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Storia di Simeone Salo e Fagiolino c’è - Romano Danielli



lunedì 15 novembre 2004 legge Giovanni Catti
“[…] fattosi burattino / per non esser creduto / superiore a qualcuno”. La poesia di Giovanni Catti spiega la storia di San Simeone Salo, IV secolo, in modo originale. Lo stilita, che ha scelto di andare a vivere su una colonna, “si è fatto burattino”. 
C’è del sacro nel laicissimo burattino, in Sandrone, Fagiolino, Balanzone, non importa – lo si poteva ben sospettare, sentendo finalmente le risa dei bambini, da dietro il piccolo palcoscenico, nell’attesa che si verificasse la magia dell’applauso. C’è anche qualcosa di laico nel sacro – l’entusiasmo, la sopresa, l’emozione e l’attenzione tesa al massimo sono lì a segnalare questa coincidenza.
La poesia di Giovanni Catti sarà seguita da una conversazione con Romano Danielli, sul significato e sull’importanza del Teatro dei Burattini, a incominciare da quello di scuola bolognese. 
Verrà letta una pagina dal libro Fagiolino c’è di Romano Danielli, il quale porterà con sé anche una maschera e qualche burattino


Storia di Simeone Salo

di Giovanni Catti

Dal secolo IV a oggi, il 21 luglio si fa memoria di San Simeone Salo:


“Mosso dallo spirito divino, desidero essere stimato stolto per Cristo e ignobile per gli uomini”

(dal Martirologio romano)

1 Narriam di Simeone
Altomare la storia,
terminata in Emèsa
in cima a una colonna.

2 Insieme con Giovanni
partì verso il deserto
e furono eremiti
in riva al mar di Asfalto.

3 Un giorno Simeone
saluta il suo compagno
e riparte da solo
verso il Settentrione

4 Alle porte di Emèsa
in riva al fiume Oronte
salì per una scala
poggiata a una colonna,

5 col copricapo in testa
e la borsa a tracolla:
ulle spalle il mantello
e piedi sempre scalzi.

6 E sopra la colonna
rimase a contemplare
il corso di quel fiume,
i corsi delle stelle.




7 Si avvolge nel mantello
e posa il corpo stanco
sulla borsa ormai vuota
di cibo e di bevanda.

8 lo risvegliò al mattino
un canto di scolari
e con il braccio fece
un cenno di saluto.

9 E gli scolari allora
portaron pane e sale
in segno di amicizia,
con una brocca d’acqua.

10 Alcune cittadine,
venuto mezzogiorno,
portarono un cestino
col primo e col secondo.

11 Venuta poi la sera
alcuni cittadini
portarono la cena
e stettero a parlare

12 del corso di quel fiume,
dei corsi delle stelle
e delle creature
in giro sulla terra.





13 Sempre più numerose
erano le persone
venute per vedere,
rimaste ad ascoltare.

14 Parole sempre giuste
e giustamente dette
dal saggio Simeone
dall’alta sua colonna.

15 Ma il saggio Simeone
voleva conversare
sempre amichevolmente
e non dall’alto in basso.

16 Per questo dalla borsa
trasse del filo e un ago,
arrotolò una striscia
e fece un burattino.

17 Non era Balanzone,
neppure era Sandrone:
era soltanto un uomo
di nome Simeone.

18 Si sparse allor la voce
e tutti, quella sera
porgevano gli orecchi
a tale animazione:





19 “Storia di un poveretto
senza casa e senza tetto,
vendette i pantaloni
per pochi maccheroni”.

20 Vedevano gli adulti,
udivano i bambini
la storia tutta nuova
d’un poveretto in trono.

21 Si fece burattino
e fu “titiritero
de se mismo”, per dirla
come si dice in Spagna.

22 Anche per Simeone
venne l’ultima sera
e l’indomani accorse
dalle case la gente,

23 e fece onore all’uomo
fattosi burattino
per non esser creduto
superiore a qualcuno.


NOTE

1 Simeone nell’elenco delle Sante e dei Santi è detto il Salo,
e salos in greco è lo sviluppo in altezza dell’onda marina. Qualcuno traduce Altomare.

2 Mar d’Asfalto è il Mar Morto, dove bitume asfaltino e altri minerali sono dominanti, rispetto ai vegetali e agli animali. Intorno a questo lago, luoghi solitari, deserti, desolati diventarono sedi opportune perché persone credenti in Gesù Cristo si mettessero alla prova, per essere promossi a vedere Dio. Due di questi residenti nel deserto, eremiti, furono Simeone e Giovanni.

3 Emèsa fu la città capitale della “Siria cava”, la Celesiria; oggi è chiamata Homs. L’Oronte è il “fiume ribelle”, dal percorso accidentato, e le sue acque scorrono presso Emesa.
Colonna, pilastro in greco è stylos,e “stilita” fu detto chi si metteva alla prova non più in un deserto, ma sopra una colonna.

4 Il corso di quel fiume, i corsi delle stelle: Galileo Galilei asserirà che è più facile spiegare i movimenti del cielo stellato con quelli dell’acqua corrente (cfr Geografia a cura di G. Fochler-Hauke, Milano 1973, pag 234)

13 Venute per vedere , rimaste ad ascoltare: da una cerchia più estesa di persone uditrici si perviene a una cerchia più ristretta di persone seguaci, come accadeva intorno a un rabbi, chiamato poi dai seguaci padre

14 Ma il saggio Simeone voleva conversare: “Egli tuttavia non tenne tono di chi predica, ma quasi il tono di chi parla in un’assemblea” (Thomae Spalatensis Historia Pontiricum Salonitanorum, et Spalatensium mgh XXIX 580): in questo modo fu realizzato il sermone di Francesco d’Assisi in Bologna il 15 agosto 1222.

16 …e fece un burattino. E’ una figura, costituita da una testa, molte volte intagliata nel legno, e di una veste a sacchetto, aperto in basso. La figura è animata dalla mano e dalla voce, giustamente adattata, del Burattinaio. Buratinus in latino medievale è il “setacciatore di farina”, addetto a trattenere crusca e far passare farina.

17 Balanzone, Sandrone. La maschera del Dottore della Commedia dell’Arte rinasce col nome di Balanzone in Bologna, facendo pensare alla cosa a due piatti diventata simbolo della giustizia. La maschera di Alessandro soprannominato Sindrome nasce a Modena dalla mano e dalla voce giustamente adattata di Luigi Campogalliani maestro burattinaio nel secolo XIX, e rimane come un profeta disarmato: munita di una sapienza universale, detta in un vernacolo particolare.

18 …a tale animazione. Il verbo animare e i suoi derivati si addicono alla prestazione offerta da Simeone: il teatro dei burattini è propriamente un teatro di animazione.

21 Titiritero in lingua spagnola è l’animatore di una successione di parole, formulata con una certa cadenza e chiamata in italiano “tiritera”. Questo animatore somiglia al burattinaio. “Titiritero de se mismo” equivale a “burattinaio di se stesso”.


Romano Danielli
Fagiolino c’è


(Alberto Perdisa editore 2004)


Davanti al “casotto” di Filippo Cuccoli

Già mezz’ora prima dell’inizio, un “ rugletto di cinni “ (capannello di ragazzini), si rincorrono sotto il portico schiamazzando, mentre “al segretèri ” (segretario), l’uomo che ha il compito di piazzare “ il casotto”, li punta di tanto in tanto, con occhiatacce severe, masticando chissà quali improperi. La sera sta addormentando lentamente la città, e i raggi del sole, gli ultimi di un giorno d’estate, l’ambiscono la parte superiore di torri e palazzi colorandoli di un rosso dorato fantastico. L’artista,
“al buratinèr “, s’attarda all’osteria accanto per un ultimo quartino. Il vino è sempre stato ispiratore, musa e stimolo per il burattinaio e l’oste che lo sa, gli riserva il migliore, quello che beve anche lui. Due bicchieri soltanto, ma sufficienti a dare quel “ murbéin “, (morbino) indispensabile alla buona riuscita dello spettacolo. Lui, l’uomo che tra un’ora, sarà al centro dell’attenzione di una platea variegata e rumorosa, centellina il sudore di Bacco con una lentezza e una concentrazione, degne di poeta nell’atto di creare chissà quale immortale poema. In verità forse pensa alla famiglia che a casa lo aspetta con l’incasso: per l’affitto, le scarpe del figlio d’aggiustare, il pane per domani. “ Vgnarà zènt stasira?” (verrà gente stasera?). Sorso dopo sorso, il vino scompare dal “ pistunzén “ (recipiente per il vino). Lui sa che quell’amata clessidra gli indica con precisione l’avvicinarsi dell’inizio dello spettacolo e l’ultimo sorso coincide sempre al momento in cui l’aiutante, dall’altra parte del portico con un cenno della mano lo avverte che tutto è pronto. Egli allora si congeda con un lento gesto della mano e con un “ umm”, che vuol dire tante cose: “ a se vdrèin “ …” bôna nôt”... “ tersuà “… “ a l’inferen tót quant “ (arrivederci…buona notte…servo vostro….a l’inferno tutti quanti) e se ne va, come sacerdote si reca al tempio.
Il buio ha avvolto ogni cosa, smorzato ogni colore e il teatrino illuminato da due lampade a petrolio sembra più grande e imponente. La piazza è scomparsa, non più San Petronio, palazzo d’Accursio, il portico del Pavaglione. Solo il meraviglioso teatro di Angelo Cuccoli. In quel momento, Bologna è tutta li !
La serata promette bene, il posto a sedere costa un bagherone e il pubblico è numeroso. Si può giurare che a Filippo affiora un sorriso sotto i grandi baffi, mentre scostando con mano stanca la tenda laterale, entra in baracca.
Intanto, sedute in prima fila, alcune donne chiacchierano trattenendo a stento gli scatenati pargoletti, i quali continuano a fare “ tubana “ (schiamazzi) e a buttarsi addosso ogni cosa trovino in terra; carta, sassi e quant’altro lasciato da “ quelli “ del mercato delle erbe che fino a poco prima ha movimentato la piazza.Attorno al “ casotto “ (al teatrino), fiorisce un’attività commerciale indotta, assai caratteristica. I venditori di “ brustulli e luvén “ (semi di zucca e lupini), piazzati in posizioni strategiche esibiscono in ceste coperte da un telo, che una volta doveva essere bianco, le loro leccornie. Sono impassibili e compresi nel loro commercio. I brustulli vengono serviti con un bicchierino di legno, la cui capacità è pari alla quantità richiesta; generalmente sono di due grandezze. Il venditore di lupini, invece, prepara la sua merce in una specie di tronco di cono di carta gialla grossa ed assorbente. I lupini sono conservati in un secchio d’acqua che è preferibile non descriverne il colore. La platea è gremita di persone e i bambini sono in minoranza, quindi sempre più obbligati a starsene tranquilli. Volano anche degli amichevoli “ scupazón ” (scapaccioni). Nell’angolo più buio, una servetta e un fante si tengono per mano. L’attesa dell’inizio è sempre carica di curiosità. Che farà ora il burattinaio, nascosto dai teli della baracca? Starà ultimando i preparativi…inchiodando l’ultimo cappellino…annodando il mantello del re…Quanti burattini ci saranno stasera? In molti hanno già visto questa commedia ma l’artista è imprevedibile; avviene che spesso cambi qualcosa. Lui appare per un attimo fuori del teatrino col sigaro ancora acceso tra le labbra.
Quanto tarderà a iniziare? I suoi occhi scrutano il pubblico: valuta, trae ispirazione e lo sguardo ha la severità di chi è consapevole d’essere custode di un segreto. Dopo un po’ rientra. La tenue luce delle lampade rivela un misero sipario che pretende rappresentare l’allegoria di una divinità. Un Apollo che su un carro trainato da cavalli alati, pare lanciarsi verso il sole. I colori esposti alle intemperie del tempo, sono stinti e le fiammelle tremolanti delle lumiere, aumentano il mistero di quell’inquietante attesa. “ Mo parché al cmènza brîsa…Ch’s’aspètel…Fègna vgnîr dmatéina? “ (Perché non comincia…Cosa aspetta…Facciamo venire domattina?). Gli spettatori sono sempre più numerosi, in speciale modo quelli in piedi, i soliti approfittatori “ portoghesi “, malvisti dal burattinaio per ovvia ragione: non pagano.
Un ometto smingherlino è seduto accanto ad un omone dalla corporatura smisurata, probabilmente un “ fachén “ (un facchino), che ansimando mangia semi di zucca in continuazione sputando le bucce senza ritegno. L’ometto gli lancia occhiatacce, che per altro non ottengono alcun risultato, e sposta continuamente i piedi per evitare la non gradita semina. A un certo punto il piccoletto imprecando tra i denti, s’alza di scatto e, per evitare d’essere scambiato per sputacchiera va a sedere sulla panca dietro dove il militare, rotti gli indugi, ha portato dolcemente il braccio sulle spalle della servetta che finge di non essersene accorta. Tra non molto le cingerà la vita. I “ cinni “(fanciulli), continuano a vociare e a chiamarsi l’un l’altro, mentre le donne, giunte ai pettegolezzi si sono raggruppate e cospirano tra loro lanciando attorno, di tanto in tanto, sguardi carichi di sospetto, come a controllare chissà chi, chissà cosa.Finalmente preceduta da un lieve tintinnio, suona la campanella: è il burattinaio che comanda il silenzio. Ancora un’incertezza e il sipario si alza e un’assurda figura di legno ci parla…Lo spettacolo è finalmente cominciato! Le voci tacciono. Non più dispute, malignità, reclami…I bambini a bocca spalancata fissano la scena affascinati. Solo il giovane militare continua con la mano a percorrere imbarazzato, il suo dolce tragitto.



L’arrotino burattinaio ( l’agózz )

Non si può dire che la giornata sia delle migliori, in senso meteorologico, intendo. Una nebbia densa e persistente ingoia ogni forma fin dal mattino e le cose le scorgi, quando vai a sbatterci contro. Solo la luce di una lumiera a petrolio s’intravede attraverso i vetri della finestra che da in cucina. Un bagliore tenue, dal contorno spappolato, stemperato nella nebbia, avverte che lì, qualcuno vive e che la sera sta arrivando. Il silenzio è rotto, di tanto in tanto, dal vociare dei bambini, che s’apprestano alla cena e da un sibilo struggente che viene dall’interno del “camarån” dove sono ammucchiati gli antichi attrezzi. Qui, alla luce di una seconda lanterna, sta lavorando “l’agózz”, l’arrotino, che come ogni anno è passato a dar nuovo filo a falci, zappe e coltelli. L’acciaio percorso dalla grossa mole, raffreddato dalla costante caduta d’una goccia d’acqua che scende da un barattolo sospeso in un marchingegno di secolare provenienza, emette un lamento, che intristisce ancor più il paesaggio, eppure, una strana euforia buca quell'ovattata atmosfera e nasce il sospetto che qualcosa d'eccezionale stia per accadere.
“Camén, lasè stèr qal sèiguel e vgnî a magnèr, che incóssa è bèle in tèvla “ (Camén, lasciate stare quella falce e venite a mangiare, che la cena è in tavola )
A dire questo è la “ arzdåura “, che asciugandosi le mani s’è fatta sull’uscio.
“Camén” è il soprannome dato ad Augusto “Gino” Venturi, (1885-1969) di Scaricalasino (Monghidoro), seguendo le orme del nonno arrotino, si trasferì in seguito a Pianoro. Uomo gioviale e non privo di originale inventiva.. Tra le sue poche cose, che si porta appresso, c’è un sacchetto di tela juta, che tiene gelosamente legato al suo carretto. È quel povero sacco che sollecita la curiosità dei bambini. La cena, frugale, ma sufficiente a calmare i morsi della fame sta per finire e Camén, accarezza lentamente il mozzicone di un toscano, acceso e spento più volte, pronto a chiudere degnamente la cena. I bambini, lo osservano inquieti e i più piccoli, cominciano a tirarlo per la giacca e lui, pacatamente borbotta: “ calmén, cinno…ste calmén !” Arrivano altre persone: uomini e donne, che avvolti da scialli e “ capparelle “, giungono dai casolari vicini. Che succede ? All’apparenza sembrano cospiratori, che protetti dalla nebbia si radunano per tramare chissà quali attività sovversive.Man mano che entrano, i padroni di casa li salutano amichevolmente: “Bôna…Gusto e la Mariéina duv’ela ?”…Vgni avanti Jâcum, sintî ste vinlén…” (Buona sera…Augusto e la piccola Maria dov’è ?…Venite avanti Giacomo, assaggiate questo vinello).
Il vociare aumenta, pari all’eccitazione dei piccoli.Finalmente Camén, assaporata una “tirata” del suo eterno toscano, s’alza con lentezza e con voce greve: “ a vâgh “, e s’avvia verso la porta.
“In t’la stâla ai è dåu lumîr, ste atenti che an s’arbèlten “, (nella stalla ci sono due lumiere, state attento che non si rovescino), dice l'arzdåura, con tenera preoccupazione. “an ve stedi a preoccupèr” (non preoccupatevi), è la risposta dell’arrotino, mentre s’avvia. I bambini lo seguono allegramente. Egli va alla sua carretta, prende il misterioso sacco ed entra nella stalla. Il calore delle bestie che calme ruminano nella greppia, degnando al primo arrivato alcune occhiate di curiosa indifferenza, aumentano il senso di gradevole ospitalità che l’ambiente offre. Anche l’odore del letame, contribuisce a rendere più magico il momento. I bambini lo seguono sempre più curiosi e spintonandosi l’un l’altro, fanno a gara a chi s’avvicina di più al magico sacco, che Camén ha appena depositato in fondo la stalla.“Pôca tubèna, cinno…Ste bón, atrimenti tótt a lèt…intesi !” (poco fracasso, bambini…State buoni altrimenti tutti a letto…Intesi ?).
A questo perentorio ordine, segue un silenzio totale, rotto solamente dai colpi di coda, e dal ruminare delle impassibili mucche. Piano piano, con malcelata curiosità entrano i grandi, che si accomodano diligentemente su alcune panche appositamente sistemate. Anche le balle di paglia, fungono da poltrona. L’arrotino ha intanto tirato una corda tra due colonne sulla quale ha sistemato una coperta che lo nasconde al pubblico…Un attimo di silenzio, poi, alla luce di quelle lampade che rendono tutto di un colore rossiccio, appare Fagiolino che con una riverenza saluta gli spettatori. I bambini urlano di gioia e hanno un bel da fare, le donne, per calmarli.
“ Buona sera, signori, Fasulàtt, al v’saluta tótt “ (Fagiolino vi saluta tutti).
Il pubblico, ha riempito fino all’inverosimile la piccola stalla e gli ultimi arrivati, si sono sistemati in piedi accanto alle mucche. L’arzdåura ha messo, in alcuni punti strategici, dei fiaschi di vino e lo spettacolo ha inizio. Il “dramma”, portato in scena, tratta di un Re che preoccupato per l’interesse della figlia nei riguardi di un nobile a lui non gradito, incarica i servi, Fagiolino e Sganapino), di spiare la principessa, per poi riferire con precisione quanto avviene a sua insaputa:

In scena Fagiolino e la Sacra Corona-

Re- Mia figlia, credo che amoreggia segretamente col Conte Lochino, (Lucchino), voi spierete tutto e poi mi direte.
Fagiolino e Sganapino si mettono all’opera e dopo alcune scene, tornano a riferire al Re.
Fagiolino- Sira suva figlia amoreggia veramente con il Conte Lochino…
Il Re, allora si dispera e raccomanda ai due una maggiore sorveglianza, ma avviene che una notte, la principessa fugge col suo amato. I servi allora si precipitano dalla sacra corona ad avvertirlo:
Fagiolino- Sira, vostra figlia è foggita col Conte Lochino !
Re- Che sia tosta ripresa e portata in mia presenza !

I servi, dopo alcune ricerche la trovano e Fagiolino torna dal sovrano:
Fagiolino- Sira, abbiamo ripreso vostra figlia col Conte Lochino.
Re- Che mia figlia sia tosta chiavata (rinchiusa a chiave), in una cella scura e tu Fagiolino, menami Lochino ! (detto questo esce di scena)
La risposta di Fagiolino è pronta:
Fagiolino- (rivolto al compagno che è appena entrato) Ohu, mèinal bèn té, Sganapén, che t’î pió atèis ! (menalo tu, che gli stai più vicino)
Il pubblico ride scambiandosi occhiate di complicità. La nonna in un angolo, mostra di non gradire l’allusione. Camén chiude la serata con l’immancabilmente, breve canzone: “Buonasera, miei signori, andate a letto, ci vado anch’io…Fuori per di qua, fuori per di qua, per di quaaa !”
Alla fine, il burattinaio esce da dietro il telo e in premio gli è offerto un buon bicchiere di vino.

(Romano Danielli Fagiolino c’è, Bologna, Alberto Perdisa Editore 2004)