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Chi sono i barbari? Ciò che raccontano gli antichi - Ovidio, Erodoto,Livio,Tacito,Ammiano Marcellino



lunedì 26 ottobre 2009 legge  Sandro Degli Esposti   
Il termine "barbaro" presenta, fin dall'antichità, un'ampia gamma di significati, corrispondenti a una molteplicità di rapporti culturali e materiali (talora ispirati da ostilità, talora a viva curiosità) che intercorrono tra popolazioni diverse per usi, credenze, comportamenti.
L'incontro si propone di offrire una panoramica di tali atteggiamenti presso gli autori greci e latini, per rilevare al loro interno omogeneità e differenze, e per individuare in essi l'eventuale origine di scelte culturali riemergenti in epoche successive.


Ovidio - Tristia - trad. di R. Mazzanti, Garzanti, Milano, 1991.
V, 7
La lettera che leggi ti è giunta da quella terra,
dove l'ampio Istro va a unirsi alle acque del mare.
Se hai fortuna che la tua vita abbia la dolce salute,
si mantiene serena anche per una parte del mio destino.
Certo, mi chiedi come sempre, o carissimo, come va la mia
[vita,
sebbene lo puoi sapere anche se non te ne parlo:
sono infelicissimo – questa è la breve somma dei miei mali -
e lo sarà chiunque vive dopo aver offeso Cesare,
Hai desiderio di conoscere com'è la gente della regione
di Tomi e in mezzo a quali costumi io vivo?
Quantunque sia un miscuglio di Greci e di Geti,
questo lembo prende più dai Geti mal sottomessi;
un maggior numero di gente sarmatica e getica
va e viene sui cavalli lungo le strade.
Fra loro non vi è nessuno che porti la faretra
e l'arco, e le frecce livide di veleno di vipera.
Selvaggia è la voce, truce il volto, ritratto vivente di Marte;
non vi è chioma, non vi è barba che una mano abbia tagliata;
la loro destra non è tarda a ferire infliggendo un coltello che ogni barbaro porta attaccato al fianco.
Fra questa gente, ahimè, ora vive dimentico degli amori
cantanti, costoro vede, costoro ode, o amico, il tuo poeta!
E possa egli solamente vivere e non morire fra loro,
e la sua ombra almeno sia lontana dagli odiati luoghi!
Mi scrivi che i miei carmi vengono danzati in un teatro
gremito e che si applaude, o amico, ai miei versi:
in verità – e tu stesso lo sai – nulla io ho fatto per il teatro
e la mia Musa non ha l'ambizione di riscuotere applausi.
Tuttavia non mi è sgradito tutto ciò che impedisce il mio oblio
e che riporta sulle bocche il nome dell'esiliato.
Sebbene talvolta, ricordando il male che mi hanno fatto,
io maledico i miei carmi e le Pieridi,
quando li ho bene maledetti, non posso tuttavia stare
senza di loro e ricerco i dardi insanguinati dalle mie ferite,
e la nave greca che fu rotta poco fa dai flutti
dell'Eubea osa ripercorrere le acque cafàree.
E tuttavia non veglio per ottenere la gloria né mi curo
di eternare il nome, che era meglio fosse rimasto nell'ombra.
Tengo l'animo occupato negli studi e inganno i dolori
e mi adopero per non sentire il cruccio delle mie afflizioni.
Che altro di meglio potrei fare, solo in queste rive deserte;
o quale altro sollievo dovrei cercare ai miei mali?
Se guardo il luogo, il luogo è inamabile e tale
che in tutto il mondo niente vi può essere di più triste,
se guardo gli uomini, appena sono degni gli uomini
di questo nome e più feroci e selvaggi dei lupi:
non temono le leggi, ma la giustizia cede alla forza
e il diritto giace vinto sotto la spada bellicosa.
Con pelli e larghe brache si difendono dai freddi maligni
e gli orridi volti sono coperti dai lunghi capelli.
In pochi sopravvivono tracce della lingua greca;
anche questa già resa barbara dall'accento getico.
Non vi è uno fra questa gente che possa per caso
dire in latino una qualunque parola di uso comune.
Io, il noto poeta romano – perdonatemi o Muse! -
sono assai spesso costretto a parlare sarmantico.
E mi vergogno e lo confesso, per il lungo disuso
io stesso trovo a fatica le parole latine.
E non dubito che anche in questo libro ci siano non poche
voci barbariche: non colpa questa dell'uomo, ma del luogo.
Tuttavia perché io non perda l'uso della lingua ausonia,
e la mia voce non diventi muta nei suoni della patria,
parlo a me stesso e richiamo le parole non più usate,
e ritorno alle insegne funeste della mia passione.
In questo modo mi trascino l'animo e il tempo e mi distolgo
e mi allontano dalla contemplazione della mia sventura.
Nei carmi cerco l'oblio delle mie miserie:
se, così occupato, conseguo questo premio, mi basta.

Erodoto, Storie, trad. A. Mattioli, Milano, Rizzoli, 1958 (V secolo a.C.)
Molte altre follie Cambise commise contro Persiani e alleati, mentre era a Menfi. Scoperchiava inoltre gli antichi sepolcri e faceva frugare i cadaveri. Penetrò persino nel tempio di Efesto e molto rise della statua del dio, che è in tutto simile ai patàcoi o idoletti, che i Fenici pongono sulla prora delle loro triremi. Per chi non ne avesse mai visti, dirò che sembrano statuette di pigmei. Penetrò anche nel santuario dei Cabiri, al quale nessuno poteva accedere, salvo il sacerdote: Cambise, invece, non solo vi entrò, ma bruciò anche le immagini di quegli dei, dopo essersene fatto beffe. Anche quelle sono del genere del simulacro di Efesto, di cui si dice che i Cabiri siano i figli.
A mio parere non vi è dubbio alcuno che Cambise fosse pazzo, altrimenti non avrebbe osato ridere delle tradizioni e delle cose sacre. Se infatti a tutti gli uomini si proponesse di scegliere fra le costumanze di tutto il mondo, dopo averci riflettuto bene, ciascuno sceglierebbe quelle del proprio paese: a tal punto i popoli sono convinti che le loro siano le migliori. Non è dunque verosimile che altri, se non un pazzo, mette in ischerno cose del genere: che poi tutti gli uomini così pensino delle proprie costumanze, si può arguire da molti esempi e in particolare da questo: una volta Dario, quando era re, convocò i Greci che vivevano alla sua corte e domandò loro a qual prezzo avrebbero acconsentito a mangiare i cadaveri dei loro genitori; quelli dichiararono che per nulla al mondo l'avrebbero potuto fare. Allora Dario fece venire davanti a sé, presenti i Greci, quegli Egiziani, che sono chiamati Callati e che usano divorare i loro genitori morti e fece loro chiedere a mezzo degli interpreti per quale prezzo si sarebbero indotti a bruciare il cadavere del loro padre: e quelli a gran voce lo pregarono di non dire cose così sacrileghe. Tanta è la forza della consuetudine! Onde, a mio avviso, bene disse Pindaro che «la costumanza è regina del mondo»

Livio, Storia di Roma, vol III - trad. di L. Cardianali, Rizzoli, Milano, 1989.
XXXI, 29 – 31 L'assemblea degli Etoli, che chiamano panetolica, stava per aver luogo nella data fissata. Per esservi presenti, gli ambasciatori del re affrettarono la marcia, mentre, per parte sua, arrivava il legato Lucio Furio Purpurione, inviato dal console. Anche gli ambasciatori degli Ateniesi parteciparono a questa assemblea. Per primi furono ascoltati i Macedoni, con cui esisteva un recentissimo trattato di alleanza. Costoro dissero che, poiché non era accaduto nulla di nuovo, non avevano alcuna novità da riferire: gli Etoli pertanto dovevano, per quegli stessi motivi per i quali, sperimentata l'inutilità dell'alleanza con Roma, avevano stipulato la pace con Filippo, conservarla una volta conclusa. «Preferite forse» disse uno degli ambasciatori «imitare l'imprudenza o forse dovrei chiamarla mancanza di serietà dei Romani?. […] E' pazzia sperare che, se codesti uomini di razza diversa, separati da noi più dalla lingua, dai costumi e dalle leggi che dalla estensione del mare e delle terre, si impadroniranno di questo territorio, qualcosa resti della condizione attuale. Il dominio di Filippo sembra pregiudicare in parte la vostra libertà; costui, che vi era ostile per colpa vostra, non vi chiese altro che la pace e desidera oggi il rispetto della pace sancita. Avvezzate a queste terre le legioni straniere e accogliete su di voi il giogo: tardi e invano, quando avrete come padroni i Romani, cercherete l'alleanza con Filippo. Insignificanti motivi, determinati dalle varie circostanze, separano e uniscono Etoli, Acarnani e Macedoni, uomini che parlano la medesima lingua: con gli uomini di altre razze, con i barbari c'è e ci sarà per tutti i Greci eterna guerra; infatti ci sono nemici per legge di natura, che è immutabile, e non per motivi che possono cambiare di giorno in giorno. Ma il mio discorso terminerà da dove è iniziato. In questo medesimo luogo, tre anni fa, voi, gli stessi di ora, avete deciso di far pace con il medesimo Filippo, nonostante che ve lo rimproverassero quegli stessi Romani, i quali, ora che la pace è stata sancita e conclusa, vogliono turbarla. A proposito di questa deliberazione la sorte non ha recato alcun mutamento; non vedo perché voi dobbiate cambiare qualcosa.»
Subito dopo i Macedoni, con il permesso degli stessi Romani, anzi per loro invito, furono introdotti gli Ateniesi che, avendo subito indegni trattamenti, potevano più giustamente scagliarsi contro la crudeltà e la ferocia di Filippo.
Essi deplorarono la devastazione e il miserevole saccheggio delle loro campagne: non si lamentavano di aver subito atti ostili da parte del nemico, perché esistevano leggi di guerra che, come era lecito imporre, era altrettanto lecito subire: era triste più che indegno per chi lo subiva che i campi seminati venissero bruciati, le abitazioni distrutte e che si facesse bottino di uomini e animali; di questo invece si lamentavano, e cioè che colui che chiamava i Romani gente straniera e barbari aveva a tal punto profanato tutte le leggi divine e umane ad un tempo, da aver condotto, durante il primo saccheggio, una guerra esecrabile contro gli dei inferi e durante il secondo contro quelli superi: tutti i sepolcri e i monumenti funerari nel loro territorio erano stati distrutti, le ceneri di tutti i defunti erano state messe allo scoperto, sulle ossa di nessuno era rimasta la terra. Avevano avuto dei santuari che i loro antenati, quando abitavano un tempo in singoli demi, avevano consacrato in quei piccoli borghi e villaggi e che non avevano lasciato in stato di abbandono neppure quando si erano riuniti in un'unica città: ebbene Filippo a tutti questi templi aveva appiccato un fuoco devastatore; le statue degli dei giacevano bruciacchiate, a pezzi, in mezzo agli stipiti abbattuti dei templi. Se gli fosse stato lecito, egli avrebbe reso come l'Attica, terra un tempo splendidamente ornata e opulenta, l'Etolia e tutta la Grecia. Anche la loro città sarebbe stata ugualmente deturpata, se i Romani non l'avessero soccorsa. Con la medesima criminosa condotta, il re aveva attaccato gli dei protettori della città e Minerva custode della rocca, e inoltre a Eleusi il tempio di Cerere, al Pireo quelli di Giove e Minerva, ma, respinto con la forza delle armi non soltanto dai loro templi, ma anche dalle loro mura, egli aveva infierito contro quei santuari che si trovavano protetti soltanto dalla loro sacralità. Pertanto pregavano e scongiuravano gli Etoli di aver pietà degli Ateniesi e di intraprendere la guerra sotto la guida degli dei immortali e poi dei Romani, che dopo gli dei erano i più potenti.

P. Cornelio Tacito,La Germania, trad. di B. Ceva, Milano, Rizzoli, 1952 (fine I° secolo a.C.)

Ai Germani, infatti, quasi soli fra i barbari, basta un'unica moglie, fatta eccezione di ben pochi, che sono portati a contrarre più vincoli matrimoniali, non spinti dal desiderio del piacere, ma dal fatto che sono ricercati per la loro nobiltà. Presso di loro non è la moglie che porta la dote al marito, ma questi che l'offre alla moglie; intervengono i genitori e i parenti che passano in rassegna i doni, che non sono destinati al compiacimento della donna, né tali da offrire ornamenti alla nuova sposa, ma sono dei buoi, un cavallo bardato, uno scudo con lancia e spada. In cambio di questi doni si acquista la moglie, che a sua volta, consegna al marito qualche arma: in ciò che sta per i Germani tutto il contenuto più profondo del vincolo, questi sono per loro i sacri misteri e le divinità delle nozze. Perché la consorte non si senta esclusa dalle aspirazioni di valore del marito, nonché dai rischi della guerra, fin dal momento in cui si prendono gli auspici delle nozze, essa è chiamata a dividere fatiche e pericoli, pronta a soffrire e ad osare la stessa sorte, tanto in pace quanto in guerra; di questo sono simboli i buoi accoppiati, il cavallo bardato, le armi recate in dono. Così la donna deve vivere, così deve, a sua volta, dare la vita: sa che deve rendere ai figli pure e degne le cose che riceve, quelle che saranno ricevute poi dalle nuore e da queste di nuovo trasmesse ai nipoti.
[…] Esse vivono, dunque, rigidamente oneste, senza essere guastate né da attrattive di spettacoli, né da eccitamenti di conviti; tanto gli uomini quanto le donne ignorano la possibilità di corrispondere segretamente. Pur trattandosi di una popolazione così numerosa, pochissimi sono i casi di adulterio, la cui punizione è immediata ed affidata al marito: questi alla presenza dei parenti scaccia di casa la donna adultera, che ha tagliate le chiome, denudato il corpo e che, sotto le percosse del marito, vien fatta passare attraverso tutte le strade del villaggio; nessuna indulgenza, infatti, per la donna che ha prostituito la sua onestà: se pur bella, giovane e ricca non potrà più trovare marito. Nessuno infatti, presso i Germani si prende gioco dei vizi, là non si chiama «spirito dei tempi» né il corrompere né il lasciarsi corrompere.
Miglior costume è quello di alcune città in cui si sposano soltanto le fanciulle, e così si esaurisce in una volta sola la speranza e la brama delle nozze. Così le donne sposano un solo uomo, come hanno in sorte un solo corpo ed una sola vita, perché non vi sia in loro altro pensiero di matrimonio oltre quel primo, né i loro desideri vadano al di là di esso, e perché non amino il marito in sé, ma in lui amino il simbolo stesso del connubio. Ritengono delitto limitare le nascite dei figli o sopprimere qualcuno dei figli nati dopo il primo; presso i Germani i buoni costumi hanno un valore maggiore di quello che hanno altrove le buone leggi.

Ammiano Marcellino – Storie, vol. III, Milano, Mondadori, 2002.
XXXI, III, 8 […] La fama si diffondeva frattanto per vasto spazio fra le altre tribù dei Goti: una popolazione fin'ora mai vista (come turbine di neve da poco formatosi su alti monti, in insenature nascoste) sradicava, devastava tutto ciò che si parava davanti. Quindi buona parte della gente (che aveva abbandonato Atanarico, sfinita per la penuria del necessario) andava alla ricerca di un domicilio che fosse remoto da ogni diceria riguardante i barbari; dopo lunghe discussioni sulla sede da scegliere, pensò che il ritirarsi nel rifugio offerto dalla Tracia fosse conveniente per due motivi: la terra è molto fertile ed è separata (a causa delle acque dell'Istro) dalle pianure ormai <spalancate> ai fiumi di quel Marte forestiero. Anche gli altri pensarono (come per comune volontà) a questa soluzione. IV, 1 – 13 Così, <sotto il comando> di Alavivo, occuparono le rive de Danubio; mandati ambasciatori a Valente [in Antiochia], con umili preghiere chiedevano di essere accolti, promettevano che sarebbero vissuti in pace che avrebbero offerto forze ausiliarie se la situazione lo avesse richiesto.
Mentre si svolgevano queste vicende oltre i confini dell'Impero, terrificanti dicerie diffusero notizie secondo cui sconvolgimenti mai visti e più gravi dei soliti mettevano in agitazione le popolazioni del nord: in tutta la zona che si distese fino al Ponto a partire dai Marcomanni, dai Quadi, andava vagabonda intorno all'Istro una moltitudine di barbari (assieme alle proprie famiglie) appartenenti a tribù fino allora tenutesi nascoste e cacciati a forza dalle proprie residenze.
La faccenda fu accolta dai nostri, ai suoi inizi, con indifferenza, dato che a chi se ne trovava lontano, da quelle regioni giungevano di solito notizie solo di guerra portate a termine oppure sopite.
Ma la credibilità degli avvenimenti già cresceva, la rafforzava l'arrivo degli ambasciatori mandati dai barbari; con preghiere e suppliche chiedevano che la loro gente, cacciata dalle proprie terre, fosse accolta al di qua del fiume. L'evenienza suscitò più... gioia che paura! Gli "adulatori" (esperti [nell'arte loro]) celebravano la buona fortuna dell'imperatore: la fortuna trascinava dalle terre più lontane tanti [barbari che sarebbero diventati] reclute [dell'esercito romano] e le offriva all'imperatore, che non se le aspettava! Messe assieme in questo modo le forze sue e quelle degli stranieri, avrebbe avuto un esercito invincibile; inoltre si sarebbe aggiunta una grande massa di monete d'oro ai tesori [dello Stato] come sostitutive dei complementi militari inviati ogni anno nelle provincie! Con queste aspettative furono inviati parecchi incaricati di far passare su veicoli quella massa di gente selvaggia.
Ci si dava da fare con tutto lo zelo... a che nessuno di quelli che si proponevano di abbattere lo Stato romano fosse lasciato indietro, anche se era malato da morire! Ottennero dunque con il permesso dell'imperatore la facoltà di passare il Danubio e di abitare zone della Tracia; giorno e notte venivano trasbordati (dopo essere stati divisi in gruppi) su navi, zattere, tronchi d'albero scavati. Il fiume è fra tutti il più difficile: cresciuto inoltre in quel momento [autunno dell'anno 376] per grande quantità di acqua piovana; a causa del gran numero di persone [che non trovavano ospitalità nei mezzi di trasporto], alcuni cercavano di muoversi contro la violenza della corrente e di nuotare, e molti annegarono.
Si andava così conducendo la rovina dello Stato romano a causa dello zelo inquieto esercitato [dagli inviati di Valente] che affrettavano [gli eventi]: questi infausti inviati con l'incarico di far passare [il Danubio] alla moltitudine de barbari tentarono spesso di tenerne il conto, ma poi rinunciarono non essendoci riusciti (questo è dato chiaro e certo). Come dice il sommo poeta [= Virgilio, Georg. 2, 106]:
 Chi vorrà conoscerne [il numero], vorrà anche conoscere quanti granelli di sabbia del deserto della Libia vengono sospinti dai soffi di zefiro.
Riprendano infine animo le antiche memorie, che accompagnavano l'arrivo degli eserciti persiani in Grecia! Quando raccontavano dei <ponti [posti dai persiani] sull'Ellesponto>, del mare cercato sotto i piedi del monte Athos (spaccato dalla fatica degli operai), degli eserciti contati a torme presso Dorisco: tutti i posteri le hanno lette come narratrici di favole; ma dopo che innumerevoli masse di barbari (sparpagliate per le provincie e allargatesi negli spazi vasti delle campagne) riempirono tutte le regioni e tutte le giogaie dei monti, la credibilità del tempo antico venne confermata da una prova data dal tempo recente. Per primi vennero accolti Alavivo e Fritigerno; a loro l'imperatore aveva stabilito di dare cibi per le necessità del momento e campi da lavorare.

Mentre in questo frangente venivano aperte le barriere dei nostri confini e il paese dei barbari riversava schiere di armati simili a faville dell'Etna; mentre le difficoltà incombenti richiedevano i comandanti militari più famosi per splendore di imprese compiute, come una divinità nemica li avesse scelti e messi assieme, alle faccende militari erano a capo personaggi macchiati dal disonore, loro superiori erano Lupicino e Massimo (l'uno comunes nelle Tracie, l'altro comandante rovinoso), entrambi in gara di sconsiderata temerarietà.
La loro avidità di guadagno (capace di tendere insidie) fu la materia [da cui deflagrarono] tutti i mali. Per tralasciare altre colpe commesse da altri con progetti rovinosi nei riguardi dei barbari in marcia fino ad allora inoffensiva, diremo di un fatto doloroso e mai prima verificatosi, assolvibile da nessun perdono (neppure operato da giudici [generosi] che dovessero giudicare se stessi) [= Cicerone, Pro rege Deiotaro 4].
I barbari portatisi al di là del fiume erano afflitti da mancanza di cibo, e quegli odiosissimi comandanti escogitarono un vergognoso commercio: quanti cani la loro insaziabilità fu capace di raccogliere, li dettero [ai barbari] in cambio di altrettante persone da fare schiave (e fra queste ce ne furono anche di nobili)!
Frattanto, in quei giorni, anche Viderico (re dei Greutungi), assieme ad Alateo e a Safrace (dalla cui tutela dipendeva ) e a Franobio, avvicinandosi alle rive dell'Istro, mandò in tutta fretta messaggeri per scongiurare l'imperatore a che volesse accoglierlo con uguale generosità. Questi messaggeri vennero respinti (così sembrava utile allo Stato) e loro non sapevano cosa fare.
[…] V, 1 – 8 D'altra parte i Tervingi [= Visigoti] (da cui da tempo era stato dato il permesso di passare [il fiume]) andavano ancora vagando lungo le rive vincolati da un doppio impaccio: a causa della rovinosa indifferenza dei comandanti militari [Lupicino, Massimo] non venivano aiutati con vettovagliamenti, volutamente erano trattenuti [in quei posti] per nefandi traffici commerciali.
Capito questo, [i barbari] rumoreggiavano dicendo che l'aiuto promesso per le disgrazie incombenti, <si stava tramutando> in malafede; e Lupicino, spaventato al pensiero di una loro rivolta, fatti venire [da basi vicine] i suoi soldati lo costringeva a partire [di lì, allontanandosi] in tutta fretta.
I Greutungi afferrarono quest’ occasione favorevole: videro infatti che, con i soldati occupati altrove, se ne stavano a riposo le navi che di solito andavano avanti e indietro [per le rive del fiume] impedendone loro il passaggio; lo traversarono quindi su zattere di mal saldata consistenza e posero poi gli accampamenti lontanissimi da Fritigerno.
Ma lui (capace per natura di prevedere le cose) si premuniva di fronte ai casi che potevano capitare; volendo [far mostra di] ubbidire agli ordini [dell'imperatore] e anche unirsi ai re che disponevano di molte forze, marciò piuttosto lentamente a tappe continue verso Marcianopoli [250 chilometri da Adrianopoli = Davna] dove arrivò tardi. Qui si aggiunse un altro terribile avvenimento che accese le fiaccole delle Furie, destinate ad ardere per la rovina dello Stato.
Mentre Alavino e Fritigerno erano stati invitati a banchetto, Lupicino teneva lontane dalla città le masse barbariche opponendo loro la presenza dei soldati; queste masse pregavano con insistenza di poter entrare in città per procurarsi i cibi necessari, in quanto soggette al nostro dominio e in pace con noi. Scoppiati contrasti più duri fra gli abitanti e i barbari (cui era impedito entrare), si giunse a uno scontro inevitabile. I barbari si inferocirono in modo ancor più violento quando si accorsero che i loro parenti erano portati via come se fossero nemici: ammazzarono un gran numero di soldati e li depredarono.
Lupicino fu avvertito di quanto <era avvenuto> (da un messaggero che venne di nascosto) mentre da tempo sdraiato al ricco banchetto era snervato per il vino ingurgitato e per il sonno che incombeva fra il rumore dei divertimenti [che accompagnavano il banchetto]. Capito come sarebbe andata a finire la faccenda, fece ammazzare tutte le guardie di scorta [dei due capi barbari] in attesa davanti la sua residenza per fare loro onore e difenderli.
La folla che assediava le mura ricevette questa notizia con dolore; poco a poco crebbe di numero allo scopo di liberare i re prigionieri (questo credeva), lanciava molte e terribili minacce. Fritigerno (di intelligenza pronta com'era) temendo di essere trattenuto assieme agli altri come ostaggio, gridò che il combattimento avrebbe avuto esiti più gravi [per i Romani] se non fosse stato permesso a lui e ai suoi compagni di uscire per calmare la folla, portata a credere i propri capi ammazzati con il pretesto di un invito gentile e che ora accesa [d'ira] tumultuava. Questo lo ottennero, tutti uscirono e furono accolti con applausi e manifestazioni di gioia; saliti a cavallo, volarono con lo scopo di mettere in movimento incitamenti di tipo diverso alla guerra.
Come la fama (malevole nutrice di dicerie) ebbe diffuso queste notizie, tutta la popolazione dei Tervingi [= Visigoti] bruciava del desiderio di combattere: fra molti atteggiamenti che incutevano paura, fra molti prodromi di pericoli gravissimi, alzate come d'uso le insegne, ascoltato il suono affliggente delle trombe di guerra già torme di predatori correvano di qua e di là saccheggiando e incendiando tenute di campagna, sconvolgendo con devastazioni desolanti quanto era possibile trovare.
[…] VI, 1 – 3 / 5 – 6 La notizia di questi avvenimenti era stata diffusa con continui messaggi; ma Sverido e Colias (capi dei Goti), accolti con le loro tribù già da molto tempo e cui era stato permesso di ristorare [con il riposo] le afflizioni invernali [fermandosi] presso Adrianopoli, consideravano la propria salvezza come la cosa più importante e guardavano con indifferenza tutto quello che capitava.
Ma all'improvviso fu portata una lettera dell'imperatore con cui si ordinava loro di passare nell'Ellesponto; e loro, senza arroganza, chiedevano cibi come viatico e una dilazione di due giorni. Non tollerò questa richiesta il magistrato della città (era adirato [con i Goti] a causa della devastazione operata di un suo possedimento fuori città): fece uscire tutta la bassa plebe assieme agli operai della fabbrica d'armi (lì se ne trovavano in gran numero), si armò per ammazzare [i Goti] e dato l'ordine di suonare le trombe a battaglia, a tutti [i Goti] minacciava pericoli gravissimi se non se ne fossero andati subito, come stabilito.
I Goti furono colpiti da questa disgrazia inattesa e pur atterriti dall'attacco dei cittadini (concitato più che meditato) non si mossero; bersagliati infine da maledizioni e da offese, fatti oggetto del lancio di pochi giavellotti e di frecce, sfociarono in aperta rivolta: ne ammazzarono moltissimi (ingannati [nelle loro aspettative] da un impeto troppo precipitoso), messi in fuga i rimanenti e trattenuti con varie armi da lancio, si armarono di armi romane di cui avevano spogliato i cadaveri. E visto che Fritigerno era vicino [ad Adrianopoli], si unirono a lui come alleati ubbidienti e attaccavano le città (che era stata chiusa) con le afflizioni comportate dall'assedio. […]
Avanzavano con cautela: [i barbari] che si erano arresi [ai Romani], oppure erano stati fatti prigionieri mostravano loro villaggi ricchi, soprattutto quelli in cui si diceva esserci abbondanza di cibo. Oltre alla naturale sicurezza in se, accresceva la loro baldanza il fatto che di giorno in giorno confluivano nelle loro file masse di Goti che da tempo erano stati venduti [come schiavi] dai mercanti, e si aggiungevano quelli che, al primo passaggio, [i Goti] presi alla gola dalla fame, avevano scambiato con un po' di vino, oppure con spregevoli tozzi di pane.
Lì confluirono anche non pochi esperti nel cercare filoni d'oro, persone che non erano in grado di sopportare i pesi gravi delle tasse imposte: accolti con il favorevole consenso di tutti, furono molto utili mostrando a gente che si muoveva per località sconosciute depositi nascosti di grano, nascondigli di persone, rifugi segreti.