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Scritti sulla cultura d’impresa - Claudio Dematté



lunedì 21 marzo 2005 legge Cesare Bassoli

Gli strumenti imprenditoriali classici affermatisi negli ultimi cento anni non sono più adatti ad offrire interpretazioni convincenti dell’impresa. Quindi non possono nemmeno fornire strumenti operativi efficaci per la sua gestione.
Le condizioni di permanente incertezza e di bassa prevedibilità della maggior parte delle variabili strategiche, impongono alle aziende la necessità di trasformarsi in tempi rapidi.
Nella cultura d’impresa, il cambiamento non può più essere considerato come una fase eccezionale dell’evoluzione aziendale. Anzi, è divenuto il normale “stato” delle organizzazioni contemporanee.
Il capitale intellettuale diventa così un imprevedibile generatore di valore aggiunto.
Tutto ruota intorno alle persone, alla loro qualità, alla loro preparazione. Il modello più valido è quello che coinvolge e motiva: quando Claudio Dematté parla di “managing by values”, come modello alternativo a quello più rigido delle regole e delle procedure, si riferisce proprio all’insieme di qualità immateriali di un’organizzazione aziendale che nessun bilancio può riportare correttamente.
Le letture della serata propongono un approccio originale alla cultura d’impresa. Sono molti gli stimoli che derivano da questo studioso così autorevole, scomparso di recente - che ha misurato l’efficacia dell’analisi teorica nell’operatività dell’esperienza sul campo.
Cesare Bassoli, dirigente d’azienda, è stato allievo e amico di Claudio Dematté.




Brani tratti da Il mestiere di dirigere, Milano, Etas 2004.
Il libro è una raccolta degli editoriali scritti da Claudio Demattè per la rivista “Economia e Management”, edizioni Etas-Bocconi

da Modello di gestione e ciclo di vita delle imprese

Scoprire le segrete leggi (quindi le teorie) che regolano il buon funzionamento delle imprese è il fine dell’economia aziendale.
Insegnare ad applicare tali leggi per migliorare la gestione delle imprese è invece la missione delle discipline di management.
Purtroppo, la scoperta di leggi che abbiano un valore sufficientemente universale è assai problematica, perché la vita delle imprese è la risultante di un insieme quanto mai numeroso di elementi che si combinano in modo differente da caso a caso dando luogo ad esiti difficilmente prevedibili ex ante. Per questa ragione quasi nessuna delle teorie avanzate in passato per predire la redditività o, più in generale, lo stato di salute o la performance di un’impresa è stata in grado di centrare l’obiettivo. Basti pensare alla serie delle teorie sulle imprese eccellenti, smentite a distanza di pochi anni, e talvolta perfino di pochi mesi, da inversioni brusche nelle traiettorie di sviluppo o di redditività delle imprese sulle quali dette teorie erano state costruite.
Questa difficoltà a trovare regole generali ha spinto gli studiosi di economia aziendale a perseguire i propri obiettivi in diverse direzioni.
Alcuni isolano dal problema generale un’area di ricerca molto più limitata – concentrando l’attenzione su di una ristretta categoria di imprese, su un momento particolare della loro vita, su un campione scelto, in modo che alcune variabili rimangano costanti – per esaminare i rapporti di causa-effetto in un ambiente più circoscritto, meno complesso e più facilmente controllabile.
Altri, reputando limitativa l’analisi empirica condotta in condizioni di restrizione “artificiale” delle variabili che nella realtà concorrono a determinare il funzionamento di un’impresa, dedicano i loro sforzi ad individuare le variabili più significative ed a descrivere i rapporti che dovrebbero esserci fra di esse a rigore di logica, deducendone un modello ragionato, anche se non sottoposto a test empirici. Altri preferiscono procedere a livelli di astrazione ancora maggiori, puntando ad individuare concetti e categorie classificatorie con le quali mappare e descrivere le varie fattispecie d’imprese ed i loro stati al diverso combinarsi delle variabili che si intrecciano nelle vita delle imprese stesse.
Qualche studioso ha ritenuto di concorrere all’obiettivo comune di scoprire le leggi che regolano il buon funzionamento delle aziende, procedendo a rovescio, ovvero concentrando l’analisi sui momenti patologici – l’equivalente delle malattie dell’organismo umano – e sulle cause che li determinano.
Da questo filone di ricerche sono scaturiti alcuni concetti e spunti di teoria che non hanno una validazione empirica di tipo forte, ma che presentano sul piano logico fondamenti non disprezzabili: si tratta del filone sul ciclo di vita delle imprese. […]

Un autore senza grande credito nella letteratura accademica, ma con molto seguito nella sua attività professionale – Ichak Adizes - ha fatto di questo concetto il perno centrale della sua interpretazione sull’evoluzione dell’impresa.
La sua tesi è che come gli organismi viventi (piante, animali o persone) sono soggetti ad ciclo deterministico – nascita, sviluppo, maturità e morte – con schemi di comportamento e processi di transizione prevedibili, così anche le organizzazioni passano” inevitabilmente” attraverso cicli di vita . E anch’esse presentano problemi di transizione, nel passaggio da un ciclo all’altro.
Dieci sono i cicli attraverso i quali le organizzazioni transitano nel corso della loro vita: momento della concezione, l’infanzia, lo sviluppo, l’adolescenza, la maturità, la stabilità, l’aristocrazia, la prima burocrazia, la burocrazia, la morte .
In corrispondenza della parte terminale di ciascuno di questi cicli, c’è un processo di transizione specifico, caratterizzato dalla necessità di cambiare uno o l’altro elemento del DNA organizzativo, che può compiersi nel migliore dei modi o tramutarsi in una fine prematura dell’organizzazione.

Da Tecnica, progettualità e arte politica:
tre ingredienti essenziali della funzione manageriale

Ci riflettiamo poco: eppure il metodo di rapportarsi al tempo ed allo spazio – assieme alla propensione al rischio – sono le variabili che più improntano l’azione umana. Il fatto di porsi di fronte alle situazioni, a certi problemi, o a certe opportunità, con un orizzonte temporale breve o lungo, oppure con un angolo visuale stretto o ampio è tutt’altro che indifferente per quanto riguarda sia l’interpretazione dei fatti sia le azioni che ne conseguono. E’ tanto vero che una delle grandezze economiche più pervasive è proprio il tasso di interesse, la cui funzione primaria è quella di regolare le relazioni tra il presente ed il futuro.
Esso è elevato laddove non c’è molta disponibilità a scambiare il presente per il futuro ed è contenuto nei paesi dagli orizzonti lunghi. Ragionando sull’efficacia dell’azione manageriale è dunque naturale che venga posta preliminarmente la questione dell’apertura dello zoom più appropriata – così come farebbe un fotografo che per inquadrare la realtà deve anzitutto decidere da quale angolatura la vuole cogliere, con quale grado di luce e con quale apertura del diaframma. Che l’atteggiamento nei confronti di questi aspetti possa inficiare l’esito finale è confermato dalle infinite querelle sull’orientamento troppo a breve o troppo a lungo o sull’ottica spaziale troppo ampia o troppo stretta dalla quale vengono traguardati i problemi.
Sul piano della ricerca si è dovuta affrontare la questione sia sull’asse dei tempi, con i tentativi di passare dai modelli uniperiodali a quelli multiperiodali sia sull’asse spaziale, con gli sforzi di estendere il numero delle variabili da prendere in considerazione.
Celli si inserisce in questo solco puntando il dito sullo spazio troppo angusto dentro il quale il management ha finito con il restringere il suo campo di osservazione e di azione.
Rileva Celli che, dopo il periodo in cui all’impresa ed ai suoi dirigenti venivano attribuiti compiti e finalità non solo economici, con ingenue commistioni e nefandezze degenertative, c’è stato un ritorno salutare a compiti più appropriati e specifici, ma con sindromi riduttive che inducono l’impresa a giocare tutta in difesa. Di questo ripiegamento dell’impresa all’interno dei propri ambiti istituzionali Celli rileva il lato positivo, ma anche la perdita di capacità di dialogo rispetto agli altri interlocutori esterni. Egli lascia intendere pertanto che l’eccessiva focalizzazione sull’impresa condiziona anche la capacità di comprendere gli avvenimenti e quindi di affrontare i momenti di crisi, posto che quasi sempre, sia le ragioni, sia le risposte alla crisi non stanno solo all’interno dell’impresa, ma anche nel deteriorarsi delle relazioni con il mondo esterno. Per questo, non per semplici motivi culturali, l’affievolirsi della capacità di confronto diventa un serio punto di debolezza. […]

La realtà è che l’impresa, proprio grazie al successo ed alla sua forte crescita, è entrata in un’altra fase del suo ciclo di vita ed ha bisogno di un modello di gestione diverso.
Riconoscere questo passaggio e prendere le misure necessarie affinché i risultati acquisiti non si disperdano, ma possano essere consolidati ed accresciuti, è il punto centrale della questione.
Diversi imprenditori italiani si trovano di fronte a questa realtà, perché molte imprese sono state fondate negli anni 60-70.
Cambiare modello di gestione-specie quando questo è stato praticato per anni- è difficile anche se l’imprenditore riconosce che è necessario farlo. Ma il primo grande ostacolo è rappresentato dal fatto che la consapevolezza di tale necessità fatica troppo ad emergere e spesso giunge troppo tardi. L’imprenditore e quanti stanno intorno a lui avvertono, sia pure in modo confuso, di essere entrati in una fase nuova per via del sovraccarico di lavoro che li grava, del rallentamento delle decisioni, della necessità sempre più frequente di intervenire in forma reattiva- e spesso per aggiustare problemi che si presentano – anziché in forma proattiva, mediante la previsione e la programmazione. Ma non riescono a tradurre il malessere che percepiscono in un pieno stato di coscienza della nuova fase e della necessità di un modello di gestione diverso.
Quando questa consapevolezza affiora, rimangono le difficoltà di cambiare il modello che si è radicato nei comportamenti. Incertezza sul modello da adottare, paure istintive nel delegare, incapacità a gestire strumenti nuovi, spesso anche senso di onnipotenza per quello che si è costruito fino a quel momento: tutto ciò congiura a posporre il cambiamento.
Quando questo viene messo in atto, spesso intervengono ripensamenti che alle difficoltà già in atto aggiungono confusione e frustrazione.
Per tutti questi motivi sarebbe utile che un simile passaggio fosse programmato per tempo, preparato con estrema cura e realizzato attraverso un programma che tenga conto delle difficoltà, apprestando sistemi per affrontarle in modo professionale. […]

Se è vero che la visione a largo raggio è una condizione essenziale per guidare una impresa non è però detto che ogni singolo manager debba necessariamente mantenere uno zoom largo.
L’impresa è una forma di produzione superiore proprio in quanto organizza la specializzazione. Non dovrebbe destare preoccupazione il fatto che alcuni manager siano concentrati sulla ricerca dell’efficienza interna, che altri presidino il rapporto con il mercato di sbocco per coglierne o favorirne l’evoluzione; che altri sorveglino le fonti di produzione del know-how o delle tecnologie; che altri ancora si preoccupino di monitorare i mutamenti nel mercato dei capitali o le decisioni del mondo politico.
Ognuno guardando dal suo torrione presidia un lato del confine con l’esterno e da quello si confronta con chi arriva e chi parte.
L’importante è che l’insieme dei manager unendo le loro diverse prospettive riesca a fare il quadro corretto di quel che si muove, oltre che all’interno dell’impresa, anche nel suo contorno.
La necessità di specializzazione è inesorabile nelle cose: perfino all’interno dell’economia aziendale del management non è più possibile coltivare seriamente tutto lo spettro dei saperi.

Invocare la necessità che i manager abbiano una formazione generalista e sul campo mantengano uno spettro di azione ampio, fa parte di quelle utopie positive che mantengono la tensione verso un obiettivo alto e certamente valido ma purtroppo irrealizzabile.
A livello aziendale la risposta sta nel comporre un team di management, dove, mentre ognuno presidia la propria area di competenza, sia negli aspetti interni sia nelle relazioni esterne, si realizza un contesto organizzativo che consenta di costruire la visione d’assieme attraverso le interrelazioni quotidiane tra i vari manager, il sistema informativo, le riunioni periodiche, i momenti di elaborazione e verifica della strategia. Non a caso uno degli interventi di action learning sui quali investono le imprese meglio gestite, è proprio quello rivolto alla creazione di un team coeso, così come da tempo si fa negli sport collettivi…

Da La grande questione : a chi spetta governare l’impresa?

In ogni realtà nella quale si realizza uno sforzo di produzione collettivo e nella quale convergono a tal fine più soggetti portatori dei diversi fattori della produzione, si pone inevitabilmente la questione: a chi spetta prendere le decisioni? Più precisamente si pone la questione delle questioni: a chi spetti il potere sovrano dal quale poi, per delega, si dipanano i poteri delegati.
In una visione statica e di prima approssimazione si potrebbe chiudere la discussione con il richiamo alle leggi: sono queste che specificano a chi spettano tali poteri. Nella società di capitale ad esempio, le leggi definiscono la gerarchia di poteri attribuendo agli azionisti il potere estremo di nominare il massimo organo amministrativo (il consiglio di amministrazione), quello di controllo (il collegio sindacale) ed eventualmente anche organi di gestione esecutiva (il comitato esecutivo e/o l’amministratore delegato), riservando invece secondo le previsioni di statuto, ad uno di questi organi la successiva articolazione dei poteri in particolare quelli che spettano alla struttura dirigenziale. Il richiamo alle legge per quanto importante non esaurisce però il tema. Anzitutto è noto che la legge registra una valutazione storica che non è immutabile nel tempo: tanto che si susseguono i cambiamenti proprio alla luce di riflessioni su quale assetto corrisponda meglio all’evolversi dell’esigenze. In secondo luogo, la formulazione di legge, per quanto indichi la soluzione, lascia aperte questioni di applicazione che spesso diventano la sostanza del problema. […]

Il potere di governo non è affidato agli azionisti per questioni di censo o di classe o per altre questioni ideologiche: esso è loro assegnato per la diversa e più scomoda posizione contrattuale nella quale essi accettano di porsi sopportandoli rischio della perdita totale della remunerazione e del capitale pur di onorare gli impegni nei confronti degli altri soggetti.
La logica che ha portato all’attribuzione del diritto di governo agli azionisti e non ai creditori, spiega perché i lavoratori sono stati anch’essi esclusi dall’area di governo. Anche i lavoratori – come i creditori – stipulano un contratto che specifica a priori prestazioni e controprestazioni. Anzi, nei confronti di questi soggetti, e per la natura delle loro prestazioni, vi è semmai un’asimmetria a loro vantaggio. Il contratto è infatti in condizioni di specificare meglio le prestazioni cui è tenuta l’impresa (ad esempio le retribuzioni, le contribuzioni sociali, gli accantonamenti per fine rapporto), mente non riesce a garantire con altrettanta certezza, al di là di un generico impegno, che le prestazioni cui è tenuto il lavoratore si realizzino nei termini contrattualizzati. L’evoluzione dei meccanismi normativi in termini asimmetricamente garantisti nei confronti dei lavoratori e l’accrescimento del potere sindacale hanno aggiunto ancora più indeterminazione alle prestazioni cui il lavoratore è tenuto, mentre permane il dovere dell’impresa di onorare la sua prestazione, spesso perfino in presenza di inadempienza sostanziale della controparte. […]
In base a quanto affermato sopra sembrerebbe non esservi spazio alcuno per mettere in discussione l’attribuzione esclusiva del potere di governo agli azionisti. Perché allora si è affacciata l’ipotesi di attribuire poteri di governo ai lavoratori e perché si è affacciata in questa stagione? I motivi per i quali può affacciarsi un’ipotesi di inserimento dei lavoratori negli organi di governo sono diversi: possono essere motivi puramente ideologici partendo dall’assunto che le imprese sono uno strumento organizzativo per realizzare in forma collettiva un’attività tipicamente umana come quella della produzione. In tal caso si può immaginare che anche a prescindere dall’assetto di potere più efficiente da un punto di vista strettamente economico, tutti i soggetti si sentano titolati a rivendicare il diritto di essere rappresentati nelle sedi di governo, eventualmente in dosi e forme diverse in relazione alle diversità dei loro ruoli. Così è accaduto in alcuni paesi (Germania , Olanda ad esempio) nei quali è stato espressamente previsto, anche normativamente, di inserire rappresentanti dei lavoratori in qualcuno degli organi amministrativi per far loro condividere se non proprio il potere di gestione, almeno quello di indirizzo e di controllo. In altre realtà l’attribuzione ai lavoratori del potere di governo discende quasi automaticamente dall’assetto giuridico, qual è il caso delle società cooperative nelle quali il diritto di voto pro-capite è unico indipendentemente dal numero di azioni detenute.
Quando le regole di attribuzione del poter di governo non sono “pesate” dall’ammontare del capitale posseduto, i dipendenti che sono in condizioni più agevoli per organizzarsi hanno gioco facile nel conquistare la maggioranza degli organi amministrativi. L’esperienza dimostra che le imprese strutturate con questa forma societaria riescono a prosperare solo in presenza di due circostanze: quando il tipo di attività richiede una bassa intensità di capitale investito e quando l’evoluzione dimensionale procede gradualmente rendendo possibile un adeguamento del capitale di rischio essenzialmente per autofinanziamento. […]

Confrontando le due alternative – quella della mera partecipazione ai risultati economici con quella della partecipazione al capitale – si può rilevare che la prima può essere più interessante per i lavoratori perché non presuppone né esborsi per partecipare al capitale né rischio di perderli nel caso che l’impresa vada male. Consente di cogliere solo il versante positivo del rischio d’impresa, ma proprio per questo motivo la posta in palio non può che essere contenuta. La seconda soluzione coinvolge i lavoratori molto di più in quanto mette a rischio nel caso di risultati negativi la remunerazione del capitale da loro investito ed eventualmente perfino il recupero dello stesso. Li coinvolge di più anche in senso positivo poiché partecipano non solo ai profitti ma anche al governo dell’impresa ed all’aumento del valore delle azioni qualora l’azienda si sviluppi positivamente. Entrambe le alternative hanno molta più consistenza e più fondamento economico rispetto a quella di attribuire ai lavoratori il diritto di condividere il potere di governo a prescindere dal fatto che essi siano anche coinvolti nel capitale o nel perseguimento dei risultati di impresa. L’effetto più pieno si realizza proprio quando si agisce parallelamente sul fronte dei diritti e delle responsabilità, combinando un accrescimento dei primi con un ampliamento delle seconde.

Da Teoria del valore: serve davvero per guidare meglio le imprese?

Le carenze del criterio della massimizzazione del reddito
Questa nuova impostazione nasce da critiche che a più riprese si erano addensate sul principio della massimizzazione del reddito che per anni aveva costituito il caposaldo centrale della gestione: critiche in parte di natura concettuale, in parte di matrice tecnica.
Quelle di natura concettuale, spesso con sfondo anche ideologico, avevano attaccato anche con varie argomentazioni l’idea che la vita dell’impresa potesse essere regolata da un principio e da un criterio decisionale che tengono conto degli interessi di un solo soggetto, il conferente di capitale di rischio, relegando tutti gli altri soggetti apportatori di altri fattori di produzione, altrettanto importanti e talvolta anche più critici, in posizione secondaria.
Le critiche a contenuto tecnico si erano invece appuntate sulla inadeguatezza del principio della massimizzazione del reddito in ragione delle difficoltà nel misurarlo. Il reddito è infatti una tipica grandezza di periodo che scaturisce, oltre che dalle rilevazioni sistematiche della contabilità, anche dalle imputazioni e dalle stime di alcune grandezze che esplicano i loro effetti nel tempo sull’arco di più esercizi. Queste impostazioni e queste stime sono difficili da determinare da parte di soggetti neutrali con piena conoscenza della vita aziendale. A maggior ragione sono di difficile valutazione da parte di soggetti esterni non coinvolti nella gestione. Ne consegue che, là dove il controllo è distinto dalla proprietà e si pone il problema da parte di questa di delegare la gestione, il mandato conferito ai manager di dirigere l’impresa seguendo il principio della massimizzazione del reddito non è agevolmente controllabile, quindi in parte inefficace. Queste difficoltà di assumere il reddito come metro di misura della qualità della gestione sono aumentate durante gli anni di alta inflazione, per l’effetto distorsivo che questa aveva sui fenomeni contabili. In assenza di una specifica contabilità per l’inflazione, la presenza di redditi contabili positivi non era affatto indicativa di buona gestione, spesso celava anzi un depauperamento del patrimonio aziendale. […]

Ma a ben vedere, vi sono altre […] circostanze importanti che hanno messo in crisi il principio della massimizzazione del reddito come cardine ordinatore della gestione: da un lato il rilievo sempre maggiore, per determinare la competitività di un’impresa, delle competenze e delle attività intangibili; dall’altra la crescente separazione fra proprietà e direzione d’impresa. Il primo aspetto è rilevante perché quanto più la competitività è funzione di spese che si collocano come natura in un’area grigia, potendosi considerare spese correnti o alternativamente investimenti, tanto più diventa difficile monitorare i risultati osservando la formazione del reddito d’esercizio. Se poi lo stesso accumulo delle competenze – fra le quali vi è anche la creatività, l’applicazione, la capacità di anticipare i cambiamenti – è funzione non solo degli investimenti, ma del clima organizzativo e dei modelli di ripartizione del valore aggiunto, a maggior ragione la mera massimizzazione del reddito può produrre effetti controproducenti. […]
Negli ultimi anni, per rimediare alle distorsioni che possono essere indotte nella gestione qualora venga assunto come principio ordinatore la massimizzazione del reddito, si è fatta strada l’idea di traguardare le scelte con un metro diverso: quello dell’effetto che esse hanno sul valore degli azionisti, ossia sul valore del capitale economico. Anche se la determinazione di tale valore è essa stessa oggetto di non poche difficoltà di tipo tecnico-concettuale, la nuova impostazione ha il vantaggio di costringere il management a non farsi ipnotizzare dai risultati di esercizio, obbligandolo a valutare gli effetti delle scelte su un orizzonte temporale più lungo. Il valore del capitale economico è, infatti, una grandezza che, in misura più o meno rilevante, secondo il metodo scelto, è frutto dell’attualizzazione di flussi di reddito o di flussi di cassa futuri. Anche i metodi misti propugnati dalla scuola europea, pur includendo nella determinazione del valore i valori patrimoniali presenti, tengono ampio conto degli effetti futuri delle scelte.
I meriti della nuova impostazione non si fermano all’allungamento dell’orizzonte temporale. Proprio perché si avvalgono della tecnica dell’attualizzazione misurano anche il valore del tempo, riuscendo a discriminare la qualità delle alternative in relazione alla diversa sequenza temporale dei loro effetti. Infine, il metodo della massimizzazione del valore degli azionisti non si limita a considerare l’aumento o la diminuzione dei flussi di reddito o dei flussi di cassa (secondo che venga usato un metodo o l’altro), ma valuta l’uno o l’altra più o meno positivamente in relazione al capitale impiegato e al suo costo. Da questa prospettiva esso riesce anche, applicando tassi diversi di attualizzazione, a includere nella valutazione i diversi gradi di rischio che le varie alternative comportano.
Per tutte le ragioni dette, il metodo in questione costringe il management, nel momento in cui compie delle scelte, a prevederne gli effetti futuri. Per la sua applicazione concreta, le previsioni sui redditi o sui flussi di cassa futuri sono elementi necessari ed ineludibili. Fondandosi su previsioni, che per definizione sono difficili da compiere e soggettive, il metodo è inevitabilmente oggetto di dubbi, di controversie e di infinite discussioni. […]

Teoria ed obiettivi dell’impresa
Mai come in questi anni si sono susseguite le riflessioni per andare alla radice del problema: quali sono i fondamenti dell’impresa. Perché la produzione o la distribuzione non vengono realizzate in forma atomistica da singole persone, ognuna delle quali svolge una certa porzione del processo produttivo, integrandosi con gli altri attraverso gli scambi? Perché in certe condizioni l’integrazione tra singoli produttori è più efficiente se si realizza non attraverso il mercato, ma con meccanismi organizzativi interni ad una singola impresa?
A questi interrogativi sono state offerte diverse risposte, tutte convincenti per una parte, ma non altrettanto per altre. Sul tema hanno lavorato la teoria dei costi di transazione, quella dei contratti imperfetti, la scuola dei costi d’agenzia, il filone che vede l’impresa come un semplice nodo di contratti, gli studiosi più propensi a considerare l’impresa come una “comunità”. Queste impostazioni si differenziano e talvolta non poco, l’una dall’altra ma sono unite nel punto di partenza: l’impresa è un’aggregazione di più soggetti indipendenti legati fra di loro dal fatto di poter più facilmente realizzare i loro obiettivi congiuntamente piuttosto che singolarmente. Ognuno di questi soggetti ha il controllo su una risorsa che è ingrediente necessario del progetto d’impresa. Ognuno ha l’obiettivo di fondo di massimizzare il proprio benessere, anche se può essere occasionalmente disponibile ad atti di solidarietà. Ognuno ha un certo grado di libertà rappresentato dalle alternative rispetto al rimanere legato all’impresa, e agisce tenendo conto di questo maggiore o minore potere contrattuale. Le teorie a più marcato sfondo organizzativo ritengono che una volta che l’impresa è istituita, s’instaura tra i soggetti una rete di relazioni, non solamente di natura economica, che danno corpo ad una specie di realtà distinta dai singoli: un’identità di ordine superiore, impalpabile ma capace di ergersi in modo autonomo rispetto alla volontà dei singoli, come la bandiera del samurai morto nel celebre film di Kurosawa, che da sola terrorizza i nemici. Grazie a questo processo di sublimazione, l’impresa prende anima e corpo, come una persona reale istituzionalizzandosi fino a diventare qualcosa di diverso dalle persone fisiche che la compongono. Anche coloro che vedono l’impresa come un mero nodo di contratti che tengono uniti i vari soggetti per realizzare il progetto imprenditoriale sono obbligati a concepire l’esistenza, da un punto di vista giuridico, di una personalità distinta rispetto a quella dei soggetti coinvolti. Personalità che in questa versione non ha volontà, ma ha però diritti e doveri.
L’identificazione dell’obiettivo primario dell’impresa si collega direttamente alle questioni illustrate. Com’è possibile - sostiene qualcuno – attribuire un obiettivo ad una realtà trascendente, qual è l’impresa? Solo le persone hanno volontà e quindi obiettivi. Pertanto vi saranno obiettivi degli azionisti che apportano il capitale di rischio; obiettivi dei finanziatori che forniscono il capitale di credito; obiettivi dei lavoratori che conferiscono le loro prestazioni professionali; obiettivi dei dirigenti che hanno la responsabilità della gestione. Ci può mai essere un obiettivo dell’impresa, in quanto entità che trascende i suoi singoli componenti? Nel caso che la risposta sia positiva, è plausibile che questo obiettivo comune sia quello della massimizzazione dei redditi o del valore economico del capitale, che sono invece obiettivi di “parte”, riguardando solo gli azionisti?[…]

La massimizzazione degli interessi degli azionisti attraverso una redistribuzione dei profitti o del valore dell’impresa
Come accennato la massimizzazione del valore per gli azionisti vuole sostituire – come principio ordinatore della gestione – il criterio della massimizzazione del profitto, con il fine di ampliare l’orizzonte temporale, di dare un valore al tempo, di tenere conto non solo del profitto, ma anche della creazione di valore che non passa attraverso il conto economico (ad esempio la creazione di un marchio). Anzi, quest’impostazione vuole traguardare gli effetti delle varie scelte su più esercizi, proprio al fine di evitare che scelte di breve – compiute nella logica di massimizzare il profitto d’esercizio – non compromettano la competitività e i profitti futuri. Nelle sue versioni più sofisticate essa è in grado di catturare i benefici che si accumulano in capo agli azionisti anche quando non prendono la forma di redditi nei conti economici, ma piuttosto di spese per favorire un accumulo di competenze, di notorietà di know-how. […]
Una recente ricerca in Germania dimostra quanto sopra: il total shareholder return è tanto più elevato quanto più le imprese investono sui loro dipendenti e quanto più li coinvolgono con logiche imprenditoriali nei comportamenti e nella ripartizione dei profitti. Quella che deve essere abbandonata è l’impostazione che presuppone che per massimizzare il valore degli azionisti si debba sacrificare quello dei lavoratori, perché così facendo si distrugge, non si potenzia la capacità di reddito.

Da L’impresa schiacciata fra la pressione dei mercati e la responsabilità sociale

Le scosse telluriche che minacciano il sistema capitalistico
A distanza di qualche anno la superiorità del modello capitalistico rimane confermata. Ma cominciano ad emergere inquietudini per il fatto che tale modello, nonostante la sua superiorità, da un lato non attecchisce in molti paesi che ne avrebbero bisogno, dall’altro non produce un’equa diffusione del benessere, in quanto amplifica, anziché ridurre le disuguaglianze, sia all’interno dei paesi sia fra i paesi, dall’altro ancora, per le energie che sprigiona contiene rischi di implosione e non sembra in grado di far fronte ai gravi rischi ambientali che incombono sull’umanità.
Queste inquietudini scaturiscono da più parti, a livelli diversi e con frequenza crescente. Dall’esterno, il movimento no-global catalizza alcune di queste inquietudini, raccogliendo gli umori e le resistenze di quanti vedono nella concorrenza e più ancora in quella su scala mondiale, una minaccia all’equilibrio economico ed all’ordine sociale, anziché una fonte di benessere. Sempre dall’esterno, ma con un livello diverso di reazione, si collocano i movimenti radicali anticapitalistici islamici culminati con l’attacco dell’11 settembre alle due torri di New York. Di tono nettamente diverso, ma anch’esso riflesso di una preoccupazione crescente, sono le critiche interne al sistema: quelle della comunità europea con il libro bianco sulla governance – maggio 2001 -, gli ammonimenti di Kofi Annan sulla responsabilità sociale delle imprese, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente denominato “L’industria, un partner per lo sviluppo durevole” giugno 2002, i richiami della FAO sulle disuguaglianze economiche, sulla fame e sul fatto che oltre la metà della popolazione vive in condizioni di grande indigenza.