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Poesie - Andrea Zanzotto



lunedì 11 dicembre 2006 legge Alberto Bertoni
Uno dei più grandi poeti del secondo novecento ha compiuto in ottobre ottantacinque anni. La sua poesia è una distanza nel profondo, un luogo-lingua, ironico, sperimentale, una concrezione geologica - è conosciuto l’interesse o meglio la preoccupazione del poeta per il disastro ecologico, per le mutazioni metereologiche. Il paesaggio di Zanzotto non è solo superficie, espressione lucida e orizzontale, rasserenante, ma movimento tellurico, scatenamento energetico.
Le faglie, le scorie, le stratificazioni, la natura ctonia, il sottosuolo verminoso della lingua, sono i temi cari di una poesia che valica un cinquantennio sempre rinnovandosi e sempre scavando in una terra-carne di straordinaria attualità.
Alberto Bertoni, dopo il recentissimo convegno curato dal dipartimento di Italianistica di Bologna, dà voce a una serata di lettura in cui, da Dietro il paesaggio a Meteo, buona parte della ricchissima produzione poetica di Andrea Zanzotto verrà percorsa in assaggi “cauti e rabdomantici/ come mosse di biopsie o di liturgie”. 


Da Dietro il paesaggio

QUANTO A LUNGO


Quanto a lungo tra il grano e tra il vento
Di quelle soffitte
più alte, più estese che il cielo,
quanto a lungo vi ho lasciate
mie scritture, miei rischi appassiti.
con l’angelo e con la chimera
con l’antico strumento
col diario e col dramma
che giocano le notti
a vicenda col sole
vi ho lasciate lassù perché salvaste
dalle ustioni della luce
il mio tetto incerto
i comignoli disorientati
le terrazze ove cammina impazzita la grandine:
voi, ombra unica nell’inverno,
ombra tra i dèmoni del ghiaccio.
Tarme e farfalle dannose
topi e talpe scendendo al letargo
vi appresero e vi affinarono,
su voi sagittario e capricorno
inclinarono le fredde lance
e l’acquario temperò nei suoi silenzi
nelle sue trasparenze
un anno stillante di sangue, una mia
perdita inesplicabile.

Già per voi con tinte sublimi
di fresche antenne e tetti
s’alzano intorno i giorni nuovi,
già alcuno s’alza e scuote
le muffe e le nevi dai mari;
e se a voi salgo per cornici e corde
verso il prisma che vi discerne
verso l’aurora che v’ospita
il mio cuore trafitto dal futuro
non cura i lampi e le catene
che ancora premono i confini.




Da Elegia e altri versi

ELEGIA



Pullula invano la sera di dolente
verde e di tardi monti,
la tua terra si vela di amori profondi,
fiumi e vallate divengono memoria;
sta la mia sorte con te, con la tua
che già di grigie note punge i capelli stanchi,
e fervono i pianeti dal colore d’arancio
oltre mozze rovine pei cieli invernali,
celebra il vuoto dei cortili scoperti
le ardue nozze delle colonne e dei colli.
Questo è il talamo tuo che precorre la selva
quello è il vitreo giaciglio delle brina,
e Vespero, natura umana,
e una stella di pace e di volontà buona
tocca i primi terrori, soggiace
alla fosca vigilia che in sé già ci distrae.

Tu stai, né più cura hai dell’umile
palpito ovino che ha la tua strada
se da notte a notte la guardi languire,
la tua nuca non cura
me e l’oriente ove vibra
l’illusorio vigore del frumento;
le tue spalle cui preme l’oblio
la tua mente che infrange altra legge
già da tanto giacquero, e trema e s’abbassa
l’oro natalizio della stella
di Vespero tra i capelli
tuoi che nota furtiva la morte.

Non puoi dirmi la ruvida pioggia
che di sé ci stordiva
e che improvvisi spazi e primavere
ci rovesciò vive negli occhi,
non puoi dirmi la grandine fresca
che in fuga volò dalla nube
a pettinare paesi frettolosi,
né l’erba grande nei giardini
né i grandi pomi dell’agosto,
nulla puoi dirmi nulla so nulla vedo;
ma di quel cibo ora il seme perduto
lungo cieche ansie notturne ricerco
nel campo dissestato e le ore anno e nera
sarà più l’alba che i grumi dei monti,
l’alba nera con acide palpebre
ci secernerà nella valle del mondo.

E da ghiacci orgogliosi a iride levando
Spoglierà il vento le nari,
le viscere stente, la tosse,
e tra poco lo stretto petroso
focolare che ignora la fiamma
rabbrividirà di lumache e id crete
cerule all’orlo della solitudine,
gemerà di stanchezza la campana
che offesa trapela dal cielo,
l’iride irrisa tremerà
tremerà nell’inverno
su chine e chine avide di paesi.

Ho coinvolto sole e luna nella mia sorte,
ho seguito le aperte promesse dei fiori
e la stagione che tutto presume, la bocca
rossa, gli occhi e il profilo che stimola e schiara
il mutevole margine delle radure
ed il pesco boschivo,
ho seguito la tua
piccola casa dall’ombra
riconosciuta familiare
anche tra i denti raggianti impetuosi
delle estati che saranno,
tra i pensieri implacati
tra le moltitudini e i giorni. Ma stanche
ora le mani sul parapetto a luci
di logge s’esalano, inverno
senza requie logora presagi
e moti d’alberi tristi lungi affila.



Da Vocativo

COLLOQUIO


«Ora il sereno è ritornato le campane suonano
Per il vespero ed io le ascolto con grande dolcezza.
Gli uccelli cantano festosi nel cielo perché? Tra poco
è primavera i prati meteranno il suo manto verde, ed io come un fiore appasito guardo tutte queste meraviglie»
SCRITTO SU UN MURO DI CAMPAGNA



Per il deluso autunno,
per gli scolorenti
boschi vado apparendo, per la calma
profusa, lungi dal lavoro
e dal sudato male.
Teneramente
sento la dalia e il crisantemo
fruttificanti ovunque sulle spalle
del muschio, sul palpito sommerso
d’acque deboli e dolci.
Improbabile esistere di ora
in ora allinea me e le siepi
all’ultimo tremore
della diletta luna,
vocali foglie emana
l’intimo lume della valle. E tu
in un marzo perpetuo le campane
dei Vesperi, la meraviglia
delle gemme e dei selvosi uccelli
e del languore, nel ripido muro
nella strofe scalfita ansimando m’accenni;
nel muro aperto da piogge e da vermi
il fortunato marzo
mi spieghi tu con umili
lontanissimi errori, a me nel vivo
d’ottobre altrimenti annientato
ad altri affanni attento.

Sola sarai, calce sfinita e segno
sola sarai in che duri il letargo
o s’ecciti la vita.

Io come un fiore appassito
guardo tutte queste meraviglie

E marzo quasi verde quasi
meriggio acceso di domenica
marzo senza misteri

inebetì nel muro.



Da La Beltà

ADORAZIONI, RICHIESTE, ACUFENI

Sul prato sullo sprone di ghiaccio.
Ghiaccio di aprile, e che cosa
è stato tutto questo chiedere?
Questo voler adorare? Ma che è questa storia dell'adorare?
Adorate adorate. Fischi negli orecchi.
E dov'eri (pensiero: no; azione: no;
amore: no; paesaggio: no)?
Ora vien meno anche il potere di tremare,
tu che tremi là in fondo,
ah che svolta faticosa, che notte.
Ma ricordati di atterrare a regola
ricorda l'impatto. Come - quella volta - se mi avessero
meramente, appena...
Oh, animo animo. Calci, colpi di piede. Acufeni.
Eccomi, ben chiedere lungo chiedere,
eccomi, Dell'adorare
-avevi un Dell'adorare, tu! -
toutes ces historiettes de femmes, de belles, de fi-
Oh, ma con altro spirito vengo.
Io spiro spirito.
Che fantasia in quelle boscaglie e paesi exlege,
ma il loro nome mi cade via anche se non intesi
ragione più valida, più sacertà.
Condizionami se vuoi ma.
Che lunga escalazione d'anni prima e dopo,
così simili al niente come io che giocavo-indicavo
simile al niente
simile strettamente simile.
Giocavo nel cortile
industriosamente rottami e rottami in cortile,
adoravo, quanti cortili-beltà.
Ah mammina vera
non perdermi nella notte nera-nera.
«Ma sono già la notte» suona tutto.
Tu ti volgi al trepestio
che è là, impaurita o
incretinita ascolti. Nonsense, pare?
Nonsense e nottinere? Acufeni?
E io, che vi facevo che vi aspettavo che vi adoravo?
E poi tu strafai strabocchi.
Ti imponi qui - stare alla lettera
credere sulla parola -
con biro. Vicisti.
Intravisto
attraverso il verso più impervio della situazione:
«e 'vée paidi tut»



Da Il Galateo in Bosco


Dolcezza. Carezza. Piccoli schiaffi in quiete.
Diteggiata fredda sul vetro.
Bandiere piccoli intensi venti/vetri.
Bandiere, interessi giusti e palesi.
Esse accarezzano libere inquiete. Legate leggiere.
Esse bandiere, come-mai? Come-qui?
Battaglie lontane. Battaglie in album, nel medagliere.
Paesi. Antichissimi. Giovani scavi, scavare nel cielo, bandiere.
Cupole circo. Bandiere che saltano, saltano su.
Frusta alzata per me, frustano il celeste ed il blu.
Tensioattive canzoni/schiuma gonfiano impauriscono il vento.
[[Bandiere.
Botteghino paradisiaco. Vendita biglietti. Ingresso vero.
Chiavistelli, chiavistelle a grande offerta.
Chiave di circo-colori-cocchio circo. Bandiere.
Nel giocattolato fresco paese, giocattolo circo.
Piccolissimo circo. Linguine che lambono. Inguini. Bifide
trifide bandiere, battaglie. Biglie. Bottiglie.
Oh che come un fiotto di fiotti bandiere balza tutto il circo-
Biglie bowling slot-machines trin trin stanno prese [[cocò.
nella lucente [ ] folla tagliola del marzo -
come sempre mortale
come sempre in tortura-ridente
come sempre in arsura-ridente ridente
E lui va in motoretta sulla corda tesa su verso la vetta
del campanile, dell'anilinato mancamento azzurro.
E butta all'aria. Bandiere. Ma anche fa bare, o fa il baro.
Bara nell'umido nel secco. Carillon di bandiere e bandi.
S'innamora, fa circhi delle sere.
Sforbicia, marzo. Tagliole. Bandi taglienti. Befehle come
[[raggi e squarti
Partiva il circo la mattina presto -
furtivo, con un trepestio di pecorelle.
Io perché (fatti miei), stavo già desto.
Io sapevo dell'alba in partenza, delle
pecorelle del circo sotto le stelle.
Partenza il 19, S. Giuseppe,
a raso a raso il bosco, la brinata, le crepe.



(Certe forre circolari colme di piante -e poi buchi senza fondo)
Dovrebbero gli assaggi essere cauti e rabdomantici
come mosse di biopsie o di liturgie -
e per questo fecondi, come tu li accordi per tua natura
anche quando pare tu li ricalci,
quando tu falci all’
improvviso ogni cammino -
tabù
di piante invorticate e rintanate giù giù:
……………………………………
e nessuno nessuno nessuno
divinerà toccherà eviterà
con bastante allarme bastante amore
- o bosco ancora e sempre rapinatore
entro il tuo stesso vantarti fantasma-
nessuno rasenterà con adeguato rapimento
e pallore di morte e di speranza
il tuo irriccirti in divieti/avvitamenti,
i tuoi grumi di latitanza,
i crolli rabbiosi nei buchi delle tue tenebre
che sono scrolli graziosi entro gli scrigni delle tue tenebre-
finte fosse comuni di potentissime essenze,
miniaturizzate foreste di incognite che
nessuna iattanza o farsa umana sconvolse del tutto:
nidi, allora, di resistenze,
di pericolosi mitragliami rametti-raggio
Ma a tanta grazia senza limitazione incrudelita
che s'inserpenta sotto
come per uno scatto
o, soltanto, crucciata e sfregiata
in chivalà rattratti si demarca,
è riservato
appena dare segnalazioni a stelle di passaggio
a cavalieri erranti
obliquamente usciti dal teleobiettivi
a don Abbondi in cerca
dell'erboristeria del coraggio
a dèi carcami e feti scagliati nel motocross
di rabbia in rabbia
verso l'ebbrezza dell'ultima faglia
O gangli glomii verdi di paure,
paure-Pizie, incriptati piziaci sbavaggi e fonemi -
con passi liturgici, con andirivieni liturgici
imposti dalle vostre
topografie note soltanto a Comandi Supremi,
guidateci ai santi ossari
dove in cassettini minuscoli
han ricetto le schegge dei giovinetti fatti fuori
Con passi liturgici con andirivieni liturgici
distratti rabdomantici come entro al coma solitari
calcoleremo a un press’a poco il disavanzo
verso quelle scheggine, stuzzicadenti
alla mensa della Vecchia di Spade -
qua e là sotto importune disperse date di comete e lune
tra infezioni e iatture o sobbalzi di moto ruggenti
tra feste intestinali e zone militari

Passare alla morsura



Da Idioma

VERSO IL 25 APRILE

Trissotin:
Vous avez le tour libre, et le beau choix des mots.
Vadius:
On volt partout chez vous l'ithos et le pathos.
(MOLIÈRE, Les femmes savantes)
Nel tempo quando avevo i sentimenti,
da cui nessuna forza poteva ripararmi
nessun noa né tabu
il 25 aprile andando per i cippi
dei caduti, come per le stazioni di un calvario,
sopraffatto tremavo, e poi dalla piccola compagnia mi defilavo
come in una profonda definitiva pioggia.
Il vostro perire - nel sacro della primavera -
mi sembrava la radice stessa di ogni sacro.
Anche se per voi, certo, non lo era.
Anche se eravate scomparsi una sera
presi da batticuore, ormai rimossi da impatti col vivente
proprio per l'essere stati fino-al-picco del vivere.
Io no. Scrivevo in quegli anni entro gli annali della mia morte,
deliravo sul verde delle piante, sulla beltà,
senza perdonarmi ignoravo, quasi, ogni assenza
e svanimento con me, nella mia omertà.
Ora mi pare di vedere, con onesta ebetudine
e insipidire dei sentimenti, il tradirsi
di tutto in molte friabili forme
senza arrivare a un niente veramente accettabile,
reo totale come si vorrebbe;
e l'adombrarsi di ora in ora
mi pare una fatata legge, con una sua eleganza,
e il silenzio non dista dal grido -
piamente connessi chi sa dove
entro la tresca fuggente di questi prati e forre. Ma:
lo sterminio è ovunque e sempre in atto
mai c'è stato armistizio dopo l'eroica emergenza
e la morte-di-paglia si fa di gran lunga più orribile
che quella per piombo nel tempo
[[sadico/mitico.
Allora: vedere senza battere ciglio, come al frullare
dello sgricciolo nulla batte ciglio
tra gli spogli cespugli del clivo di Carbonera.
E questa dunque la saggezza perversa della sera?
E questa la congiunzione alla sapienza,
la farneticata ieri come vera
congiunzione al coraggio?
Ora, compagni, amici, né-amici, né-compagni -
dèi per me malgrado voi stessi -
avvicinandomi per cumulo di età
e per corrosione a quel punto
in cui voi foste allora -
mi riconduco, osando muto, ad allora, per voi;
e sono partecipe, finalmente, delle azioni
da cui mi distoglieva il deliquio amoroso e pauroso
anche se in esse ero travolto. Mi pare

……………………………………………..
Mi pare, e con mano assisto la tenerezza e il profumo
non ancora del tutto spento,
e i tracciati dei viottoli i fogliami e i filamenti vitali;
con mano assodo i pregi dell'essere vissuto,
e passato a un millimetro da dove
la selva e il vostro sangue
si sfiniscono, incespicano, sputati fuori mano.
se ancora si gira per i cippi
- emersi a picco -
- nel sacro della primavera -
su cui segni scivolano immolati
al rituale autovomitarsi di ogni storia
al non-farsi-capire di ogni ammicco,
allo sbrindellarsi del tessuto di comuni allusioni,
mi ribello, ribelle come voi allora,
e mi traluce bruciando un disincarnamento di me, del mondo,
mi s'impone un giusto adorare penando
un giusto richiamarsi all'obbligo
di ethos e pathos anche se i più arcanamente sfigurati
un giusto bestemmiare moduli e ragioni, nel furore
di un pianto che l'archiatra sommo dirà causato
dal remoto, dal lontano, dall'-alto-dei-cieli, dal vietato
ad ogni aggancio - mera verberazione
fustigazione compiuta a mio danno da falsi paesaggi
interni ed esterni
o semplicemente «da stanchezza, da insonnia».
E, sono pronto, insonnia
fuoco e parto che non si rilassa, intrigoso braciere.
Ecco, capisco che la praxis la poiesis adescano solo poche cose
quando vedo i vostri nomi
nemmeno sforzarsi più di galleggiare sulla pietra
e voi non siete più qui, ne altrove; noi v'inseguiamo
lungo il falso itinerario dei cippi, sudando, o sotto i rovesci
[[della pioggia
delle memorie, delle folate eroiche;
se nemmeno in questo-qualche-modo siete ormai stati,
nemmeno, ora, noi, siamo, qui.
Allora soltanto se se un'insonnia
bestemmiante braciere ripeterà i vostri nomi
nei luoghi dell'insonnia, della pretesa
Ecco queste sono le pretese dell'insonnia
anche questo pretendere di darne intepretazioni
ithos pathos
bestemmiarono i cespugli sommessamente
cippi hipnos pretendere
……………………………………………….

Per me il buon calore e il tanto latte dei sentimenti
Ebbe sempre nel fondo un elemento di nera esaltazione.
Erano ferite dentro le colline
Nei fianchi giovani e amorosamente annosi del folto;
e io le vedevo e amavo
cercavo di sopperire a quanto esse esigevano.
In quel mio remoto
smontare e rimontare oggettivi – da
fanciullo iracondo, implacabile –
voi che innocenti come guizzi di ruscello
come stellari girini svaniste nel sangue,
ora entrate – o eravate già entrati allora?
E non so come, fate vostro quel ch’era mia turpe sacralità,
lo portate sensuato e senziente
nel vostro assoluto assolvimento
in ciò che punta i piedi seppur
senza più rendersene conto
non culla non tomba non segno
e neppur scoppiettare maligno d’insonnie/sogni
(ithos) (pathos)



Da Meteo

Currunt

Papaveri ovunque, oggi, ossessivamente essudati,
sudori di sangui di un
assolutamente
eroinizzato slombato paesaggio,
sudore spia
di chissà quale irrotta malattia
- mala mala bah bah tempera currunt bah bah -
o stramazzata epilessia
Ora non strati a strati accordati
in fervidi iati o contatti o spartiti
ma fole di confusamente
e no, no, mai
intercettabili da menti currunt
Prati-sfatti-fucine
di nuovissime zanzare-tigri
di zecche-Lyme
di matrie stuprie
di patrie rebus-pus
sotto cieli franati nello stupore stesso
di sé-rottami inani currunt
Papaveri, chi cerca che? bah bah
Di che, papaveri, esantemi teoremi
Stridii?
Ii? Ii? Ii? bah bah
Nessun consuntivo Papaveri,
mie anime già miriadi e in mille,
siti e situazioni sempre vigili,
o così finemente accorti nel più soave
appena-esistere

(anni ‘91-’93)