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Fine dei modelli - Alberto Savinio



lunedì 07 marzo 2005 leggono Mimmo Cangiano e Eugenio Santangelo
Nell’immediato dopoguerra Alberto Savinio, pittore e scrittore, si interroga in un breve saggio sui totalitarismi e sulle trasformazioni artistiche nel periodo fra le due guerre. L’involuzione dei fenomeni culturali è per lui scatenata da quelle stesse cause che hanno prodotto le dittature del “secolo breve”. Un attacco frontale contro l’immobilità, il controllo, la fine della libertà, nell’idea che tutto ciò che, in politica come in arte, pretende di arrestare le idee, di essere definitivo e valevole per sempre, è innaturale e dunque destinato a soccombere. 


Un messaggio di speranza contro “l’angoscia dell’uomo moderno” e un inno alla libertà di pensiero in un testo poco conosciuto al grande pubblico ma destinato a giocare un ruolo fondamentale nella cultura italiana per almeno un trentennio, un testo al quale, oggi più che mai, vale la pena di ritornare. 

Ce lo propongono due studenti della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna.


Da Alberto Savinio “Fine dei modelli” in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), Bompiani, Milano, 1989, pp. 475-509] 


I Voce

La storia è divisa in grandi settori: mondo antico, mondo medievale, mondo moderno. Osvaldo Spengler enuncia l’assurdità di questa divisione. Dice:

II Voce

“Antichità, Medio Evo, Tempi moderni: questo lo schema incredibilmente povero che sul nostro pensiero storico esercita un potere assoluto, questo il non senso che sempre ci ha vietato di comprendere esattamente nei suoi rapporti con la storia totale dell’umanità superiore, la vera posizione, l’ordine, la forma e soprattutto la durata di quel piccolo mondo frammentario che dall’Impero Germanico in poi si va sviluppando sul suolo dell’Europa Occidentale. Le culture future stenteranno a credere che un piano così semplicista è riuscito a conservarsi per tanto tempo e senza gravi urti.”

I Voce

Giusto. Resta a vedere se gli errori che vengono da questa divisione, sono maggiori o minori della sua comodità. Io dico minori. Per meglio vedere e meglio capire, è buon sistema ridurre le cose a oggetti: meglio, a giocattoli. Anche le ineffabili e perfettamente spirituali. Anzi, soprattutto queste. E’ il modo greco: garanzia di ottimità. Ma Spengler non era greco. Portare le cose o troppo grandi o troppo piccole alla misura dell’uomo, delle sue possibilità, dei suoi limiti. Gli anni-luce, la matematica applicata all’astronomia, le ricerche teosofiche, la pura spiritualità sono forme mentali incompatibili con l’arte, e dunque sterili e dannose. Arte: unico modo di vivere degnamente e utilmente la vita. La civiltà è il cammino che conduce dalla necessità al gioco. Più l’uomo è civile, più egli si avvicina all’indrammatico, allo spassionato, al “gioco”. L’avido attaccamento alle necessità, segnala il carattere barbarico del nostro tempo. All’opposto della vita “necessità”, è la vita “diletto”. 

(…)

I Voce

Prima che da altri segni, il pericolo che uomini come Hitler rappresentano per l’umanità, è denunciato dal loro non reggere lo scherzo. Gravità del delinquente. Diffidare della serietà, che le più volte nasconde o sinistri disegni, o una stupidità armata e aggressiva. Quanto alla freddura, o gioco del bisenso, essa è la naturale nemica dell’idea unica, questo pilastro della dittatura. Solo quando comincia a capire la necessaria inecessità del gioco, l’uomo può dire di aver dimesso la primitiva belluinità. Egli allora entra in uno stato come di fanciullo, ma fornito di coscienza lucidissima e di affilata saggezza. Quando noi diciamo mondo antico o mondo medievale, formiamo idealmente due soggetti, meglio due giocattoli, ciascuno con la sua propria forma, la sua propria luce, il suo proprio colore. Azzurro, giallo, rosso il mondo antico; nero il mondo medievale. E non la luce naturale del sole irradia il mondo medievale, sì una metallica e stilizzata luce d’argento, che scende dall’inventato cielo che circonda l’universo di Tolomeo.
Queste figurazioni non vanno prese alla lettera né come verità assolute. Del resto che cosa è da prendere come verità assoluta? Che nel mondo antico ci sia anche una parte di medioevo, è sottinteso. Queste varianti non alterano l’oggetto né l’oscurano: lo fanno anzi più chiaro. “Medioevo dorico” noi chiamiamo quell’oscuro periodo della Grecia che segue l’invasione dei Dori e spegne la civiltà ionia o civiltà d’Omero. Quanto al Medioevo che si fa decorrere dal 476 al 1453, esso ha la sua parte antica nel momento provenzale e nel momento siciliano, nei quali fiorisce anche una lirica che per tersità di luce e libertà di gioco sta alla pari con la lirica greca. 
Canta Saffo:
Voce di donna

“Ho una bella fanciulla
simile nel corpo a un fiore d’oro,
la mia Cleide diletta.
Io non la darei per tutta la Lidia
Né per l’amata…”
I Voce

E canta re Manfredi per parte sua:

Voce
(di giovane uomo)

“Guardai le sue fattezze dilicate
ché nella fronte per la stella Diana,
tant’è d’oltremirabile biltate,
e ne l’aspetto sì dolce ed umana!”
I Voce

Anche la divisione per secoli sembra assurda se applicata alla storia mentale dell’umanità, eppure le vicende stesse della vita mentale sembrano adoprarsi e giustificare questa divisione. Se noi diciamo Quattrocento, Seicento, Settecento, enunciamo meno tre determinazioni cronologiche, che tre diversi modi di dipingere, di scrivere, di pensare, di considerare l’universo.
Non sempre il carattere proprio di ciascun secolo, nasce nell’anno primo del secolo stesso. Talvolta comincia a delinearsi nel secolo precedente, come è avvenuto al nostro. Tal’altra il carattere di un secolo si continua nel secolo successivo, come il carattere del Settecento in parte dell’Ottocento. (…) Ogni secolo è così chiuso nel suo proprio carattere, che a ogni secolo si addice un nome diverso ispirato dal suo proprio carattere: Linea il Quattrocento.

Voce

Paolo Uccello, Mantegna: ossessione della prospettiva, ossessione della linea: il mondo riquadrato e intagliato come una tarsia.

I Voce

Chiaroscuro il Seicento.

Voce

Luce e ombra in questo secolo diventano personaggi che ora giocano tra loro, ora si affrontano nei contrasti di un dramma.

I Voce

Perfezione il Settecento (citazione di una sonata per clavicembalo di Domenico Scarlatti).
E il nostro secolo?
Al nostro secolo daremo questo nome: Fine dei modelli.
Perché?
Siamo a metà del Novecento. Conosciamo abbastanza del nostro secolo, da poterlo giudicare. Siamo già i posteri di noi stessi. Tanto più che il nostro secolo non comincia il primo gennaio del 1900, ma almeno un quarant’anni prima. Voglio dire che quarant’anni prima che si iniziasse secondo cronologia il Millenovecento, cominciò ad apparire e a delinearsi quello che è il carattere del nostro secolo: il suo carattere tremendo.
Nel misterioso Isidoro Ducasse, detto conte di Lautréamont, nato a Montevideo nel 1846 e morto 28 anni dopo a Parigi, troviamo il primo documento di quello che sarà il profondo e desolato carattere del nostro secolo, ossia l’uomo abbandonato dai modelli e la disperata solitudine umana, e una fantasia così libera che prima sarebbe stata considerata follia, e tale è considerata anche adesso da coloro che, pur vivendo nei nostri giorni, hanno ancora nella mente, per abitudine e pigrizia, l’ombra dei modelli. Apriamo a caso i Canti di Maldoror. Siamo capitati a pag. 18.

II Voce

“Un giorno con occhi vitrei, mia madre mi disse: ‘Quando sarai nel tuo letto e udirai latrare i cani nella campagna, nasconditi sotto le coperte, e non ridere dei loro latrati. I cani hanno una sete insaziabile d’infinito, al pari di te, di me, di tutti i viventi dalla faccia pallida e lunga. Ti permetto pure di metterti davanti alla finestra, a contemplare questo spettacolo abbastanza sublime’. Da allora io rispetto la volontà della defunta. Anch’io, come i cani, sento bisogno d’infinito…Non posso, non posso soddisfare questo desiderio! Sono il figlio dell’uomo e della donna, da quanto mi è stato detto. Strano…mi credevo qualcosa di più. Del resto, che m’importa la provenienza? Se mi fosse stata consentita scelta, avrei preferito esser figlio di una pescecagna, la cui fame è amica delle tempeste, o della tigre, ben nota per la sua crudeltà; non sarei io stesso così malvagio. Voi che mi guardate, allontanatevi da me, perché il mio fiato è velenoso. Nessuno ha ancora vedute le righe verdi della mia fronte: né le sporgenti ossa della mia faccia magra, simili alle spine di qualche pesce gigantesco…Di tanto in tanto, quando il mio collo è stanco di girare nello stesso verso, e si ferma per poi girare nel verso contrario, io guardo d’un tratto l’orizzonte, a traverso i folti rovi che nascondono l’ingresso. Non vedo nulla! Nulla…meno le campagne che ballano turbinosamente con gli alberi e le lunghe file di uccelli che traversano l’aria. Il sangue e il cervello mi si turbano…Chi mi sta sulla testa e picchia con una stanga di ferro, come martello sull’incudine?”


I Voce

Ho chiamato tremendo il carattere del nostro secolo. Questo aggettivo qualifica meglio di qualunque altro il tempo nel quale la sorte ci ha chiamati a vivere. Accade in questo nostro tempo un avvenimento tale, a paragone del quale gli avvenimenti più importanti della storia dell’umanità, e lo stesso avvento del Cristianesimo, scemano d’importanza. L’uomo, che finora camminava dietro una guida, ora per la prima volta viene a mancare di guida. L’uomo, che finora era accompagnato da enti maggiori e superiori a lui, ora per la prima volta viene a trovarsi solo e in balia di se stesso. L’uomo, che finora viveva di vita riflessa, ora per la prima volta si trova a vivere della vita che egli stesso irradia. L’uomo, che finora cercava e credeva trovare le ragioni di se stesso fuori di se stesso, ora per la prima volta si accorge che le ragioni si se stesso egli le ha dentro di sé. L’uomo, che finora lavorava su modelli, ora per la prima volta si trova privo di modelli, nella necessità di inventare tutto da sé. L’uomo, che finora operava per conto di Dio, ora per la prima volta si trova a operare per conto proprio. E per la prima volta l’uomo si trova in stato di orfanismo, lui che finora viveva nel calore e nel conforto di ineffabili, ma solleciti, e amorevoli, e onnipotenti genitori. 
Dal fondo delle più remote civiltà fino a circa metà del secolo passato, la vita dell’uomo si svolge non come un complesso di spontanee e libere attività, ma come una continua e diligente imitazione di modelli ineffabili e sublimi. Questa imitazione dei modelli dava sostanza e ordine alla vita, costituiva il suo sostegno fondamentale, e nulla era considerato tanto dannoso quanto staccarsi dai modelli, che era come un cadere nel disordine e nell’anarchia, ossia nelle peggiori calamità. L’uomo non compiva atto pratico o morale, che non fosse il riflesso di un atto esemplare collocato nel repertorio dei modelli. L’uomo stesso era un’imitazione, per quanto immiserita, imperfetta e mortale, di un modello onnipotente, perfetto e immortale. Maggiori fra gli uomini erano coloro che avevano l’occhio più fisso diretto ai modelli, erano più esperti a imitarli, e questa loro facoltà si chiamava ispirazione. Lo dice anche Ovidio nel libro III dell’Arte Amatoria:

II Voce

Est deus in nobis, et sunt commercia caeli; 
Sedibus aetheriis spiritus ille venit.

I Voce

Che vuol dire: “Un dio è in noi e abbiamo commercio col cielo; dalle sedi eteree viene a noi l’ispirazione”. I modelli talvolta cambiavano nome, aspetto, forma, numero, ma la loro intima natura rimaneva immutata. Ora i modelli erano tutti riuniti in un modello solo, e questo modello si chiamava Dio. Ora il modello unico si scindeva in più modelli, e questi modelli si chiamavano Dei. Ora il mondo dei modelli mutava sede, si spiccava dalla sua sede metafisica, si avvicinava a noi, entrava a far parte dell’universo visibile; e allora, come apprendiamo dalla voce di Volfango Goethe, il repertorio dei modelli si chiamava Natura. Nella prima quartina del sonetto Correspondances, Baudelaire illustra come immagini suggestive questo valore esemplare della Natura.

Voce

La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles ;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.

II Voce

Ora i modelli dimettevano ogni apparenza di forma e si riducevano a puri fiori mentali e allora si chiamavano il Bene, il Giusto, il Vero, il Bello. Ora i modelli prendevano forma attraverso la mente di qualche filosofo e si chiamavano Idee per il linguaggio di Platone, o si chiamavano Enidi per il linguaggio di Plotino, o si chiamavano Categorie per il linguaggio di Kant. Questi però erano modelli destinati a pochi intimi. Nel nostro medesimo tempo taluni concetti filosofici sono diventati modelli entro un ristretto gruppo di persone, come è capitato all’élan vitan di Bergson, o all’Atto Puro di Giovanni Gentile. Gli stessi elementi più impressionanti del nostro universo prendono talvolta importanza di modelli, e per molte menti scientifiche i cosiddetti raggi cosmici hanno lo stesso valore esemplare che per un credente del secolo XIII aveva lo spirito di Dio, o per uomini anche più arretrati nel tempo aveva il sole, la folgore, il vento. Ed è giusto. In fondo si tratta di variazioni intorno a un medesimo tema; il quale è che la vita dell’uomo non è autonoma e indipendente ma derivata e governata da altri; meglio da un altro. L’uomo si sente più sicuro sotto una sola autorità. Anche il politeismo dunque non è in fondo se non un mascherato monoteismo. Dice Aldous Huxley in Do what you will:

II Voce

“L’Olimpo non è più una democrazia, ma una monarchia governata da un imperatore che si degna di delegare alcuni poteri ai suoi funzionari. Oppure il dramma celeste non è recitato da una compagnia stabile di divinità, ma è un ‘numero’ con molti e rapidi cambiamenti di scena, nel quale tutte le parti sono affidate a un solo attore. Vediamo Thor e Wotan, Atena e Afrodite, Krisna e Siva recitare in maniera suadente e comportarsi come vuole la parte. Ma non sono veramente presenti. Un anonimo demiurgo, fornito di un talento straordinario per i travestimenti maschili, femminili e ermafroditici, fa simultaneamente tutte le parti.”

I Voce

L’uomo, l’uomo comune vive tranquillo, più sicuro, più fiducioso sotto il monoteismo e i suoi derivati, ossia sotto la monarchia e, purtroppo, sotto la dittatura. Quale altra ragione dare al successo che presso tanti uomini ha la dittatura, e alla nostalgia che la dittatura lascia in tanti uomini, e alla speranza che tanti uomini nutrono di nuove dittature? Tocca il giusto la dittatura quando dice: “Guardate le democrazie, il loro disordine, il loro stato di disfacimento…” Perché la dittatura, o stato totalitario come si dice oggi, si vanta di tenere in vita gli augusti modelli e una condizione ottima; mentre la democrazia, tutta orizzontale, tutta scorrente, tutta libera, vive naturale e indipendente da ogni imposto esempio di modelli.
Fino a metà del secolo passato gli uomini cercavano di avvicinarsi più che potevano ai modelli e in questo sforzo di aderenza di modelli consisteva la suprema virtù degli uomini, specie degli uomini mentali, degli uomini superiori, dei poeti, dei filosofi, degli artisti. Durante quel lunghissimo periodo di tempo la vita degli uomini era faticosa, era dolorosa, era insanguinata, ma disperata non era. L’incertezza terrestre era compensata dalla certezza del mondo esemplare, di cui questo nostro non era se non il temperamento riflesso. La caducità quaggiù delle imitazioni, era compensata dall’indistruttibilità lassù dei modelli. Ogni errore era alleviato dalla possibilità di un emendamento, ossia da una maggiore somiglianza al modello. La vita era disordinata, ma avviata all’ordine. Imperfetta ma avviata alla perfezione. Mortale ma avviata all’immortalità. E al modello dell’immortalità guardavano gli uomini superiori, tanto che le loro opere acquistavano quaggiù stesso una specie di immortalità anticipata. La disperazione non viene se non come conseguenza della fine dei modelli. Comincia ora. E’ cominciata. Quella disperazione che per ambizione letteraria si chiama angoscia. 
E’ nel nostro tempo, e precisamente in questo nostro secolo che per la prima volta s’impone all’uomo la condizione di libertà. Finora si parlava di libertà, ma la condizione necessaria all’acquisto e alla pratica della libertà mancava. Anche l’uomo fisicamente più libero, metafisicamente era in qualche modo schiavo. Diamo come esempio uno degli uomini più liberi che ci siano stati nei primordi di questo nostro tempo, nel quale più chiaramente si preannuncia questa condizione di libertà, affermatasi di poi: Federico Nietzsche. Lo stile della sua scrittura, il frammentismo dei suoi libri segnalano che egli non era più sorretto dai modelli (questa probabilmente la causa principale della sua infelicità, della sua angoscia). Egli tuttavia non dichiara mai una volontaria rinuncia ai modelli. Troviamo anzi in Nietzsche una nostalgia dei modelli, e lui di solito così fluente e antistabile, cerca talvolta anche nella parafrasi biblica del periodo di far opera esemplare, cioè a dire che rispecchi i modelli e si rafforzi nella loro autorità. Ed ecco finalmente la tanto lodata, la tanto invocata, la tanto attesa libertà. E, più felice l’uomo, ora che le condizioni stesse della vita lo costringono a esser libero?
Ascoltiamo il dialogo tra Egisto e Giove, nelle Mosche di Jean-Paul Sartre: 

Egisto

(con foga) Egli sa di esser libero. Non resta che metterlo ai ferri. Un uomo libero in città, è come una pecora rognosa in un gregge. Infetterà il mio regno e manderà in malora tutta la mia opera. Dio onnipotente, che aspetti per fulminarlo?

Giove

(con lentezza) Fulminarlo? (Pausa, con voce stanca e incolore) Egisto, gli dei hanno un altro segreto…

Egisto

Che vuol dire?

Giove

Dopo che la libertà ha infiammato un’anima d’uomo, nulla possono più gli dei su lui. Diventa una questione umana, e spetta agli altri uomini, a loro soltanto, lasciar vivere colui o strangolarlo.

Egisto

/guardandolo fisso) Strangolarlo?…Va bene. Ti obbedirò. Ma vattene. Non aggiunger altro. Non potrei sopportarlo. 

I Voce

Gli uomini non hanno intelligenza chiara e precisa di quanto avviene intorno a loro. I più non sanno. Mancano della facoltà di conoscere. Di quello che avviene hanno appena un pallido sospetto. Eppure è bastato questo pallido sospetto a rompere l’ordine della vita, a disorganizzare il funzionamento, a scardinare i principii dell’esistenza. Perché tutti gli avvenimenti disastrosi che riempiono di sé il nostro tempo: guerre, rivoluzioni, sommovimenti; e la volontà di rivoluzionare, e di sommuovere; e l’avvenuta disgregazione nelle arti e nel pensiero; e il crollo delle istituzioni; e il decadimento del costume; e la frattura delle tradizioni; e tutti i problemi che si presentano e non trovano soluzione; e tutte le questioni che rimangono aperte come immedicabili piaghe; e tutte le negazioni cui nessuna affermazione risponde: tutti quei fatti che, riuniti, fanno la crisi del nostro tempo, hanno tutti una causa comune, che è l’oscuramento e la fine di quei modelli ineffabili ai quali l’uomo si ispirava e che fedelmente imitava, e imitandoli aveva organizzato la vita, e alimentata la cultura, e formate le civiltà e nutrita una profonda speranza, e compito tanti fatti memorabili.
E ora?
Dell’avvenuta fine dei modelli, le arti e la letteratura furono antesignane. Il segnale che quei sublimi esempi erano decaduti che davano tanta dignità, tanta maestà, tanto sentimento di bellezza, tanta speranza all’uomo e alle sue opere, fu dato dalle arti e dalla letteratura prima che dalle altre attività dell’uomo. E si capisce. Avvertirono per prime la fine dei modelli e ne manifestarono sopra di sé gli effetti, quelle attività che più vicini erano ai modelli, e più direttamente se ne ispiravano, e anzi avevano il compito di tener desta e presente fra gli uomini l’immagine dei modelli immortali, come per un confronto costante, come per un costante incitamento a un più alto destino, come per una costante promessa d’immortalità.
Il primo segnale della fine dei modelli lo dà la pittura. (…) In pittura il primo segno della fine dei modelli appare, nella pittura di Manet. In quella di Courbet, il suo immediato predecessore nel tempo, rimane tuttavia, malgrado l’impetuoso realismo, un certo quale riflesso degli angusti modelli, una parvenza di ciò che Stendhal chiama le beau idéal. Lo scandalo suscitato al suo apparire dall’Olimpia, fu il primo segnale che l’uomo aveva perduto gli angusti modelli che fino allora lo avevano guidato, e che d’ora innanzi gli toccava camminare da solo e privo di un’altra guida. Tuttavia, coloro che a quel tempo gridarono allo scandalo, sarebbero stati ben meravigliati di apprendere che quell’opera di modesta apparenza, raffigurante una magra giovinetta coricata nuda su un letto e assistita da una fantesca negra, aveva un’importanza “cosmica”, in quanto era la prima manifestazione pittorica d’un profondo rivolgimento avvenuto nel concetto di universo.
Per quello che è della poesia, Baudelaire è il primo che stacca la poesia dalla imitazione dei modelli, la fa scendere sulla terra, agitarsi far gli uomini: non più eccelsa ma simile a loro. E gli uomini d’ora innanzi la possono chiamare Sorella. Questa l’originalità di Baudelaire. Questa la ragione perché la poesia di Baudelaire è triste.

Voce

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis.
Et que de l’horizon embrassant tout le cercle,
Il nous verse un jour plus triste que les nuits.

I Voce 

E’ la prima volta che la poesia viene a contatto con la tristezza, se ne ispira, la canta. Vicina ai modelli eccelsi, la poesia talvolta era malinconica, ma triste mai. C’è un’essenziale differenza tra malinconia e tristezza. Vicina ai modelli, la poesia era al pari di essi immortale. Baudelaire implica la poesia nel destino mortale degli uomini e a cominciare da lui la poesia diventa cosa mortale, anzi cosa stradale. Da qui il suo tono dimesso e confidenziale.

Voce

Le long du vieux faubourg, où pendent aux masures
Les persiennes, abri des secrètes luxures ;
Quand le soleil cruel frappe à traits redoublés,
Sur la ville et les champs, sur les toits et les blés,
Je vais m’exercer seul à ma fantasque escrime,
Flairant dans tous les coins les hasards de la rime.
Trébuchant sur les mots comme sur les pavés,
Heurtant parfois des vers depuis longtemps rêvés.

I Voce

E’ per questo che l’uomo, il quale prima recitando poesia alzava distinto gli occhi al cielo, ora, se recita poesie di Baudelaire, distinto, si guarda le mani come a cercarvi delle piaghe; come se per effetto di questa poesia egli si senta una specie di Cristo quotidiano. Per eccesso di questo suo Cristianesimo triviale, Baudelaire guarda alla putrefazione e se ne ispira:

Voce

Quand elle eut de mes os sucé toute la moelle
Et que languissamment je me tournai vers elle
Pour lui rendre un baiser d’amour, je ne vis plus
Qu’une outre aux flancs gluants, toute pleine de pus.

I Voce

Disse una donna a Baudelaire, incontrandolo per la prima volta: “Strano! Siete un uomo decente. Vi credevo sempre ubriaco e puzzolento.” I nomi dei modelli: Dio, Bellezza, Ideale, Baudelaire li nomina ancora, ma per abitudine e come nomi di cose perdute per sempre. Michelangelo è l’espressione più pura e completa del Rinascimento, cioè a dire del tempo in cui l’uomo illuminato più chiaramente, credé di esser arrivato alla somiglianza perfetta dei modelli e di esser egli stesso quaggiù la riflessa immagine del modello supremo. Ora ecco come allo sguardo disincantato e tutto terrestre di Baudelaire, il michelangiolismo mostra il rovescio della medaglia.

Voce

Michel-Ange, lieu vague où l’on voit des Hercules
Se mêler à des Christs, et se lever tout droits
Des fantômes puissants qui dans les crépuscules
Déchirent leur suaire en étirant leurs doigts.

I Voce

Alla pittura di Manet, fa seguito l’impressionismo. Qui la fine dei modelli è manifesta anche all’occhio meno esercitato. La pittura si spoglia di quegli ideali rappresentati plasticamente, di quel mondo a priori che fino allora l’aveva informata, e la tela dipinta dà ormai un’impressione di vuoto. Il che del resto era nelle intenzioni del pittore stesso. Perché il pittore impressionista, abbandonati e abbandonato da quei modelli che avevano dato modo ai suoi predecessori di edificare, accanto alla scorrente vita del mondo reale, una vita ideale e tanto più alta, tanto più bella e bagnata dalla luce stessa dell’immortalità, si era imposto il compito di rappresentare l’atmosfera, o come dire il vuoto. Di questo annullamento delle forme nella pittura, si può avere anche una riprova caleidoscopica. Prendete una qualunque storia illustrata della pittura e fate scorrere le pagine sul polpastrello del vostro pollice destro, come se fosse un libretto cinematografico: fino a Manet, vedrete la pittura delle varie epoche e dei vari paesi colma di immagine ordinate: arrivate all’impressionismo, le immagini spariscono e sono sostituite da una specie di vuoto disordinatamente colorato. 
Che cosa ha determinato la fine dei modelli?
La fine dei modelli è l’effetto di una rivoluzione psichica. Un giorno l’uomo scoprì che i modelli nei quali fino allora aveva creduto, ai quali fino allora aveva mirato, sui quali fino allora aveva modellato la propria vita, non vivevano di vita propria, ma esistevano in quanto egli stesso li aveva creati nella sua mente, e aveva continuato a tenerli in vita mediante la propria fede. Avvenuta questa scoperta i modelli perdettero la luce, si oscurarono, si spensero. Dei, miti, principii metafisici, i modelli di una parola dei quali l’uomo fino allora si sentiva un derivato, diventano da quel giorno essi stessi altrettanti derivati di lui, uomo.
Non tutti gli uomini hanno fatto questa scoperta. I più la ignorano e vivono ancora nell’illusione di prima. Altri si rifiutano di accettarla per vera. Altri ancora la temono, non volendo rinunciare al conforto, alla sicurezza, alla tranquillità di un governo ineffabile e supremo. Ed è questa diversa dimensione psichica tra uomo e uomo la causa del profondo squilibrio che oggi agita la società umana, la cagione della gravissima crisi che la strugge. E assieme è l’ostacolo più grave alla formazione di una nuova civiltà, perché la civiltà, che è omogeneità di idee, non si può formare se non su un fondamento di idee omogenee e comuni a tutti, e oggi è proprio questo fondamento ciò che soprattutto manca.
Nella scoperta dell’illusoria natura dei modelli, si è ripetuto il gioco delle apparenze, ossia l’effetto del bisogno che l’uomo ha di dare sostanza propria e autonomia alle creazioni dei propri sentimenti, dei suoi propri desideri. Lo dicono con parole un po’ troppo colorite e teatrali quei due personaggi di Pirandello, il Filosofo e l’Uomo Grasso, i quali, in qualità di morti parlanti, s’incontrano una notte all’ingresso di un cimitero.

Il Filosofo

Che meraviglia buon uomo? Che meraviglia? È così. Naturalissimo

L’Uomo Grasso

Lo dite a me? Oh bella! Sarete meravigliato voi. A me, già m’è passata.

Il Filosofo

Ma no! Io? Di che? Se vi dico che è naturalissimo.

L’Uomo Grasso

Ho capito. Mi vorreste dare ad intendere che l’avevate preveduto, di dovervi ritrovare così, ancora qua.

Il Filosofo

No. Questo no. Anzi, la mia meraviglia (se pure ne avrò mostrata un poco in principio) è stata proprio per questo, vi prego di credere, che io non l’abbia preveduto.

L’Uomo Grasso

No, per carità: fatene a meno. Che consolazione volete che mi dia codesto postumo esercizio della vostra ragione.

Il Filosofo

Perché voi forse, pover’uomo, vi figuraste in vita di vederle e toccarle come cose vere codeste forme, mentre erano soltanto illusioni necessarie del vostro essere, come del mio, che per consistere in qualche modo, capite?, avevano bisogno (e l’hanno tuttora) di creare a se stessi un’apparenza. Non capite proprio?
State a sentire. Ve lo spiego per via d’esempio. Prendiamo questo cimitero qua. Voi lo vedeste, certo, in vita, chi sa quante volte.

L’Uomo Grasso

Qualche volta, triste, vi venivo a passeggiare.

Il Filosofo

E non vi venne mai in mente che queste tombe non erano fatte per i morti, ma per i vivi?

L’Uomo Grasso

Volete dire della vanità delle epigrafi?

Il Filosofo

No, storia vecchia, codesta. Dico del bisogno che la vita ha di fabbricare una casa ai suoi sentimenti. Non basta ai vivi averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli, e costruiscono loro una casa. Fuori, dove – naturalmente- chi ci sta? Nessuno!

I Voce

Il vuoto! E non il vuoto soltanto dipinto alla meno peggio da un Pissarro o da un Sisley, e racchiuso dentro il rettangolo di una cornice, ma il vuoto ancora che va oltre le pitture degli impressionisti e riempie di sé - se pure il vuoto ha la possibilità di riempire – tutta quanta la vita dell’uomo. Cominciano allora le prime oscillazioni di quello squilibrio che crescerà a poco a poco e si concluderà nei grandi crolli, nelle immense catastrofi che sono i tragici e negativi monumenti del nostro tempo. Due guerre mondiali e in mezzo rivoluzioni e una gigantesca crisi economica: ecco i monumenti orizzontali, le piatte cattedrali del XX secolo.
Verticale. Orizzontale: queste due espressioni geometriche illustrano meglio di qualunque altro parallelo, il profondo mutamento avvenuto, proprio in questo nostro tempo, nella vita dell’uomo. Con la fine dei modelli e l’avvenuta autonomia della mente umana, il sentimento dell’universo è passato dal senso verticale al senso orizzontale. Il nostro tempo vive sotto il segno dell’orizzontalità. Da qui il suo pessimismo. Perché l’umore del senso orizzontale dell’universo è il pessimismo, mentre l’umore del senso verticale dell’universo era l’ottimismo: gioia e orgoglio di sentirsi in piedi.
Nel tempo precedente la crisi, la mente dell’uomo era tutta rivolta alla verticalità come a un ideale. Dall’orizzontale della vita terrestre e mortale, si mirava alla verticalità della vita immortale, come a una meta da raggiungere. Il Bene, il Bello, i Modelli erano tutti verticali. Imitando i modelli, l’uomo cercava di dare alle proprie opere il senso della verticalità: architettura, pittura, scultura, opere di poesia e di pensiero, istituzioni: tutto tendeva alla verticalità. La musica stessa riuniva i suoni in armoniose costruzioni verticali.
Il vuoto!...Il vuoto crea il male. Nel vuoto sta il male. Quasi tutte le azioni nefande sono determinate dal vuoto: sia il vuoto che apre dalle radure nell’anima dell’uomo, sia il vuoto che apre dalle vaste zone di nulla nell’anima del mondo, e determina in entrambi i casi una condizione d’isterismo. Il vuoto, così come si dice dell’abisso, attira. Uomini e cose precipitano nel vuoto alla rinfusa, non si sa se per colmarlo (horror vacui) o semplicemente perché succhiati dal vuoto. E il vuoto determina per reazione le grandi attività: la vita d’azione. Se dicessimo che gli uomini d’azione, questi pericolosissimi tra gli uomini, sono ispirati dal vuoto come i poeti dalla musa…Finché il vuoto determina l’attività maggiore: la guerra. Io dico che entrambe le guerre mondiali del nostro secolo sono scoppiate per effetto di vuoto – ma chi mi capirà?