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L’informazione di guerra - Ignacio Ramonet






lunedì 28 febbraio 2005 legge Paolo Serventi Longhi
Chi controlla l’informazione televisiva controlla la democrazia. (Karl Popper). Ma chi controlla i giornalisti?, quali possibilità reali hanno di essere se stessi, indipendenti, “con la schiena dritta”? I condizionamenti, internazionali e nazionali, sono enormi. Cosa significa, oggi, “fare il giornalista”?
A questa domanda cercherà di rispondere Paolo Serventi Longhi, segretario nazionale dell’FNSI, il sindacato dei giornalisti italiani, attraverso la lettura di un testo di Ignacio Ramonet sul giornalismo di guerra, e sulla situazione di oggi in Iraq.
Dice Ramonet: “Negli Stati Uniti alcune recenti statistiche rivelano che più del 60% dei giornalisti ritiene che il loro comportamento nella guerra in Iraq non funzioni, dimostrando che esiste un disagio generale all’interno della categoria che non riesce a lavorare correttamente. Il New York Times ha pubblicato un articolo in cui i suoi inviati riconoscono di aver insistito eccessivamente sulle armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq partendo da fonti che si sono rivelate false, come la testimonianza di Chalabi diffusa dal Pentagono.Oggi il problema delle nostre democrazie è quindi la deficienza dei media che, al contrario, nel passato, costituivano una garanzia del buon funzionamento della democrazia stessa”.
Oggi, nei giorni stessi in cui stiamo vivendo il dramma del rapimento di Giuliana Sgrena, questi problemi sono centrali, all’attenzione di tutti. Ma ogni singolo giorno i giornalisti rischiano, quando affermano il loro mestiere, anche sul fronte interno. E insieme a loro rischiano tutti i cittadini, nel loro diritto a “essere informati”, rischia la democrazia.

Da A.A.V.V, Guerra e informazione. Un’analisi fuori da ogni schieramento, a cura di Maurizio Torrealta, Sperling 2004


Breve storia dell’informazione di guerra
Di Ignacio Ramonet
28 maggio 2004

La fotografia al fronte: la guerra di Crimea

Le guerre sono vecchie come il mondo, ma l’informazione di massa che le racconta ha una storia molto più breve.
Quale sia stata la prima guerra a essere presentata e raccontata da mezzi di comunicazione di massa è un punto sul quale gli storici non concordano. Probabilmente si tratta della guerra di Crimea. Nel 1854 Francia e Inghilterra, affiancate alla Turchia, si schierano contro la Russia per contenderle il controllo sul Mar Nero. La Russia, infatti, avendo sconfitto i turchi in una battaglia navale, era diventata una presenza dominante su tutto il Mar Nero; Francia e Inghilterra decidono quindi di attaccarla, temendo che questa potenza estenda il suo potere fino al Mediterraneo. La Francia organizza una spedizione inviando 200.000 uomini: un numero enorme, se si considera che oggi i soldati USA in Iraq sono 230.000. Si tratta già di una guerra dell’era industriale, contemporanea all’introduzione delle ferrovie e delle artiglierie pesanti, poiché utilizza armi relativamente moderne. L’assedio di Sebastopoli, che dura un anno, provoca un gran numero di vittime in un brevissimo lasso di tempo.
E’ in questa occasione che viene sperimentata la fotografia, ovvero la riproduzione meccanica di uno scenario bellico, introducendo una significativa rivoluzione rispetto all’epoca precedente, in cui il compito di lasciare una traccia grafica o iconografica della guerra era affidato al lavoro di pittori e disegnatori che affiancavano gli stati maggiori degli eserciti. Della conquista francese dell’Algeria nel 1830, al tempo di Luigi Filippo, per esempio, ci sono pervenute diverse tele eseguite da pittori di guerra.
Confrontando le fonti fotografiche con altri elementi che ricostruiscono la storia della guerra di Crimea si hanno risultati molto interessanti. Le immagini non riescono a rendere conto dell’intensità dei combattimenti: a causa del lungo tempo di esposizione necessario per impressionare le pellicole di nitrato d’argento, si fotografano solo oggetti immobili come fortificazioni, guarnigioni, guardie o cadaveri, escludendo dalla rappresentazione il movimento. Per avere immagini che documentino le azioni di guerra bisognerà aspettare l’introduzione della tecnica della fotografia istantanea, alla fine del secolo.
Questo sembra essere il motivo per cui la guerra di Crimea è oggi una guerra dimenticata perfino in Francia, nonostante rappresenti una vittoria costata a quel Paese decine di migliaia di morti.

La nascita della stampa di massa

Alla pratica della fotografia in guerra, che rappresenta il primo tentativo di informazione, fa seguito il fenomeno della stampa di massa, che si afferma alla fine del XIX secolo grazie allo sviluppo di alcuni aspetti tecnici e sociali.
Una vasta politica di alfabetizzazione, anche se intrapresa all’epoca solo in poche nazioni, crea un pubblico di lettori sufficientemente ampio, mentre la linotype e la macchina rotativa permettono di stampare velocemente milioni di esemplari. La linotype, macchina per la composizione monolineare di righe tipografiche, è usata per organizzare parole mediante matrici e per la fusione delle righe in un solo pezzo; le righe, legate insieme, formano le colonne del giornale. L’invenzione della rotativa, la macchina da stampa a cilindri in movimento continuo, consente una tiratura di centinaia di migliaia di giornali in tempi brevissimi.
Il quarto elemento che rende possibile una stampa di massa è la disponibilità di carta a basso costo. La carta è un’invenzione cinese molto antica, ma arriva in Europa solo intorno al 1300, passando per i Paesi arabi. Il costo della cosiddetta “carta bibbia” risulta da principio troppo alto per produrre giornali, poiché si ricava trattando la stoffa. Da qui prende origine la figura degli straccivendoli, che acquistano vecchi tessuti, per lo più abiti, all’0epoca ancora prodotti artigianalmente e quindi molto costosi; solo all’inizio del XIX secolo, con l’affermarsi dell’industria tessile e della macchina a vapore, si rendono disponibili grandi quantità di tessuti a asso costo. Verso la metà del secolo, si arriva a produrre carta ricavata da materiale rinnovabile, che fa crollare i costi di produzione: è quella estratta dal legno, chiamata “stampa gialla” negli Stati Uniti per il suo caratteristico ingiallirsi all’uso.
Oltre a queste quattro condizioni tecniche, è necessario, per la diffusione della stampa, il progresso di un particolare aspetto della dimensione sociale: la libertà d’espressione, frutto di istituzioni democratiche che si svilupperanno molto più lentamente.
La stampa di massa si afferma più rapidamente negli Stati Uniti, seguiti dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Germania.

L’informazione di massa racconta la guerra

Proprio le guerre combattute dai Paesi in cui si è diffusa la stampa di massa verranno illustrate e trattate da una prima forma di informazione di massa. Contemporaneamente si differenziano le guerre narrate dalle guerre dimenticate, avvenute, queste ultime, in Paesi in cui la stampa non si è sviluppata.
La guerra di Secessione americana del 1861 utilizza il sistema informativo di massa. La possibilità di scattare fotografie al fronte e di inviarle tramite telegrafo crea la nuova figura professionale del reporter, un corrispondente di guerra che si reca nel cuore del conflitto per trasmettere le proprie impressioni. La stampa americana si sviluppa così molto rapidamente, non solo a New York, con una guerra descritta per la prima volta con toni sensazionalistici e spettacolari.
Allo stesso modo la stampa britannica tratta la guerra dei boeri, combattuta a cavallo tra Ottocento e Novecento nell’Africa del Sud tra i discendenti dei coloni olandesi e i britannici che vogliono occuparne i territori. Si tratta di un conflitto che presenta molti elementi tipici delle guerre del XX secolo, poiché si scontrano bianchi contro bianchi e si impiegano, per la prima volta, i campi di concentramento. Il conflitto è seguito da informatori e giornalisti con vividi reportage dalle zone di guerra che rendono conto della complessità dello scenario bellico, anche se con un punto di vista ovviamente anglosassone.
Nello stesso periodo, il conflitto tra la Russia e il Giappone, al contrario, non presenta testimonianze di massa. Analizzandone le cause, troviamo che entrambi i Paesi sono retti da regimi autocratici, con una politica di controllo dell’informazione in Giappone e un elevato tasso di analfabetismo in Russia.

L’esempio americano della libertà d’informazione

Il conflitto della prima guerra mondiale apre la strada a una forma di concentrazione di tutte le innovazioni tecniche del giornalismo. Quella del 1914- 18 è la prima guerra di massa, la prima in cui tutti i Paesi impegnati inviano al fronte soldati provenienti dalla coscrizione, la prima in cui il servizio militare obbligatorio coinvolge nelle battaglie le masse intere, e non più solo professionisti, la prima in cui i militari sono alfabetizzati. La gente partecipa a questa guerra con una concezione più precisa della storia grazie all’istruzione pubblica generalizzata, che si accompagna naturalmente a un forte spirito nazionalistico.
Il modo in cui il popolo di ciascun Paese combattente percepisce il conflitto in corso è legato alle istituzioni politiche del Paese steso: ritengo più interessanti, e a essi intendo rivolgere la mia analisi, quelli che, come Francia, Inghilterra e Stati Uniti erano retti da sistemi democratici.
E’ importante notare, per esempio, come la Francia inventi proprio in questi anni la censura sui media. Le informazioni sulla guerra vengono controllate, in questo caso, dall’esercito, come a dire: “La democrazia va bene, ma non in tempo di guerra”. La guerra viene a costituire uno stato di eccezione che permette allo Stato di mettere tra parentesi alcune libertà democratiche. Tutte le informazioni provenienti dal fronte- la stampa, ma anche le lettere scritte dai soldati-, sono sottoposte a censura. In questo modo, le retrovie non possono accedere alla descrizione dei combattenti che hanno luogo sul territorio delle operazioni belliche; la vita immobile delle trincee, le insurrezioni, le ribellioni dei soldati che reagiscono contro generali inetti non vengono trasmesse al pubblico. L’unica lettura autorizzata è quella che presenta la guerra in una dimensione vittoriosa.
E’ in questo periodo che nasce in Francia un giornale satirico, spesso sottoposto a censura, che esiste ancora oggi, Le Canard enchainé, “L’Anatra incatenata”, con l’intento di fornire una controinformazione; viene formulata in questa occasione l’espressione bourrage de crane, “imbottire il cervello di fandonie”, con la quale si continua a criticare il sistema d’informazione ufficiale.
Gli Stati Uniti, al contrario, entrano nel conflitto nel 1917 come una società di massa e trasformano radicalmente la guerra e il modo di raccontarla, perché lo fanno attraverso un’informazione libera. Corrispondenti celeberrimi accorrono al fronte per conto della stampa americana e canadese: Ernest Hemingway, per il Toronto Star, presenta gli aspetti più agghiaccianti della guerra, in piena libertà espressiva; il grande romanziere John Dos Passos, anch’egli addetto alle ambulanze della Croce Rossa, descrive ai lettori americani l’uso dei gas, la vita in trincea, i pidocchi, le malattie, gli orrori delle battaglie, i morti a migliaia nell’arco di qualche minuto, come quelli della Marna.
Le immagini fotografiche dal fronte divengono veri e propri reportage con la messa a punto della prima macchina istantanea, la Leica, che nelle mani di reporter fotografici leggendari, quali l’americano Robert Capa, racconta la guerra civile spagnola del 1936- 39.
Vi sono quindi due modi di interpretare lo stesso conflitto. La lettura francese e inglese è frutto della censura, mentre la concezione americana offre una visione molto più libera, poiché il giornalista statunitense è protetto dal primo emendamento della Costituzione, che, in un certo senso, lo obbliga a tenere informati i lettori.
Un esempio di quanto detto si avrà durante la seconda guerra mondiale al Addis Abeba, dove il noto inviato del New York Times Herbert L. Mattews racconterà l’utilizzo dei gas contro la popolazione civile e i bombardamenti a opera dell’esercito mussoliniano, lasciandoci una testimonianza del tutto diversa da quella offerta dalla propaganda italiana dell’epoca.
Durante il secondo conflitto mondiale, la stampa francese è censurata, controllata dal governo Pétain e dalle forse di occupazione naziste. Al contrario, anche in questa occasione, i reporter americani, che si spostano insieme ai soldati e che sono liberi di girare tra le truppe, offrono alla stampa molti documenti sullo sbarco e sulla guerra. L’unico limite al quale sono sottomessi è posto dal loro coraggio. E’ di nuovo Robert Capa, che in seguito troverà la morte durante la guerra di Indocina saltando su una mina, a testimoniare lo sbarco americano del 1944. Così come è un’americana a fotografare per la prima volta i campi di sterminio nazisti, e sue sono le prime immagini dell'Olocausto.

La guerra in televisione

La seconda guerra mondiale rappresenta anche il primo esempio di utilizzo del mezzo televisivo. Si tratta certamente di un tentativo parziale, perfettibile e incapace di riprodurne tutta l’intensità drammatica, poiché le immagini non sono trasmesse in diretta e raggiungono una fascia limitata della popolazione. Ancora negli anni Cinquanta, con la guerra in Corea, la fruizione delle immagini televisive è ancora molto limitata.
Perché l’insieme della popolazione americana partecipi, come spettatore, all’evento bellico, bisogna spettare la guerra del Vietnam. Anche in questo caso, però, i filmati non vengono trasmessi in presa diretta e le immagini, girate dai reporter e spedite in aereo, raggiungono gli Usa solamente 24 – 72 ore dopo.
La guerra del Vietnam è importante per l’analisi del rapporto tra conflitti bellici e diritto all’informazione e per verificare il suo cambiamento nel tempo.
A quell’epoca i giornalisti accreditati presso le autorità americane, ma anche quelli di altre nazionalità, circolano sui terreni di guerra in totale libertà, con il rango di ufficiali. Come hanno confermato le testimonianze dirette di molti nostri colleghi, e come è visibile in una ricca cinematografia, quale per esempio il noto Full metal jacket di Kubrick, la tradizione del giornalismo in guerra negli Stati Uniti offre una grande autonomia alla professione. Le condizioni in cui lavorano i giornalisti e i fotoreporter inviati sono di piena libertà.
Naturalmente il Pentagono promuove una linea di informazione propagandistica, che, come dimostrano gli studi compiuti sui media di quegli anni, è volta a sostenere un discorso patriottico, anticomunista e in difesa della tesi ufficiale di Washington, il cui motto è “Una guerra fondamentale per la difesa del mondo libero contro la possibilità del costituirsi di un blocco comunista in Asia”. Ciononostante molti giornalisti svolgono un reale lavoro di denuncia, che permette di svelare i molteplici crimini compiuti dagli americani.
Seymour Hersch, il giornalista che ha mostrato il massacro compiuto da una brigata americana nel villaggio di May Lai, è lo stesso che ha recentemente denunciato le torture compiute in Iraq. All’epoca della guerra del Vietnam, il giovanissimo reporter mostra come gli americani, comandati dal capitano Medina e dal luogotenente Calley, si accaniscano sugli abitanti, uccidendo donne, vecchi e bambini in nome della libertà. Questo episodio, conclusosi con un processo celeberrimo, è all’origine della perdita di fiducia dell’opinione pubblica nelle motivazioni della guerra in Vietnam, che, mostrata nella sua realtà, con la scelta di mandare solo i più poveri al fronte e la circolazione della droga fra i militari, si rivela inutile.

Il modello delle Malvine

Dopo due secoli dalla sua nascita, il rispetto del diritto della libertà di espressione degli inviati di guerra viene meno. Considerato il suo esito, la guerra del Vietnam ha offerto al Pentagono una lezione decisiva: quella di ridurre questa libertà per necessità politiche.
Nel 1983 gli Stati Uniti attaccano l’isola di Grenada, dove un colpo di stato comunista fa scattare l’allarme dell’espansione di un regime filo-cubano in tutta la zona dei Caraibi. La guerra di Grenada è molto interessante, perché, per la prima volta, i giornalisti vengono esclusi dalle operazioni militari, con il pretesto che queste rappresentano un rischio troppo elevato per la loro vita. In questa occasione le tre grandi reti televisive statunitensi, ABC, CBS, e CNN, denunciano il Pentagono per aver praticato la censura.
La guerra delle Malvine (1982) offre un esempio lampante del cambiamento messo in atto dalla politica anglosassone. Nel 1986 nasce ufficialmente il cosiddetto “modello delle Malvine”, che definisce il rapporto tra eserciti e media in tempo di guerra, e che viene da allora adottato dai Paesi della NATO. Per la prima volta, dopo il Vietnam, una grande potenza come il Regno Unito entra in un conflitto contro la dittatura militare delle isole Malvine o Falkland. Il governo inglese, rappresentato dalla signora Thatcher, non accetta l’occupazione argentina, e decide di riconquistare le isole.
Una quarantina di giornalisti selezionati, incaricati di informare l’insieme della stampa, parte alla volta dell’arcipelago. Ospiti delle navi da guerra britanniche, i reporter coabitano con i soldati britannici per intere settimane, sfamati e alloggiati a spese del governo, e ricevono informazioni esclusivamente tramite i militari. La nave sulla quale si trovano non toccherà mai terra.
Con questi espedienti, la propaganda politica britannica controlla l’informazione al punto che, per esempio, non viene diffusa la notizia che gli argentini fanno affondare una delle più moderne navi della flotta britannica, sebbene in questa occasione vadano perdute molte vite umane. Allo stesso modo, nulla si viene a sapere dell’attacco da parte dell’aviazione argentina contro una nave britannica, che provoca ottocento vittime, fra cui molti soldati di leva. Solo la BBC ha messo in evidenza la censura in atto, minacciando il governo britannico di diffondere le immagini trasmesse dalla televisione argentina e provocando uno scandalo rapidamente seppellito sotto la celebrazione della vittoria inglese.
La guerra seguente viene condotta contro Panama sostanzialmente dalla stessa squadra che ha comandato la prima guerra in Iraq (Cheney, Rumsfeld e Bush padre), e, allo stesso modo, senza l’autorizzazione dell’ONU. La cosiddetta “Operazione giusta causa” viene condotta contro il generale Noriega, che, come Saddam Hussein, è un ex esponente della CIA appoggiato dagli USA.
Una volta demonizzato Noriega, bollandolo come un pornografo e uno stregone che usa la tortura e fa traffico di droga, e approfittando di una situazione in cui il mondo è distratto dalla rivoluzione rumena e dalla caduta di Ceausescu, in quel dicembre 1989 gli americani invadono Panama lontano dallo sguardo dei giornalisti. L’unico presente, inviato da Madrid per El Paìs, muore in un incidente. Nessuno rivela che gli USA si avvalgono di aerei militari che non possono essere intercettati dai radar e, nell’intento di “colpire Noriega”, bombardano un quartiere popolare facendo duemila vittime. Guardando i titoli della stampa italiana dell'epoca, si nota che la rivolta in Romania appare in prima pagina, mentre solo in alcuna pagine interne compaiono i duemila morti di Panama, Lo stesso Colin Powell, nelle sue memorie, ammette candidamente che i media non hanno visto niente.

La guerra in Iraq: il ritorno dei giornalisti embedded

La domanda che oggi ci poniamo rispetto all’invasione dell’Iraq, nel marzo 2003, è: perché Rumsfeld, artefice delle precedenti missioni belliche, in questa occasione ha accettato che gli inviati di guerra figurassero in prima linea, interrompendo così trent’anni di divieto di accesso dei giornalisti al fronte?
La politica di Rumsfeld parte da una previsione errata circa lo sviluppo della guerra. Il governo americano riteneva che la popolazione irachena avrebbe accolto i soldati americani come dei liberatori e voleva che i giornalisti fossero presenti sui carri armati, così come erano stati presenti a Parigi nel 1944, per mostrare come la gente portava i fiori ai salvatori. Pensavano che il sistema della dittatura sarebbe crollato al primo bombardamento, perché fondato sul terrore. Ma così non è stato, perché seppure molti fossero contrari a Saddam Hussein, ancor di più lo erano agli americani, non solo per motivi di nazionalismo, ma anche perché non ignoravano l’alleanza con Israele. L’intervento americano è stato fondato su una visione della guerra del tutto illusoria che i giornalisti embedded avevano il compito di riportare.

I media arabi: il punto di vista dell’Altro

La guerra in Iraq, rispetto al rapporto tra guerra raccontata e guerra combattuta, introduce una novità molto significativa. L’immagine della guerra trasmessa dai giornalisti embedded si trova a essere bilanciata, per la prima volta, dal punto di vista delle televisioni arabe.
La guerra in Vietnam, per esempio, rappresenta una vittoria militare dei colonizzati, ma una loro sconfitta mediatica, perché l’immagine di quella battaglia è esclusivamente occidentale, quindi priva del punto di vista dell’Altro.
Durante il conflitto in Iraq le cose vanno diversamente. Quello che accade con Al Jazeera è che, per la prima volta, si costituisce un’opinione pubblica nei paesi arabi.
Quando è iniziata l’invasione dell’Iraq, le forze anglo-americane hanno cominciato a catturare i primi prigionieri iracheni, i cui volti sono apparsi nelle immagini delle televisioni occidentali. Quando, qualche giorno dopo, gli iracheni hanno fatto prigionieri alcuni americani e mostrato i loro volti sulle televisioni arabe, oscurando invece quelli degli iracheni, la stampa occidentale ha gridato allo scandalo, affermando che era stata violata la Convenzione di Ginevra. Quindi, se per i media occidentali gli iracheni sono un’entità anonima, per Al Jazeera, che è un canale televisivo di un paese moderato, il Qatar, l’anonimato degli iracheni va rispettato.
Lo stesso vale per il conflitto israelo-palestinese. I media occidentali esprimono un sentimento di compassione per i palestinesi, mentre i media arabi li mostrano da una diversa prospettiva: un punto di vista arabo sui problemi arabi. Questo è un fatto senza precedenti.

Il mercato censura l’informazione

L’Occidente è convinto di vivere in un mondo dove non si può nascondere nulla, grazie a un accesso all’informazione garantito. Bisognerebbe invece, in ogni momento, sospettare l’esistenza di una censura democratica, paradossale e equivoca. Noi conosciamo la censura della dittatura, ma quella democratica come funziona? La censura in democrazia esiste: non è una censura politica, ma del mercato.
Per esempio, se un giornalista chiede al direttore del suo giornale di andare a fare un servizio in Sierra Leone, questo risponderà che non interessa a nessuno, mentre per il matrimonio del principe di Spagna le informazioni abbonderanno, oscurandone altre. L’informazione censura l’informazione e le notizie futili finiscono per porsi in primo piano, togliendo spazio ai comunicati più importanti. Il problema è che quando il mercato censura l’informazione tutti tacciono. In effetti, ribellarsi alla censura politica è più facile che ribellarsi a quella del mercato della spettacolarità, che è anche il più redditizio.
Questo meccanismo è all’origine di quelle che chiamiamo le “guerre dimenticate”. I conflitti africani, come la guerra algerina e gli scontri nei paesi subsahariani, sono stati coperti dai media in maniera assolutamente superficiale. I conflitti in Congo, che hanno provocato quasi un milione di morti tra il 1998 e il 2001, la guerra in Sierra Leone e quella in Liberia sono passati sotto silenzio e il genocidio in Rwanda nel 1994 non è quasi documentato da immagini giornalistiche.
Le generazioni successive all’Olocausto hanno già affrontato un dibattito simile chiedendosi come fosse possibile che la gente non sapesse che in quel momento si stavano sterminando sei milioni di ebrei nei campi di concentramento. I contemporanei si difendevano dicendo che non lo hanno saputo, così come noi oggi diciamo di aver ignorato il massacro di un milione di persone in Randa. Quando l’opinione pubblica ha cominciato a rendersene conto era già troppo tardi, il peggio era già passato, mentre sui giornali, in quell’aprile e maggio 2004, si raccontava il Festival di Cannes.

L’insicurezza dell’informazione

Oggi gli avvenimenti assumono un carattere effimero perché i media sono senza memoria, in un presente continuamente rinnovato.
Per esempio, oggi non si parla più della Somalia, anche se la sua situazione è uguale a quella di cinque anni fa, né si parla più del Kosovo, sebbene continuino a esserci quotidianamente saccheggi e vittime.
La guerra in Iraq, nonostante la presenza di molti giornalisti, dimostra che, sempre più, nuovi strumenti di comunicazione, come il videotelefono, nelle mani di non-professionisti della comunicazione possono diventare elementi di informazione spesso decisivi.
Lo scandalo delle torture sui prigionieri iracheni, per esempio, è stato sollevato non da giornalisti, ma da dilettanti o dai militari stessi. Allo stesso modo, le foto della cattura di Saddam Hussein sono state scattate dai soldati, con i loro videotelefoni, e non da fotografi professionisti.
Lo scandalo della BBC, quello dell’affare Jack Kelley di USA Today e la vicenda di Jayson Blair del New York Times ci rivelano che i media, oggi, si trovano di fronte a problemi che non sanno gestire. Negli Stati Uniti alcune recenti statistiche rivelano che più del 60% dei giornalisti ritiene che il loro comportamento nella guerra in Iraq non funzioni, dimostrando che esiste un disagio generale all’interno della categoria che non riesce a lavorare correttamente. Il New York Times ha pubblicato un articolo in cui i suoi inviati riconoscono di aver insistito eccessivamente sulle armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq partendo da fonti che si sono rivelate false, come la testimonianza di Chalabi diffusa dal Pentagono.
Oggi, il problema delle nostre democrazie è quindi la deficienza dei media che, al contrario, nel passato, costituivano una garanzia del buon funzionamento della democrazia stessa. Il paradosso dei Paesi occidentali, democratici e molto avanzati dal punto di vista tecnologico, è quello di trovarsi in un sistema di informazioni che non offre garanzie. Come i Paesi poveri sono in una condizione di insicurezza dell’informazione. Il motivo è da ricondurre ai limiti della curiosità dei giornalisti. Molti di loro finiscono con l’accettare la versione dominante, perché questa coincide con la meno rischiosa. […]



Lo scandalo di Abu Ghraib

Quello che è accaduto in Iraq mostra le proporzioni di un insuccesso mediatico generalizzato.
La questione delle torture di Abu Ghraib è stata resa pubblica dalla rete americana CBS attraverso il programma Sixty Minutes, diretto da Dan Rather. Il generale Mayers, capo di stato maggiore, a conoscenza delle intenzioni dell’emittente, aveva telefonato personalmente a Rather chiedendogli di differire la diffusione di quelle fotografie compromettenti, che mettevano in discussione i valori degli Stati Uniti. Ma la CBS, che inizialmente aveva ceduto alle pressioni di Mayers, ha finito per mandarle in onda, perché Seymour Hersch aveva comunque manifestato il proposito di pubblicare quel materiale sul suo giornale.
I media americani hanno risposto con un boicottaggio generale. Per giorni nessuno ne ha parlato e FOX News ha addirittura lanciato una campagna accanita contro la CBS, accusandola di diffondere immagini che macchiano il patriottismo. Solo più tardi la notizia è apparsa su tutti i quotidiani, dimostrando che questi erano al corrente degli orrori della prigione, ma che non volevano e non potevano parlarne. Per questo dobbiamo ringraziare Dan Rather, alla CBS e a Seymour Hersch, per il loro coraggio.

Staccare la spina?

Oggi l’opinione pubblica dei Paesi occidentali ha sviluppato, insieme a un sentimento di incertezza nel confronti dell’informazione, una straordinaria coscienza critica rispetto al potere di manipolazione da parte dei media.
Lo dimostrano, per esempio, i movimenti di massa che si sono opposti alla guerra nonostante le posizioni dei loro governi. In Spagna, la popolazione ha avuto la possibilità di esprimere il proprio disaccordo nei confronti della decisione del proprio governo a partecipare alla guerra e ha risposto all’attentato al treno di Madrid con il voto elettorale. Quanto è successo in Spagna indica d’altra parte il pericoloso potere del terrorismo nell’indirizzare le scelte politiche di un Paese occidentale. L’informazione si pone dunque, nella nostra società globalizzata, come un potentissimo strumento di potere nelle mani dei governi, ma anche al servizio del terrorismo.
In che modo il terrorismo sfrutta i media? Fino a che punto, mostrando le decapitazioni, si favorisce il terrorismo, e fino a che punto è invece un imperativo deontologico dell’informazione?
Bisogna tenere presente che attualmente il terrorismo si avvale della comunicazione mediatica, utilizzando le immagini delle vittime come simboli. Per questo, ogni attentato è un messaggio in codice che deve essere decifrato. L’attentato alle Torri Gemelle, per es., era contro il simbolo della potenza economica, così come l’attacco al Pentagono intendeva distruggere il simbolo della potenza militare, mentre il quarto aereo, che è precipitato in Pennsylvania, doveva colpire Capitol hill, il Campidoglio di Washington, dove ha sede il Congresso.
Nonostante il numero di vittime, gli attentati dell’11 settembre devono essere considerati come messaggi volti a colpire il simbolo dell’America intoccabile e non a provocare la morte di un nemico designato. Se avessero voluto, i terroristi avrebbero potuto provocare milioni di vittime per parecchi decenni, per es., lanciando un aereo di linea contro una centrale nucleare.
Per la prima volta ci troviamo di fronte a una guerra asimmetrica, che vede da una parte una superpotenza economica e militare e, dall’altra, una forza impazzita che gioca su un linguaggio simbolico contro il quale l’Occidente è disarmato. Gli americani non hanno potuto dare una risposta simbolica, poiché bombardare La Mecca non era possibile. La forza del terrorismo è di non permettere una risposta utilizzando lo stesso linguaggio del suo attacco. Allo stesso modo non si può bombardare la popolazione di Al Qaeda, perché non si sa dove essa risiede, né si possono attaccare le sue ricchezze, perché queste non esistono. Allora gli USA hanno deciso di attaccare l’Afghanistan, individuando al suo interno il pericolo del regime talebano. Si tratta di un concetto di scontro assolutamente inedito, in cui il nemico è difficilmente riconoscibile. Al Qaeda è un’entità di 18.000 militanti, residenti in una decina di Paesi, e capace di passare all’azione da un momento all’altro senza alcuna volontà di vincere, senza alcun obiettivo designato, senza alcuna rivendicazione definita.
La guerra al terrorismo mette in moto, nel mondo occidentale, una serie di problemi inediti, relativi alla strategia di difesa e al tipo di risposta da dare agli attacchi subiti.
Ecco allora che il video della decapitazione di Nicholas Berg è un messaggio, e il problema dei media è se diffonderlo o meno.
Esiste il rischio che il video venga interpretato come risposta alle violenze subite dagli iracheni da parte degli americani. Il problema è che tale violenza, cioè le immagini delle torture, vada a danno degli americani; quindi, dare la possibilità di stabilire un legame tra i due video potrebbe far spostare gran parte dell’opinione pubblica occidentale. E’ inaccettabile l’idea di difendere i diritti umani con le torture. Per questo motivo la diffusione della notizia delle prigioni irachene fa bollare gli autori dei crimini come dei mostri, facendoli perdere sul piano mediatico. D’altra parte, l’immagine della decapitazione del soldato americano rivela il carattere mostruoso degli attivisti iracheni e danneggia la causa del loro Paese.