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Imitatori di Cristo – Speranza resistente - Don Paolo Serra Zanetti


lunedì 12 dicembre 2005 leggono Camillo Neri e Francesco Pieri
Don Paolo Serra Zanetti è stato una presenza importante per la città e la sua università. Tutti conoscevano la sua continua attenzione per i poveri, i derelitti, gli emarginati, quella attenzione costante e concreta che irritava borghesi e benpensanti; molti ne apprezzavano le omelie domenicali, profonde, aderenti al testo e allo spirito evangelico, ispirate ad autentico ecumenismo, al rispetto di ogni forma di religiosità; ma solo pochi sanno che quel piccolo prete che andava per le strade di Bologna accompagnato dagli “ultimi degli ultimi” e che alle undici e mezzo di ogni domenica attirava in San Giuseppe e Ignazio tante persone con le sue prediche anticonvenzionali era anche un finissimo filologo, uno studioso sensibile, colto, rigorosissimo.
Con questa lettura vorremmo ricomporre questi tasselli per ricordare un’unica eccezionale personalità.


(da P. Serra Zanetti Imitatori di Gesù Cristo. Scritti classici e cristiani, Bologna 2005)

1. IGC 27s. Bisogna dire che gli studi sui rapporti fra l’antichità classica e gl’inizi del cristianesimo (fra la cultura sensibilità mentalità greco-romana e gli scrittori cristiani che quella paideia – che era, almeno in parte, anche propria a loro – mettevano a confronto la ‘novità di vita’ proposta dalle Scritture e consolidata dalla tradizione), studi spesso ripresi e rinnovati e sviluppati, restano sempre fra i più suggestivi: perché vi si ripropone o questo o quell’aspetto della ‘cultura’ – questa o quella componente del nostro vivere e del nostro sentire – in una luce di confluenza di motivi di ordine diverso, in un incontro di ‘piani distinti’, l’uno costruito soprattutto di humanitas, l’altro soprattutto di grazia e di fede. Che cosa questo o quello scrittore cristiano abbia assunto dai classici, che cosa abbia rifiutato, fino a che punto certe dichiarazioni di principio abbiano avuto pratica realizzazione, quanta comprensione per l’umano e quanta umana affettività e quanta attenzione alla ricerca e allo studio sia rimasta operante in chi non ha l’ideale della greca sapientia ma della biblica humilitas: questi e simili problemi – diciamo «la dialettica di umanesimo e grazia» – sono al termine degli studi di cui si faceva cenno. Anche quando sono lavori, come quello di Harald Hagendahl (Latin Fathers and the Classics. A Study on the Aplolgists, Jerome and other Christian Writers, Göteborg 1958), condotti con metodo filologico inteso come riscontro e studio di paralleli testuali: ricerche che possono sembrare – e spesso sono di fatto – tra le più ingrate e faticose e possono dare un’impressione di esasperante inutilità, di gusto erudito e perditempo d’accumulare schede ed esibire erudizione a vuoto; ed ecco, lentamente, ci si accorge che costruiscono: pagine di paralleli testuali certi o probabili, analisi dettagliate che permettono di segnalare o supporre fonti perdute, studi su analogie di pensiero che, nell’uso caratteristico di un termine o di un costrutto, tradiscono una dipendenza diretta: risultati e ‘scoperte’ a cui si giunge solo con rinnovate letture ed intelligenza sempre più attenta e ‘sfumata’ dei testi ed anche, sì, con le schede: ma la filologia dà frutti di storia e l’accertamento d’un dato può invitare a dedurre una conclusione illuminante, ad eliminare o spostare un problema inconsistente o non ben localizzato… Sono le normali condizioni del nostro conoscere storico, che non giunge alla verità more geometrico come avrebbe voluto un programma positivista che troppo facilmente termina in scetticismo.

2. IGC 103, 110-112 È noto che Gerolamo dovette difendere il suo lavoro di traduzione dall’ebraico anche di fronte ad Agostino, che era particolarmente legato ai LXX e all’interpretazione tradizionale e che, come superava di tanto Gerolamo come teologo e filosofo, era decisamente inferiore – per sua stessa ripetuta ammissione – come linguista e filologo […]. L’interesse di Cicerone è prevalentemente oratorio; diciamo pure : artistico. L’interesse di Gerolamo è anche artistico: ricordiamo le sue osservazioni […] e le dichiarazioni di cura per la forma espressiva (senza tuttavia dimenticare gli elogi per la sancta simplicitas) […]; e la riuscita artistica, la ‘resa poetica’ di Gerolamo traduttore è ammessa adesso con sostanziale concordia. Ma l’interesse di Gerolamo è più ancora scientifico, filologico: importa il sensus, la veritas […]: ed anche su questo punto gli studiosi d’oggi gli danno atto generalmente della sua capacità ed effettiva riuscita nel realizzare i propositi. Infine, diciamo, l’interesse di Gerolamo è soprattutto religioso, edificante, apostolico, pratico: di chi ha unificato e rafforzato nella ricerca di Dio l’entusiasmo letterario e le doti filologiche […]. È l’’intento pratico’ che induce Gerolamo ai lavori di adattamento nel presentare ai lettori latini opere teologiche, storiche ed esegetiche greche; sono, in buona parte, esigenze polemiche – connesse peraltro a conoscenza scientifica – quelle che lo portano ad una fedeltà particolarmente rigorosa; ma è l’amore della verità di Dio, della parola di Dio nelle Scritture, che gli dà il desiderio d’intenderne il senso più autentico e di trasportare il suono nel modo più preciso e felice (ad uso specialmente di chi non può leggere l’originale): secondo le possibilità dello strumento – il latino, il latino della tradizione letteraria e della lingua viva e dell’uso della Chiesa: lo strumento di cui Gerolamo ben conosceva i ‘segreti’ –; e certo per le Scritture sacre e canoniche non si può pensare a rifacimenti o adattamenti: una grande fedeltà è sempre necessaria al traduttore, una fedeltà che tuttavia non sia meccanica e che non oscuri: il grande criterio è puro ac fideli aperire sermone […].

3. IGC 436 Abbiamo così tentato qualche scandaglio – sul versante sincronico e su quello diacronico – nella forma e nel modo poetico – soprattutto nella redazione latina geronimiana – di questa pericope, che intende offrire una convinzione teologica efficace, inducendo a ritrovare il senso delle parole, la verità e la bellezza del discorso – e della realtà che vi corrisponde –, nella sottomissione della parola creatrice. Il precedente e la preoccupazione teologica prende forma in moduli espressivi in cui lo strumento-base del parallelismo dà luogo a ripetizioni, variazioni, echi di suoni, di temi, d’immagini, che abbiamo cercato, almeno in parte, di riconoscere. Gerolamo è traduttore che si mostra qui preoccupato (per rispetto – religioso rispetto – verso la parola) d’una fedeltà che potremmo dire ‘umile’: non è perseguita, in quanto tale, una finalità letteraria, anche se alla volontà di rendere il testo con lealtà rigorosa si associa quella d’una limpidezza e d’un gusto linguistico che, muovendo da un originale poetico, porta – senza che l’autore stesso se ne renda ben conto – a rinnovata costruzione e proposta di poesia. IGC 453s. Di singolare importanza per intendere cos’è necessario secondo Gerolamo per capire, gustare, amare lo ‘stile biblico’ è il commento a Giona 3,6-9: la conversione dei Niniviti e più specialmente del re di Ninive dà l’occasione a Gerolamo […] per uno sviluppo sulla ‘conversione dei letterati’ – gli ultimi a convertirsi per la difficoltà gravissima che deriva dalla loro ‘ricchezza’ che risulta accecante […]: «difficilmente cedono a Dio i potenti, i nobili, i ricchi e molto più difficilmente di questi i letterati (eloquentes); la loro mente infatti è accecata da ricchezze e potenza e lusso, e, circondati (come sono) dai vizi, non sono in grado di vedere le virtù, e giudicano la semplicità della Sacra Scrittura non sulla base della elevatezza dei contenuti ma della pochezza delle parole […]». Ma proprio la vicenda del re di Ninive (e, sulla scia, la conversione di Cipriano) vuol incoraggiare a credere e a sperare, oltre l’umana debolezza o incapacità, nella forza vincente della profezia, per la quale questi stessi ‘re del mondo’ (che vengono inclusi nel monito di Paolo nei confronti delle varie forme di umana potenza e sapienza, 1Cor 1,26-28), avendo ascoltato la predicazione di Cristo sia pure per ultimi, «depongono lo splendore dell’eloquenza e la ricercata bellezza delle parole e si danno totalmente a una rude semplicità […]». La conversione alla verità dell’annuncio comporta dunque un adeguamento alla sua ‘povertà’, anche e particolarmente formale.

4. IGC 543, 545s., 553 È noto il rilievo che nelle «grandi Lettere» dell’apostolo Paolo ha la colletta per la Chiesa di Gerusalemme, più precisamente per i «poveri tra i santi» (Rm 15,26). Alla base c’è l’accordo, a conclusione dell’incontro con i responsabili della Chiesa gerosolimitana, di «ricordarsi dei poveri» (Gal 2,10). Un impegno di carità fraterna e fattiva, e insieme un sostegno e un progetto di unità ecclesiale. Soprattutto un progetto di comunione fra le Chiese «paoline», costituite prevalentemente di gentili, e la Chiesa-madre di Gerusalemme. Paolo s’impegna profondamente (cf. Gal 2,10), dà disposizioni per una organizzazione tempestiva e ordinata (cf. 1Cor 16,1-4), sviluppa motivazioni scritturistiche, cristologiche, teologiche che hanno preziose corrispondenze nella vita ecclesiale e danno l’impronta alla parenesi apostolica. Una parenesi che – mi pare – possa essere detta «discreta» e «amorosamente pressante» a un tempo (cf. 2Cor 8-9) […]. In una prospettiva sintetica – ma, spero, non sbrigativa – credo si possa ritenere che, nella visuale e nell’intento di Paolo, la motivazione più consistente e fondante del progetto «colletta» sia quella di 2Cor 8,9: il Vangelo della grazia della povertà di Gesù Cristo fino alla croce, una povertà che arricchisce con l’amore che dischiude e trasmette. Ho detto «Vangelo» della grazia anche se nel contesto immediato euangelion non compare. Altri passi paolini, tuttavia, possono, se ben vedo, favorire l’impressione. Non credo, dunque, possa essere considerata un’estensione arbitraria parlare di Vangelo della povertà di Cristo. Inoltre, «la grazia del Signore nostro Gesù Cristo» (2Cor 8,9) è, per Paolo, certamente al centro del Vangelo. Del resto, è sintomatico che i capitoli 8 e 9 di 2Cor, qualunque sia il loro rapporto originario, sono tenuti uniti, fra l’altro, da una sorta d’inclusione: la grazia (charis) indicibile di Dio per il quale l’apostolo rende grazia (9,15: charis toi theoi). E il dono diventa, per l’apostolo e la comunità, capacità urgente di donarsi […]. Nella brevità intensa di 2Cor 9,11-13 troviamo un tracciato di singolare compiutezza: la sottomissione di convinto consenso al Vangelo del Cristo – Vangelo, qui soprattutto, del povero –, esprimendosi anche e specialmente come generosità di comunione e servizio, fa abbondare le «eucaristie» con cui è glorificato Dio, dal quale viene quel dono che non si è neppure in grado di narrare adeguatamente.

5. IGC 437-439, 446 Nel De opere et eleemosynis Cipriano, con una serie impressionante di argomentazioni desunte fondamentalmente dalla Scrittura, vuol rendere evidente che per il cristiano – bisognoso com’è di perdono rinnovato anche dopo il battesimo – è d’importanza decisiva quell’operari che si esprime come fattivo interessamento per i poveri e i bisognosi. Nel secondo capitolo, in una formula breve, di retorica sobriamente efficace, compendia la sua convinzione di fondo, precedentemente espressa e ancora di seguito ripresa, in cui è motivata la «teologia dell’elemosina» […]. Appena oltre la metà dell’opera si ha una severa raccomandazione rivolta alla matrona locuples et dives (Eleem. 14,279) che, truccandosi gli occhi, rischia di non vedere l’essenziale, rimanendo nella convinzione ingannevole della sua ricchezza presunta; ha bisogno urgente del «collirio» di Cristo […], per giungere a vedere Dio, operando con una consapevole carità (Eleem. 14,280s.); altrimenti si rimane nell’oscurità incosciente di chi non vede il povero (Eleem. 15,282ss.), di chi addirittura non osserva, pur partecipando alla celebrazione domenicale, il recipiente che serve per raccogliere la doverosa offerta […]. E, ricomincia Cipriano nel cap. 16, neppure gli affetti familiari possono ritrarre dall’impegno caritativo, perché si tratterebbe di una preferenza distorta, proveniente da scarsa fede e sintomo di scarso amore; e la parola di Dio è ben chiara, per istruirci e rafforzarci. A suggellare e fondare la giusta priorità Cipriano allude al nostro passo di Pr 19,17 – proponendolo evidentemente come un punto fermo, un dato ormai acquisito – e ad esso coordina (con la sua spiccata preferenza stilistica per sinonimia e parallelismi) un’eco manifesta, seppur breve, di un testo assai conosciuto (e quindi anch’esso proposto come normativo) che citerà per esteso successivamente (Mt 25,31-36, cit. in Eleem. 23) […].Cercando di seguire il filo sottile – anche se non esiguo – della presenza di Pr 19,17a in Cipriano, credo si possa dire – non dimenticando che per giungere a sintesi bisogna tener conto di parecchi elementi che permettano di riconoscere un po’ più del tessuto – che l’utilizzazione fondamentalmente parenetica del testo sapienziale (sempre connesso con almeno una testimonianza neotestamentaria), pur con l’accentuazione energicamente responsabilizzante, non lascia mai perder di vista la fondamentale convinzione biblica riassunta nel titolo di Testim. III 4: In nullo gloriandum quando nostrum nihil sit. La ridotta elaborazione sistematica riflette qualcosa, nel ‘biblico’ Cipriano, d’un certo pluralismo teologico riconoscibile in diversi libri e pagine della scrittura.

6. IGC 524 Le lettere ignaziane hanno in sé una sorta di miniera teologica, nella singolarità bruciante dell’esperienza personale e nella ricerca appassionata della concordia-unità ecclesiale. Ci sono delle «definizioni» di Dio (ma si tratta piuttosto di approssimazioni o descrizioni allusive) alquanto inedite: Dio è «fede e amore», Dio è «unione»: nel primo caso c’è un sostrato scritturistico personalmente rielaborato, nel secondo un confronto religioso, con una riproposizione cristiana ed ecclesiale d’un concetto teologico di sapore gnostico (in modo più velato, Dio è anche «Silenzio», che si manifesta però nel suo Verbo); Dio è designato anche attraverso antitesi (come «l’invisibile per noi visibile»), in cui ha parte la cristologia e, insieme, si notano tracce di teologia filosofica. Dio è l’unico, rivelato attraverso il Figlio, Verbo, che non solo rende possibile e comunica, ma addirittura «è» la conoscenza di Dio. E la divina, fondante unità si manifesta singolarmente (contro ogni estenuazione doceta) nell’unità di carne e spirito in Cristo, la quale è modello di unità ecclesiale, in cui si diventa coro, in modo sinfonico, e in cui si tende verso l’unione prima ed ultima, che consisterà nel «conseguire Dio», che interessa personalmente Ignazio in modo stringente, è la meta per tutta la Chiesa, riguarda tendenzialmente tutti gli uomini. Dio, che è il Padre di Gesù Cristo e il Padre degli uomini, è il termine e il fine al quale lo Spirito chiama.

7. IGC 509, 516 Verso la conclusione di quella sorta d’ampio affresco narrativo che è il cap. 24 della Genesi, si legge, al v. 63 [trad. CEI]: «Isacco uscì sul far della sera per svagarsi [lPÚèa‰] in campagna e, alzando gli occhi, vide venire i cammelli». Il termine ebraico traslitterato è un hapax biblico (ricorre ancora nella Regola della comunità di Qumran, 1 QS 7,15), e rimane di interpretazione insicura. Le traduzioni greche sembrano fondate (con un’eccezione piuttosto oscura […]) su una lezione lPÚ”a‰; così pure – sembra – quella targumica e le parafrasi rabbiniche; la versione siriaca presuppone un’altra lettura dell’ebraico (lPÛèã); anche il paixai dell’Hebraios citato in Procopio (In Gen., PG LXXXVII 401) sembra necessariamente venire da una lezione ancora diversa (difficile da determinare); le versioni latine derivano in gran parte dal greco dei LXX (adoleschesai), letto prevalentemente con la mediazione di Filone e di Origene (ma deambulare è piuttosto vicino al siriaco!) […]. Abbiamo seguito, parzialmente, gli sviluppi d’una storia testuale che, muovendo da una parola problematica, giunge ad una piccola costellazione semantica; un Origene vi avrebbe visto non solo una curiosa vicenda linguistico-teologica, ma soprattutto una buona ‘disposizione’ realizzata attraverso l’abile attenzione dei traduttori: «Infatti anche in molti altri casi è impossibile trovare che alcune [espressioni] sono state rese dagli interpreti secondo un’’economia’ […]. E noi le abbiamo osservate confontando tra loro tutte le versioni» (Epist. ad Afric. 18[12],25ss., a c. di N. DE LANGE, SC 302, 1983, 560s.).

8. IGC 254s. Rileviamo infine la grande scarsità, nei PM, di elementi cristiani certi: la ragione dev’essere soprattutto un’incompatibilità di fondo, di cui possiamo sentire l’espressione e il simbolo nell’episodio di Simone il mago narrato nel cap. VIII degli Atti degli Apostoli: Simone […]si fa battezzare anche lui da Filippo e gli sta sempre attaccato perché è fuor di sé per la meraviglia di fronte ai semeiae alle dynameis (13); dopo d’aver assistito all’imposizione delle mani da parte di Pietro e Giovanni, porta denaro per ottenere anche lui quella exousia (18-19): egli crede che «il dono di Dio» si possa acquistare con denaro! […] e all’invito di Pietro alla metanoiae alla preghiera per conseguire perdono per quel pensiero del suo cuore (22), il mago – pensando forse che la dynamis non è dalla sua o che non conosce «il nome» o «i nomi» che ritiene noti a Pietro e agli altri – chiede che siano loro a pregare «perché nulla gli piombi addosso» di ciò che Pietro gli ha fatto temere (24): è, si può forse pensare, l’incomprensione di chi è convinto che l’uomo possa risolvere le situazioni in chiave di «potenza» (il cui acquisto si può in fondo «trattare» e che diviene una sorta di «geloso possesso» personale), piuttosto che di «dono di Dio» accolto, secondo il «beneplacito» di lui, in gioiosa «povertà di spirito».

9. IGC 170-172, 176 Ma è doveroso rilevare e in conclusione la buona qualità del lavoro del Wenger, ed esprimergli felicitazioni per la scoperta e riconoscenza per la pronta pubblicazione! […]. Credo dunque si possa dire, del libro del Salvatore, che già raggiunge alcune conclusioni positive e ha più punti d’avvio interessanti che fanno sperare un’ulteriore elaborazione […]. Dato il mio scarso approfondimento della materia, non mi sento di esprimere un giudizio abbastanza preciso sull’introduzione; dirò solo che ho avuto talvolta l’impressione di un po’ troppa sicurezza di alcune affermazioni dedotte da premesse che non vanno oltre la probabilità; è anche vero che il convergere di probabilità diverse può far giungere a un limite di certezza, e che talune prove si presentano come di peso notevole assai […]. Vien da credere che, se non tutta la tesi del Pomarès, alcuni suoi elementi potranno venire a costituire precisazioni acquisite nella storia della Chiesa e più specialmente della liturgia.

10. IGC 602s. Alla fine della commemorazione del prof. Pighi tenuta da B. Riposati […] l’autore rievoca la mattina del 7 maggio 1978, nella quale si festeggiò, nella sede dell’Accademia Veronese, l’ottantesimo compleanno del Professore. «A cerimonia finita» scrive Riposati «gli chiesi a che punto era il lavoro sugli Inni di S. Ambrogio, che egli stava curando per la collana Studia Patristica Mediolanensia. “Sono quasi alla fine” rispose “all’Inno del Vespero (Deus, creator omnium), che trovo così bello ed umano, così attuale per me, con quel sentire nella tristezza della vita e nella stanchezza del lavoro un qualche sollievo nel dono divino del sonno e nella pace della notte”». Il cuore di Giovanni Battista Pighi, lo sappiamo, quella stessa notte si arrestò. *** Io ho cominciato a seguire un corso di filologia greco-latina tenuto da Pighi quando non avevo ancora diciott’anni; poi l’ho ascoltato in tante lezioni e colloqui, ho collaborato per diversi anni, in qualcosa ho anche deluso, forse non sempre mi sono abbastanza spiegato, ho sempre conservato un’affettuosa stima, so di avere numerosi motivi di riconoscenza; ormai piuttosto anziano anch’io, riascolto il congedo ambrosiano (Hymn. IV 1-8) con un’ombra di commozione grata, avendo a mente anche la commozione e la consolazione di Agostino che ricorda quei «veridici versi» nell’ora in cui maggiormente è afflitto per la morte della madre:

polique rector, vestiens
diem decoro lumine
noctem sopora [v.l. soporis] gratia
artus solutos ut quies
reddat laboris usui
mentemque fessas allevet
luctusque solvat anxios...
Dio, creatore di tutte le cose
e reggitore del cielo che il giorno
rivesti di splendida luce,
la notte di grato sopore,
affinché il riposo le sciolte
membra renda all’usato lavoro
e le stanche membra sollevi
e pianti e angosce dissolva
(trad. G. Chiarini in Confessioni III, Milano 1994)

11. IGC 517s., 519s., 522 La domanda 270 delle Regole Brevi di Basilio suona […] «Che cosa vuol dire: Disorientati, ma non disperati?»). Nella risposta Basilio sostiene che «l’apostolo vuole mostrare la piena certezza […] della sua fiducia […] in Dio contrapponendola al modo di sentire umano […] ... per quanto riguarda il sentire umano: "Disorientati, ma, per la fiducia in Dio, non disperati ... "». E la risposta si conclude rinviando, per analogia, alle sintesi di 2Cor 6,9s.: che sono, sul piano formale, un poco diverse […] anche se prossime nel movimento interno, nella logica profonda. In 2Cor 4,8-9 abbiamo quattro antitesi, tutte costruite con participio presente medio-passivo, con un effetto di omoteleuto continuato. Nei commenti (cf. in particolare Windisch, Bultmann, Barrett, Furnish) si fanno opportuni confronti con passi di stile prevalentemente diatribico: fra i più notevoli ai nostri fini Plut., Compendium argumenti Stoicos absurdiora poetis dicere 1 (Mor. 1057 d-e); Epict. Diss. II 19,24; ma, come osserva Prümm, il vocabolario è complessivamente diverso, e si può dire che gli otto principi di Paolo hanno un retroterra veterotestamentario per lo più ampio; per quanto riguarda la nostra antitesi: di aporeo vi sono 14 occorrenze nei LXX (e 9 di aporia); di exaporeo: solo Sal 87(88),16 (e, nella traduzione di Aquila, Gb 21,5 e Is 63,5) […]. Exaporeo è hapax nella LXX e interpreta un hapax dell’ebraico (apunah); forme di aoristo passivo di exaporeo sono attestate – nella versione di Aquila – per Gb 21,5 eIs 63,5. Credo che giovi ricordare che in 2Cor 6,9 (all’interno di un’altra serie di paradossi antitetici) è certa l’eco di un salmo, con «adattamento» contestuale; anche il passo appena citato conferma il dato ben noto che Paolo utilizza frequentemente la versione dei LXX. Nel nostro caso si può trattare di una ripresa lessicale, nella memoria e sullo sfondo complessivo del salmo, ripensato peraltro – questo salmo del tribolato, angosciato, pressoché disperato – nella prospettiva cristologica dell’astheneia della croce (culminante e conclusa in 2Cor 13,4: dove la cristologia, ancora una volta, si proietta sull’apostolato e sull’ecclesiologia) […]. In nessuno dei passi confrontati si può parlare di citazione; la frequenza delle connessioni, lessicali ed esistenziali, fra il salmo e la lettera, mi fanno ritenere alquanto probabile che le due occorrenze paoline del raro exaporeomai provengano dalla memoria che l’apostolo ha di Sal 87,16: le molteplici vicende di thlipsis in cui Paolo s’è trovato evocano una terminologia e suggeriscono una formulazione che può essere detta a lui familiare (e certamente, in buona parte, presente non solo in Sal 87, anche se qui, per così dire, concentrata): con uno sviluppo, un’apertura, una rilettura indispensabile per l’apostolo, che presenta come nota e riconosciuta, per se stesso e per i suoi corrispondenti, la grazia del «povero» (2Cor 8,9). Teodoreto, con felice brevità, commenta l’antitesi di 2Cor 4,8b costruendo un’altra, diversa figura etimologica (che è, insieme, un paradosso che si potrebbe dire «di marca paolina»): «In situazioni senza via d’uscita, troviamo vie di salvezza».

12. IGC 555-557, 559 ‘Biennio di fede’ e ‘nuova evangelizzazione’ sono espressioni che possono lasciare un momento perplessi: la Chiesa esiste partendo dalla fede, la fiducia sorgiva cominciata quel ‘primo giorno della settimana’ presente in modo incancellabile nella memoria cristiana, fiducia talora annebbiata in questo o quel soggetto o momento o luogo o situazione, ma sempre riattualizzata nella sua radice evangelica, nella sua espressione sacramentale, nel suo frutto di amore costruttivo e resistente. E la Chiesa non potrebbe esistere senza il Vangelo, nel quale ha la sua consistenza prima («convertitevi e credete nel Vangelo» Mc 1,15) e per il quale è destinata a darsi fino in fondo («chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo …» Mc 8,35). Il nostro arcivescovo, nelle sue riflessioni che si ispirano, fin dal titolo, alla parola – si potrebbe dire «al grido» - dell’apostolo Paolo (1Cor 9,16), è ben consapevole della ‘relatività’ di quelle formulazioni qui citate nella prima riga e ne mette in rilievo la funzionalità pastorale, accentuando insieme l’urgenza presente della ‘novità’, costitutiva per definizione dell’annuncio cristiano e sempre da riconoscere, accogliere, proporre come tale, contro ogni ripetitività stanca, debolmente convinta, e con debole capacità di convincimento. La Chiesa, per sua natura, ha un’energia vitale nella esperienza mai perduta e mai conclusa che «ora è il tempo favorevole, ora è il giorno della salvezza» (2Cor 6,2); conosce la fatica della «valle del pianto» (Sal 84,7), non ignora l’oscurità angustiante del «giorno malvagio» (Ef 6,13), ma ritrova, con gratitudine stupita e commossa, un vigore crescente (Sal 84,8) e un’attrezzatura così poco ‘probabile’ agli occhi della carne, e pur così decisiva efficacemente, che è l’«armatura di Dio» (Ef 6,13-17). Vale anche – credo – per la Chiesa, per la comunità credente, per ciascun credente la parola di Simeone a Maria (Lc 2,35): «E anche a te una spada trafiggerà l’anima». Quanto c’è di violento e di contraddittorio nella storia umana, quanto di irrisolto, di sospeso, di contorto, quanto di banale e fiacco e compromissorio; e, spesso, quanta fatica … Provo a elencare qualche aspetto: la domanda ‘che senso c’è’ che rimane come sospesa nella nebbia; o anche sembra che la domanda stessa praticamente non si ponga, o non sia neppure da porre: come, perché cercare oltre l’esperienza sensibile; come tentare di pensare e di passare oltre, o ancora: un gusto di razionalità tecnologica, un’efficienza raggiungibile, una positività misurata e riconosciuta, non senza ironie e malinconie per quel che non è qui compreso; poi, ecco, il principio del sospetto: la ‘nostalgia del totalmente altro’ è la proiezione di qualche velato e più ‘mondano’ desiderio; dunque: il caso e la necessità; e silenzio su quello di cui non si può parlare; a volte, si direbbe, noncuranza; spesso, non poca amarezza («la nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio …», Sap 2,1); l’impulso a cogliere quel che può dare gusto qui e ora («mangiamo e beviamo, perché domani moriremo», Is 22,13, in 1Cor 15,32; espressione non tanto di epicureismo volgarizzato grossolanamente, quanto del disincanto per una perlustrazione delusa in una mostra di ‘valori’ classificati come illusori). La comunità credente non ignora questi o altri motivi che rendono accidentato e scosceso (Is 40,4) il terreno per incontrare il Dio vivente che viene (cf. Is 52,7); oltretutto c’è una parola di Gesù nel Vangelo di Luca (18,8) che suona inquietante (l’aggettivo è del card. Biffi in Guai a me, 3): «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la sua fede sulla terra?». Anche per questo, per questo soprattutto, ogni giorno, più volte, si prega «non ci indurre in tentazione» (Mt 6,13); e ogni giorno risuona, presto di mattina, da qualche parte, il canto del Sal 95,8: «Ascoltate oggi la sua voce: non indurite il cuore …». La Chiesa, fatta di uomini che hanno esperienza personale di debolezza, sa di aver bisogno di quotidiana medicina perché anzitutto i suoi componenti non soccombano alla tentazione insinuante dell’incredulità, della diffidenza dominante, della volontà di potenza; e insieme ha in sé la «caparra dello Spirito» (2Cor 1,22), quel santo Spirito al quale si rivolge l’invocazione nella sequenza di Pentecoste: sana quod est sacium – («sana ciò che sanguina», nella tradizione liturgica); ha dunque, la Chiesa, l’eccellente privilegio di poter sempre prendere «la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef 6,17; cf. Eb 4,12). E questa è, certo, una ‘grazia a caro prezzo’; è un venir curati e rialzati per andare con coraggio difficile e lieto a dire che è possibile e urgente la pace, che già è stata donata; è la pienezza di quella benedizione ricevuta da Abramo perché tutte le famiglie della terra siano benedette (Gn 12,1-4) […]. Avverto una connessione di questi pensieri con la vicenda di San Sigismondo, della FUCI, del CUC (nel periodo iniziato già alla fine degli anni sessanta e al principio dei settanta) […]. Si sa che si rischia – specialmente quando si è un po’ anziani – di idealizzare, se non mitizzare, segmenti e aspetti di un passato non più prossimo. Mi sento però di dire che, al di là, e almeno un poco al di dentro, delle discussioni accalorate, dei travagli o esitazioni o illusioni circa grandi mutamenti politico-culturali, al di là e un poco al di dentro di molta cronaca, ci è stato dato, in quegli anni e in quell’ambiente, di attingere qualcosa a freschi pozzi d’acqua viva: abbiamo praticato, con qualche desiderio e fiducia e gusto, la lettura e un certo studio della Scrittura: i gruppi biblici, che ci raccomandò con nitida decisione don Giuseppe Dossetti allora pro-vicario, ne sono spesso stati espressione coinvolgente e importante. La liturgia, specialmente quella eucaristica, ci prese con una convinzione che aveva il rinnovato autorevole fondamento del Concilio e la conferma dell’esperienza progressiva e gioiosa: ma molti di noi erano stati iniziati dalla pastorale del card. Giacomo Lercaro, che presto ci aveva indotto a desiderare di conoscere la Bibbia, i Padri, la preghiera soprattutto liturgica. Il Concilio Ecumenico era stato così prezioso ed era tanto recente: cercavamo di cogliere qualcosa della sua ricchezza, massimamente nella realtà della ‘comunione’ (koinonía) che ci portava a desiderare di promuovere la vita fraterna e corresponsabile (forse talora con qualche semplificazione o ingenuità; mai perdendo di vista la struttura ministeriale; fiduciosi che l’amichevole e anche vivace franchezza fosse una buona componente d’una vita ecclesiale – d’una vita umana – orientata alla libertà, all’accoglienza, alla pace).

13. IGC 585, 587-591 Mi permetto di proporre qualche cenno di riflessione biblica; alcuni frammenti, inadeguati certo, vorrei sperare non troppo sconnessi. Lo faccio anche perché m’è parso di capire che qualcuno aspetti ch’io provi un poco a dire come risuona ad un cristiano – antico, ma non solo antico – la domanda del sottotitolo del De Providentia […]. Dir qualcosa del nostro tema, soprattutto in senso biblico ed evangelico, non può certo dar luogo a qualche ombra d’arroganza; deve piuttosto avvenire – per dirla con l’apostolo Paolo – «con timore e tremore» (cf. 1Cor2,3; Fil 2,12). Altrimenti si può rischiare la figura degli amici di Giobbe, ai quali infine il Signore dirà (42,7) «non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe»; eppure avevano fatto discorsi sensati, teologici, mentre Giobbe aveva osato dire (13,4) «siete tutti medici da nulla» e (13,12) «sentenze di cenere sono i vostri mòniti, difese di argilla le vostre difese»; e addirittura (5,24) «se non è lui (il responsabile!), chi dunque sarà?». Ma chi grida così – come è stato detto – «è un uomo che ha fame e sete di giustizia». Seneca, come «avvocato degli dei», ha una sua onestà, proclamando, nel suo intento educativo, un progetto di verità così alta che resta sempre oltre, un modello di vir bonus che dovrebbe attuare compiutamente una saggezza razionalmente delineata e perseguita; Seneca ben conosce la protesta per sofferenze troppo difficilmente spiegabili, ha sperimentato in se stesso, nel suo personale vissuto, lo scarto rispetto a un pur ammirevole ideale, ma si sente ugualmente desideroso e impegnato a delineare, motivare, illuminare, con la sua ‘lapidaria efficacia’ (Traina, Introd., 24), questo stile di vita e di pensiero in cui si vede un’intrinseca gloriosa verità.