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Della tirannide - Vittorio Alfieri





lunedì 08 febbraio 2010 legge Carlo Varotti
Spesso liquidato come testo teoricamente debole, il trattato Della tirannide (1777) di Vittorio Alfieri può invece offrire al lettore contemporaneo non pochi spunti di riflessione.
Se il secondo, brevissimo, libro del trattato può effettivamente sembrare una sorta di appendice dell’universo tragico alfieriano (quasi una puntualizzazione di caratteri e situazioni tragediabili, in cui la dimensione politica sembra chiudersi nell’atmosfera rarefatta di un palcoscenico); è invece il primo libro in cui, sulla base di una lettura attenta del pensiero di Montesquieu e dell’Illuminismo, si innesta una riflessione non priva di originalità. Alfieri identifica la ‘tirannide’ con ogni forma di potere non rigorosamente limitato dalla legge e da contrappesi costituzionali (in una polemica che ha come oggetto primario quel “dispotismo illuminato” pur caro ai maestri francesi). Ma lo scrittore non si sofferma solo sui fondamenti materiali del dispotismo (come l’esercito o le forme dell’esecutivo), ma anche – e sono le pagine più suggestive - sui meccanismi antropologici, psicologici e sociali che producono consenso verso il ‘tiranno’ e contraddicono l’esercizio attivo della libertà; nonché sui processi di lungo periodo che plasmano la coscienza di un popolo e lo predispongono a un fermo e consapevole attaccamento alla libertà.

VITTORIO ALFIERI, DELLA TIRANNIDE Dal cap. 1 – COSA SIA IL TIRANNO

Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi nondimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior distinzione. Il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l'abbiano, una facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborevoli abbastanza. Il nome di re, all'incontro, essendo finora di qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che frenati dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data società che i primi e legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite leggi.

Dal cap. 5 – DELL’AMBIZIONE

Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e viziosa.
(…) Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui, mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico. E parimente risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e virtù. In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.
(…) Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa. Ed una tal verità è impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.
(…) Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui insopportabil virtù. Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti, non può allignare altra compagnia, se non se scellerata. Di questa verità tutti i secoli, e tutte le tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita. Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compatirne un sì grande. Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza. Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la esercita. Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Già prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi. Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo. Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori. E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li riceve.

Dal cap. VIII – DELLA RELIGIONE

Quella qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da altri, circa alle cose che egli non intende, come sarebbero l'anima e la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo più uno dei saldissimi sostegni della tirannide. L'idea che dal volgo si ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che se ne potrebbe indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte, ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una idea, qual ch'ella si fosse, della divinità. Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi sempre si sono l'una l'altra ajutate.
La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo una quasi repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegj della corte celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero. La giudaica, e quindi la cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio, assoluto e terribile signor d'ogni cosa, doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide.
Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio come non mie; e proseguendo il mio tema, che della moderna tirannide in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le diverse religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su le nostre tirannidi.
La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero.
Addurrò ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi pare quasi impossibile che uno stato cattolico possa o farsi libero veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico.
Il culto delle immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti dogmatici, non saranno per certo mai quelli, che, creduti o no, verranno ad influire sopra il viver libero politico. Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI RELIGIOSI; sono queste le sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano la profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed infrangibile. E, dalla prima di queste sei cose incominciando, dico: Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido. Ma se, non lo credendo, egli viene per ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione d'uomini crederà nel papa, per timore; i figli, per abitudine; i nepoti, per stupidità. Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo, e stupidissimo.
(…)
Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il dirne ciò che a tutti è ben noto; che la certezza del perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla, riesce assai più di sprone che di freno ai delitti; e tante altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento manifestamente ogni giorno derivano. Io mi ristringo a dire soltanto; che un popolo che confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a Dio; un popolo, che fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno dei maggiori, ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo della tirannide, e di porsi nella naturale ma discreta libertà; un tal popolo non può esser libero, né merita d'esserlo.
(…)
Dalla indissolubilità del MATRIMONIO FATTOSI SACRAMENTO, ne risultano palpabilmente quei tanti politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli: e ciò tutto, perché quella sforzata indissolubilità non ristringe i legami domestici; ma bensì, col perpetuarli senza addolcirli, interamente li corrompe e dissolve.
E finalmente poi, siccome dall'essere i popoli cattolici sforzatamente perpetui conjugi, non sogliono esser essi fra loro né mariti veri, né mogli, né padri; così, dall'essere i preti cattolici sforzatamente PERPETUI CELIBI, non sogliono mostrarsi né fratelli, né figli, né cittadini; che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati, troppo importa il conoscere per esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e marito.
(…) Da queste fin qui addotte ragioni, mi pare che ne risulti chiaramente (oltre la maggior ragione di tutte, che sono i fatti) che un popolo cattolico già soggiogato dalla tirannide, difficilissimamente può farsi libero, e rimanersi veramente cattolico. E per addurne un solo esempio, che troppi addurne potrei, nella ribellione delle Fiandre, quelle provincie povere, che non avendo impinguati i lor preti si erano potute far eretiche, rimasero libere; le grasse e ridondanti di frati, di abati, e di vescovi, rimasero cattoliche e serve. Vediamo ora, se un popolo che già si ritrovi libero e cattolico, si possa lungamente mantener l'uno e l'altro.
Che un popolo soggiogato da tanti e sì fatti politici errori, quanti ne importa il viver cattolico, possa essere politicamente libero, ella è cosa certamente molto difficile: ma, dove pure ei lo fosse, io credo che il conservarsi tale, sia cosa impossibile. Un popolo, che crede nella infallibile e illimitata autorità del papa, è già interamente disposto a credere in un tiranno, che con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo persuaderà, o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo papa nelle religiose. Un popolo, che trema della Inquisizione, quanto più non dovrà egli tremare di quell'armi stesse che la Inquisizione avvalorano? Un popolo, che si confessa di cuore, può egli non essere sempre schiavo di chi può assolverlo o no? Dico di più; che dal ceto stesso dei sacerdoti, (ove un laico tiranno non vi fosse) ne insorgerebbe uno religioso ben tosto; o se da altra parte insorgesse un tiranno, lo approverebbero e seconderebbero i sacerdoti, sperandone il contraccambio da lui. Ed è cosa anche provata dai fatti; si veda perfino nelle semi-repubbliche italiane, i sacerdoti esservi saliti assai meno in ricchezza e in potenza, che nelle tirannidi espresse di un solo. Un popolo finalmente, che si spropria dell'aver suo, togliendolo a se stesso, a' suoi congiunti, e ai proprj suoi figli, per darlo ai sacerdoti celibi, diventerà coll'andar del tempo indubitabilmente così bisognoso e mendico, che egli sarà preda di chiunque lo vorrà conquistare, o far servo.
Non so se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa sacrosanta il politico impero, o se l'impero abbia ciò inventato in favore del sacerdozio. Questa reciproca e simulata idolatria, è certamente molto vetusta; e vediamo nell'antico testamento a vicenda sempre i re chiamar sacri i sacerdoti, e i sacerdoti i re; ma da nessuno mai dei due udiamo chiamare, o reputare mai sacri, gl'incontestabili naturali diritti di tutte le umane società. Il vero si è, che quasi tutti i popoli della terra sono stati, e sono (e saranno sempre, pur troppo!) tolti in mezzo da queste due classi di uomini, che sempre fra loro si sono andate vicendevolmente conoscendo inique, e che con tutto ciò si sono reciprocamente chiamate sacre: due classi, che dai popoli sono state spesso abborrite, alcuna volta svelate, e sempre pure adorate.
È il vero altresì, che in questo nostro secolo i presenti cattolici poco credono nel papa; che pochissimo potere ha la inquisizion religiosa; che si confessano soltanto gl'idioti; che non si comprano oramai le indulgenze, se non dai ladri religiosi e volgari: ma, al papa, alla Inquisizione, alla confessione, e all'elemosine purgatoriali, in questo secolo, fra i presenti cattolici, ampiamente supplisce la sola MILIZIA; e mi spiego. Il tiranno ottiene ora dal terrore che a tutti inspirano i suoi tanti e perpetui soldati, quello stesso effetto che egli per l'addietro otteneva dalla superstizione, e dalla totale ignoranza dei popoli. Poco gl'importa oramai che in Dio non si creda; basta al tiranno, che in lui solo si creda; e di questa nostra credenza, molto più vile e assai meno consolatoria per noi, glie n'entrano mallevadori continui gli eserciti suoi.
Vi sono nondimeno in Europa alcuni tiranni, che volendo con ipocrisia mascherare tutte l'opere loro, pigliano a sostenere le parti della religione, per farsi pii reputare, e per piacere al maggior numero che pur tuttora la rispetta, e la crede. Ogni savio tiranno, ed accorto, così dee pure operare; sia per non privarsi con una inutile incredulità di un così prezioso ramo dell'autorità assoluta, quale è l'ira dei preti amministrata da lui, e viceversa, la sua, amministrata da essi; sia perché usando altrimenti, potrebbe egli avvenirsi in un qualche fanatico di religione, il quale facesse le veci di un fanatico di libertà: e quelli sono e men rari e più assai incalzanti, che questi. E perché mai sono quelli men rari? attribuir ciò si dee all'essere il nome di religione in bocca di tutti; e in bocca di pochissimi, e in cuore quasi a nessuno, il nome di libertà.
Il più sublime dunque ed il più utile fanatismo, da cui veramente ne ridonderebbero degli uomini maggiori di quanti ve ne siano stati giammai, sarebbe pur quello, che creasse e propagasse una religione ed un Dio, che sotto gravissime pene presenti e future comandassero agli uomini di esser liberi. Ma, coloro che inspiravano il fanatismo negli altri, non erano per lo più mai fanatici essi stessi; e pur troppo a loro giovava d'inspirarlo per una religione ed un Dio, che agli uomini severamente comandassero di essere servi.