava se non la perdita del futuro, portava i prigionieri a vivere nell’incertezza persistente. La caduta di un orizzonte futuro comportava la fine dell’orientamento teleologico dei progetti di vita personali e del carattere progettuale dell’esistenza umana, trasformata in qualcosa di precario e continuamente revocabile.
La seconda caratteristica temporale era data dall’onnipresenza della morte. Nel lager la morte assumeva innumerevoli volti ma era il regime del terrore a trasformarla da destino naturale e a destino sociale. Infatti se normalmente la morte è un processo naturale inarrestabile, implacabile e da accettare con rassegnazione, una volta divenuta effetto tangibile dell’arbitrio del potere suscitava l’impressione di procedere per fortuità e eccezioni. Tuttavia il potere assoluto funziona in modo tale da far apparire i rapporti speciali alla stregua di processi della natura, rompendo quella cornice di riferimento primaria che permette di distinguere gli eventi naturali da quelli artificiali. Il potere assoluto è una sorta di forza del destino che usa come strumenti l’aggressione e la sorpresa annullando ogni aspettativa. Il terrore riduce il campo di esperienza degli esseri umani alla breve durata dell’istante. Ed è questo il primato assoluto del presente. Dell’hic et nunc, la terza caratteristica temporale dell’esistenza nei lager. La perdita del futuro distrugge le basi dell’azione, il terrore vanifica la possibilità di elaborare piani preventivi e di fare riferimento a circostanze stabili, la vittima non è in grado né di agire autonomamente, né di prevedere gli effetti del suo comportamento. I prigionieri dovevano abituarsi alla presenza della morte e l’unico modo per difendersi da questa era di accettarla. Nel lager vigeva la parola d’ordine non solo di non farsi notare ma anche di notare il meno possibile, perché vedere troppo era pericoloso. Questa indifferenza forzata obbediva a una logica di autodifesa emotiva, poiché percepire con troppa consapevolezza la morte altrui avrebbe messo a repentaglio la propria volontà di sopravvivenza. Invece nel lager solo chi riusciva a ignorare l’orrore riusciva a sottrarsi ad esso, solo chi si corazzava nei confronti dell’esterno e guardava senza emozione i cadaveri degli altri poteva salvarsi dal crollo psicologico. Chi non riusciva a distanziarsi, diventava prigioniero del lager non solo fisicamente ma anche mentalmente, mentre chi cercava di chiudere gli occhi sul presente e di rifugiarsi in un’altra dimensione temporale si distanziava dall’orrore ma perdeva la capacità di cavarsela nelle questione quotidiane. Ritornare con il ricordo alla patria, agli anni della scuola od ad altre avventure degli anni trascorsi era un modo per evadere dal presente e per conservare per qualche tempo ancora la finzione della continuità biografica. Tuttavia spesso i racconti sul passato venivano interrotti bruscamente dagli altri prigionieri. Infatti per salvarsi dall’avvilimento e dalla depressione bisognava assolutamente difendersi dal passato e così il lager finiva col trasformarsi in una sorta di sistema dell’oblio.

La comunità dei detenuti era così fortemente permeata dall’atmosfera di morte e di sterminio che dopo due o tre mesi di permanenza nel lager il prigioniero si era perfettamente adattato a essa e si era abituato a fare quotidianamente i conti con la morte .Quest’atmosfera aveva anche un riflesso nel gergo usato dai prigionieri nel quale la fine dei compagni veniva indicata con espressioni ciniche come ‘se lo sono portato’ ‘lo hanno steso’ ‘lo hanno fatto fuori’ ‘gli hanno fatto la puntura’ ‘è volato via dalla ciminiera’ ‘il collega della squadra-paradiso vi aspetta già’.
S. Klodzinski

Col passare del tempo cominciai ad abituarmi alla morte. Nel lager la morte era un evento quotidiano , a meno che non riguardasse qualcuno ce mi era vicino, non mi faceva più una grande impressione. Forse questa reazione era una specie di difesa istintiva che mi salvava dal crollo spirituale.

Il campo di concentramento fa parte della storia della società moderna. Nei campi di battaglia della guerra di massa fu sperimentata la forza distruttiva della tecnica moderna, mentre nei mattatoio dei lager nazisti fece le sue prove la potenza annientatrice delle forme moderne di organizzazione. La modernità ha liberato gli uomini dal dominio esercitato da forze lontane e incomprensibili, ma allo stesso tempo ha messo nelle loro mani strumenti di morte dalla potenza incalcolabile. Nato al principio del XX secolo, il terrore organizzato raggiunse nei lager tedeschi la sua massima espressione, superando nel suo impatto antropologico perfino gli orrori della guerra contemporanea. Infatti, mentre con l’aiuto della tecnica degli armamenti il genere umano può ora autodistruggersi in un colpo solo, attraverso l’organizzazione del terrore esso è in grado di annientare alla radice l’essenza stessa dell’umanità. Il potere assoluto lacera l’unità fisica dell’essere umano, devasta la sua anima e la sua psiche, annienta la sua capacità d’azione, consuma completamente la sua energia vitale. Prima di procedere allo sterminio “industriale” delle sue vittime esso consegue la trasformazione radicale della natura umana la riduzione dell’uomo a semplice “materiale” e la costruzione di un essere umano annichilito, a metà tra la vita e la morte rappresentano iln suo trionfo più grande. A differenza di tutte le forme precedenti di potere, il terrore assoluto non produce nulla, perché il suo è un agire soltanto negativo, un’opera di distruzione che non lascia traccia. Esso realizza la sua libertà nell’annientamento completo degli esseri umani.

ENIGMA Da Bergen una cassa di denti d’oro,
Da Dachau una montagna di scarpe,
Da Auschwitz una lampada in pelle.
Chi ha ucciso gli ebrei?
Non io, esclama la dattilografa,
Non io, esclama l’ingegnere,
Non io, esclama Adolf Eichmann,
Non io, esclama Albert Speer.
Il mio amico Fritz Nova ha perduto il padre,
un sottufficiale dovette scegliere.
Il mio amico Lou Abrahms ha perduto il fratello.
Chi ha ucciso gli ebrei?
David Nova ingoiò il gas,
Hyman Abrahms fu picchiato e ucciso dalla fame.
Certi firmavano le carte,
e certuni stavano di guardia,
e certi li spingevano dentro,
e certuni versavano i cristalli
e certi spargevano le ceneri,
e certuni lavavano le pareti,
e certi seminavano il grano,
e certuni colavano l’acciaio,
e certi sgomberavano i binari,
e certuni allevavano il bestiame.
Certi sentirono l’odore del fumo,
certuni ne udirono solo parlare.
Erano tedeschi? Erano nazisti?
Erano uomini? Chi ha ucciso gli ebrei?
Le stelle ricorderanno l’oro,
il sole ricorderà le scarpe,
la luna ricorderà la pelle.
Ma chi ha ucciso gli ebrei?
William Heyen

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Note
1) Tratto da Olocasto/Olocausti Lo sterminio e la memoria a cura di Francesco Soverina. Edizioni Odradek anno2003
2) Tratto da Todesfuge/Fuga dalla morte di Paul Celan, in Id. Poesie
3) Tratto dalla mostra La Shoah e la memoria di Federico Bario e Marilinda Rocca, in collaborazione con il Museo Statale di Auschwitz-Birkenau