logo dell'associazione

logo dell'associazione

Il giardino delle cedrine - Serena Pulga



lunedì 28 novembre 2005 leggono Elena Picollo e Antonella Bonvini
"Oggi il ricordare è la componente essenziale di ogni mia giornata e le ore non bastano mai a soddisfare il desiderio di recuperare, ripercorrere, riesaminare il passato. Ogni oggetto, ogni pensiero o sensazione innesta un percorso a ritroso attraverso le stratificazioni della memoria e vivo questa mia ardente vecchiaia come mi fosse data la grazia di una seconda vita.
I percorsi della memoria per me sono stati però sempre importanti, forse perché sono nata in un'epoca, gli anni venti, in una civiltà, quella contadina, in cui la trasmissione del passato, attraverso i racconti intrecciati nelle sere a "veglia", era la norma. […]
Oggi, libera da obblighi e orari, posso ricomporre i frammenti del tempo, muovendomi liberamente avanti e indietro per strade segnate da innumerevoli promemoria".
Ne "Il giardino delle cedrine" l'autrice, Serena Pulga, ripercorre tre stagioni della sua vita trascorse tra la campagna toscana e l'Appennino tosco-emiliano devastato dalla guerra.
Il manoscritto, non ancora pubblicato, fa parte della raccolta di diari e memorie dell'Archivio di Pieve Santo Stefano.



"Oggi il ricordare è la componente essenziale di ogni mia giornata e le ore non bastano mai a soddisfare il desiderio di recuperare, ripercorrere, riesaminare il passato. Ogni oggetto, ogni pensiero o sensazione innesta un percorso a ritroso attraverso le stratificazioni della memoria e vivo questa mia ardente vecchiaia come mi fosse data la grazia di una seconda vita.
I percorsi della memoria per me sono stati però sempre importanti, forse perché sono nata in un'epoca, gli anni venti, in una civiltà, quella contadina, in cui la trasmissione del passato, attraverso i racconti intrecciati nelle sere a "veglia", era la norma.(…)
Oggi, libera da obblighi e orari, posso ricomporre i frammenti del tempo, muovendomi liberamente avanti e indietro per strade segnate da innumerevoli promemoria."
Ne Il giardino delle cedrine l'autrice, Serena Pulga, ripercorre tre stagioni della sua vita trascorse tra la campagna toscana e l'Appennino tosco-emiliano devastato dalla guerra.
Il manoscritto, inedito, fa parte della raccolta di diari e memorie dell'Archivio di Pieve Santo Stefano.

Con il gentile contributo di



www.labottegadellelefante.it infoelefante@fastwebnet.it
Riprodotto presso Futurcopy, v. Andrea Costa 6, tel 051-4399033, www.futurcopy.it

Il giardino delle cedrine



La Smilea

Bologna 1996
Esco dalla solita riunione del martedì senza aspettare le altre perché ho fretta, mentre fuori splende ancora la luce della sera di settembre.
Sul davanzale di due finestre basse sul vicolo per anni ci sono stati vasi di fiori rigogliosi. Da un po' di tempo nessuno li cura più: le piante sono tutte seccate, fuorché l'erba cedrina.
Ogni volta che passo sotto quel davanzale non resisto al richiamo e colgo una delle sue foglie profumate, la stropiccio leggermente fra le dita per spremerne l'essenza e l'aspiro profondamente.
La sensazione è sempre intensa, ma se sono con le altre si dissolve nel nostro chiacchierare. Stasera sono sola e mi lascio sommergere.
La magia esiste; ripeto quel gesto, affondo in quel profumo e un mondo lontano riappare.
Si dissolvono i portici affollati, dove procedo fra gruppi rumorosi di soldati in libera uscita; pigiati all'entrata della pizzeria, fra tappeti ricoperti di accendini borse e collane, accanto ai quali sostano malinconici senegalesi e marocchini. Mi ritrovo in Toscana, dove sono nata, nell'enorme villa quattrocentesca, che domina con la sua mole quel tratto di pianura fra Pistoia e Prato.
Cammino nei suoi cortili, nei suoi giardini, sotto le querce e i lecci antichi del parco. Sento gli odori di quelle lunghe estati che da bambina passavo in quella villa disabitata dai proprietari da più di cent'anni. La villa Smilea, quasi un fortilizio, con le tre rocche alte minacciose che fin da lontano si vedevano emergere sul cupo verde dei cipressi e dei lecci.
Ci abitavano soltanto i miei nonni patemi, che svolgevano la funzione di casieri ; occupavano nel primo cortile -quello delle scuderie, dei granai, dei magazzini- l'appartamento destinato al fattore, ed ho passato lì molte estati della mia infanzia.
E' in quei luoghi che mi sono aperta alla bellezza, a sentire il passato come un presente carico di messaggi. Nei lunghi pomeriggi assolati, mentre i nonni facevano la siesta nelle stanze penombra, mi aggiravo da sola nei giardini ad esplorarli. Ora di nuovo li ripercorro.
Il giardino che più mi affascina è quello chiamato "I fantocci", il più antico, quando ancora i Panciatichi, Signori della Smilea, lottavano contro il confinante comune di Montemurlo. A simbolo di questa ostilità avevano affiancato al portone che guardava il nemico due giganteschi fantocci di pietra, Ulisse e Vizzano, due rozzi guerrieri che ora giacciono a terra in pezzi, ricoperti di muffe e licheni. Della stessa pietra scura sono i gradini ad anfiteatro che scendono alla cancellata verso i frutteti.
E mentre da un lato si accendono le luci delle vetrine sotto i portici e dall'altro imperversa il rumore del traffico serale, sento vibrare nel sole il canto stordito delle cicale, vaporare dalle pietre e dai rosai inselvatichiti un odore polveroso ed appassito.
Procedo verso il fondo del giardino, diretta alla cipressaia e mi inoltro nell'afa verde e resinosa che ristagna sotto le chiome compatte.
Dal margine dell'ombra, guardando nella luce, percorro con lo sguardo il profilo digradante degli Appennini, la linea chiara del canneto che segna le sponde dell'Agna, le schiere ordinate delle viti che salgono sul pendio leggero, le onde cangianti degli ulivi.
Mi affido con sicurezza appassionata a questa natura che penso immutabile, amica all'uomo come l'uomo -così per molto tempo ho creduto- le è devoto amico.
Devo ancora esplorare l'altro giardino e il grande parco di lecci e di allori, col laghetto dall'isola minuscola, incupita da falsi ruderi ottocenteschi coperti di romantica edera. Si trovano dalla parte opposta a "I fantocci" e devo attraversare il secondo cortile su cui incombe l'ombra delle rocche. E'umido e fresco, circondato da un portico sotto il quale sono appesi stemmi antichi dei Medici, ai quali nel Quattrocento la Smilea fu portata in dote e alla quale essi dettero l'aspetto che ancora oggi conserva.
Mi siedo sopra una delle panchine di marmo rosato, levigato da secoli, che poggia su zampe di leone. Sulla vera del pozzo gerani dai fiori minuscoli e dall'odore pungente colorano quello spazio ombroso.
Percorro poi un androne e spalanco il portone sul giardino delle frivolezze settecentesche.
Per accedervi supero un fossato di acqua corrente su un ponticello di cotto; i parapetti sono decorati da cornucopie che vi rovesciano una lunga caduta di frutti. Davanti si spalanca il giardino assolato, ronzante di insetti e di profumi.
E' vastissimo, circondato da un alto muro imbiancato e decorato da archi leggeri in cotto,alternati a nicchie dentro le quali cavalieri in tricorno e dame in crinolina, in grandezza naturale, di gesso ingiallito, si sporgono in gesti di danza. Ci sono soltanto quattro grandi magnolie attorno alla vasca circolare, il resto è spartito in aiole simmetriche piene di fiori dai colori accesi e da conche piene di cedrina. E' questo l’odore che pervade tutto il giardino e vibra nell’ aria col brusio delle api e dei calabroni.
E' questo l'odore che ritrovo ancora, a distanza di più di settant'anni, nella foglia di cedrina raccolta nel vicolo, mentre raggiungo la fermata dell'autobus che mi riporterà a casa. (1. La foglia di cedrina, pp. 3-4)
………………….

Nel '29 mio padre fece domanda di trasferimento. Da cinque anni ormai svolgeva il suo lavoro di capostazione in quel paese (Molino del Pallone) e non ne sopportava più l'atmosfera, dominata com'era da Giacomo e dai suoi due accoliti, che avevano trovato nelle cariche del regime il modo di spadroneggiare su quel pugno di poveri montanari.
Di tutte le passioni alle quali aveva dovuto rinunciare, una soltanto mio padre aveva conservato: la collezione di francobolli. Scriveva disinvoltamente sia in francese che in inglese e questo gli aveva permesso di tenersi in contatto, per cambi, con filatelici di molte parti del mondo. Anche dell'Unione Sovietica.
I tre camerati, che evidentemente controllavano la posta, lo denunciarono al comando della Milizia Fascista.
Fu chiamato a Bologna, dove subì alcuni interrogatori, ma mostrando le lettere che fortunatamente aveva conservato riuscì a dimostrare che non cospirava coi nemici del regime.
Dovette però rinunciare a corrispondere coi paesi stranieri, come gli fu autorevolmente "consigliato".
Quel sopruso lo esasperò talmente che, pur di andarsene da lì, per essere sicuro che non gli avrebbero negato il trasferimento, lo chiese non per una città o per un luogo privilegiato, ma per un altro paesotto poco distante e molto più impegnativo per il servizio.
Infatti quella linea ferroviaria, l’unica allora che percorresse da nord a sud tutta l'Italia, era a binario unico e il nuovo paese era uno dei pochi ad avere un parco di smistamento per l'incrocio dei treni.
Il trasferimento venne concesso e alla fine del '29 eravamo nel nuovo paese, Pracchia.
Ci restammo soltanto quattro anni ma li ricordo come i più lunghi della mia infanzia e i più felici.
Il paese era situato sulle sponde del medesimo fiume, che lo attraversava due volte, però la valle era più aperta, più assolata, con le case che si arrampicavano sui pendii più dolci.
Era un luogo di villeggiatura allora rinomato, soprattutto per merito di una sorgente termale, quindi c'erano alberghi e pensioni, giardinetti e parchi. Lì nacque mia sorella, lì conobbi i giochi tumultuosi e sfrenati nei campi, sul fiume, nei boschi. Estate e inverno ero sempre all'aria aperta, imbrancata coi miei amici, coi quali si passava dall'accordo cospiratore alle litigate furibonde che finivano a botte. Mi piaceva la scuola, soprattutto perché eravamo noi allievi a doverla pulire e quando rimanevamo, maschi e femmine, a dar la segatura dappertutto fino a tardi, si intrecciavano complotti, burle, ripicche, amoretti maliziosi.
Quanto il primo paese era cupo e tragico nelle vicende dei suoi abitanti, tanto qui era la risata, spesso feroce, a volgere in grottesco i soliti scandali di paese.
Fra i tanti ne ricordo uno su cui non si smise mai di parlare.
Fra i personaggi che il paese seguiva con particolare curiosità c'erano il "Mugnaino" e la sua donna.
Contrariamente a quello che il soprannome poteva far credere, il Mugnaino era un giovane uomo alto, vigoroso, molto bello. Faceva il barrocciaio (il camionista dei nostri giorni) e percorreva il paese in piedi sul suo barroccio, con la frusta in mano che faceva schioccare sulla testa della gente. Lo ricordo d'estate, a petto nudo, con un fazzoletto rosso attorno al collo, una striscia dello stesso colore sulla fronte e bracciali di cuoio ai polsi. D'inverno portava invece una specie di colbacco nero e una logora palandrana di pelle; l'atteggiamento di sfida era però sempre lo stesso. A me sembrava uno zingaro e per me allora gli zingari erano le persone più invidiabili della terra.
Anche la sua donna era molto bella, e non è che la memoria mi faccia velo, perché ne ho riparlato da grande con la mamma e lei me ne ha dato conferma.
L'Alberta era alta come il suo uomo, snella e morbida, coi capelli neri e la pelle bianca. Vivevano assieme senza essere sposati, cosa a quei tempi terribilmente peccaminosa, ma il loro atteggiamento era di sfida beffarda. I loro rapporti erano tumultuosi, sia nelle effusioni amorose che nelle liti di gelosia. E il giorno dopo il resoconto salace correva tutto il paese.
Dei due era l'Alberta la più gelosa, soprattutto d'estate, perché il suo uomo era molto desiderato dalle villeggianti. Un anno si vide intrecciarsi, fra una ricca ragazza bolognese e il Mugnaino, una tresca che non sfuggì all'Alberta, sempre di vedetta. Il paese seguiva col fiato sospeso.
L'Alberta riuscì ad individuare il luogo degli incontri -una faggeta sopra il paese- e lì si appostò. Attese che la ragazza cominciasse a spogliarsi, poi le fu addosso come una furia e a schiaffi e spintoni la costrinse a percorrere semisvestita tutto il paese -era l'ora della passeggiata pomeridiana - illustrandone ad alta voce le prodezze.
Tutto il paese, fino ad allora in bilico fra il disprezzo e la curiosità morbosa, da quel momento considerò l'Alberta un'eroina e anche il Mugnaino sembrò orgoglioso di lei... (1. La foglia di cedrina, pp. 12-15)
………………..

…Furono solo quattro gli anni passati nel paese della gente vivace, durante i quali le mie esperienze spaziarono in campi diversi: i giochi nel "branco" di amici e amiche, con tutto quello che comportano: le piccole congiure, le schermaglie degli amoretti, le bugie, i segreti. Poi i primi assaggi delle libere letture, del cinema, del teatro, della pratica religiosa, della musica.

Il farmacista aveva aperto accanto alla sua farmacia una piccola sala cinematografica, Punica del paese. Era uno dei pochi amici di mio padre, compare, assieme al dottore e al maresciallo, delle accanite partite a carte che li tenevano impegnati fino alle ore piccole.
Affidandomi a lui che mi teneva d'occhio, mio padre mi lasciava andare al cinema da sola. E nel buio della sala semivuota, di pomeriggio, il giovedì e la domenica mi rannicchiavo sulla poltroncina in attesa della grande favola.
Il cinema era ancora muto. Ricordo ancora "II Re dei re", "La squadriglia degli eroi", le comiche di Buster Keaton, di Charlot, di Ridolini. Un giorno il babbo mi portò a Pistola a vedere il primo film sonoro: "Africa parla", in cui si sentivano i ruggiti delle belve, il soffiare del vento, lo scroscio delle acque.
Poi venne il parlato, non molto tempo dopo. Il primo film "La canzone dell'amore" lo vidi anche questa volta a Pistola e ne ricordo soltanto la canzone ricorrente "Solo per tè Lucia", che ho continuato a canticchiare per anni. Rimasi incantata tutte e due le volte, ma ho sempre rimpianto il fascino della sala silenziosa, dove risuonava soltanto il pianoforte e dove l'attenzione si concentrava sull'immagine e la caricava di significati indicibili, più ricchi delle parole.

Il desiderio appassionato di leggere che mi era nato ascoltando dalla voce della mamma le avventure di Pinocchio si trasformò, quando ebbi imparato, in frenesia.
Così, dopo aver letto e riletto i vari "Giannettino", "Ciondolino", il libro topazio, il libro verde, il libro ametista delle fate e "II capitombolo di Visnù", mi avventurai fra i libri di mio padre. Lessi, fra altri che non ricordo, la tetralogia allora famosa di Virgilio Brocchi: "II posto nel mondo", "II destino in pugno", "La rocca sulle onda" e infine "II tramonto delle stelle". Non ci capivo quasi nulla ma li lessi caparbiamente tutti e quattro, affascinata da un linguaggio come non avevo mai incontrato. Lessi anche "Malombra" di Fogazzaro che mi turbò senza che riuscissi a capirne granché.
Intanto frequentavo la chiesa, trascinata dall'esempio della più cara amica del momento, la Raffaella; perché, se mio padre era fortemente anticlericale, il conformismo di mia madre era molto tiepido e non mi avevano mai imposto nessuna pratica particolare, al di fuori della messa la domenica, alla quale andavo da sola, e alla comunione ogni tanto. Ora invece andavo ai vespri, visitavo i Sepolcri, ascoltavo le prediche. E quel mondo nuovo, di penombre luccicante, di fìammelle tremule, di fiori, di incenso e di genuflessioni mi affascinava.
Una volta, durante la preparazione per la Pasqua, venne un predicatore da fuori e l'argomento delle sue prediche sui peccati di impurità furono soprattutto le cattive letture. Così appresi di essere caduta varie volte in grave peccato mortale, perché fra gli altri, fu proprio anche su di loro. Brocchi e Fogazzaro, che caddero gli anatemi del predicatore. Di conseguenza, alla prima confessione ammisi di aver letto libri "cattivi" e il parroco mi impose di liberarmene, gettandoli via o bruciandoli. Mi piacque di più l’idea del fuoco e la prima volta che mi capitò di rimanere in casa da sola tolsi i cerchi della stufa e buttai nelle fiamme, uno alla volta, i libri di Brocchi. Non trovai quello di Fogazzaro, che così si salvò.
Nessuno aveva fatto attenzione al mio cambiamento di letture e nessuno sospettò di me per quella sparizione misteriosa su cui ci si continuò per molto tempo a interrogare.
Il retro della casa dove abitavamo, a metà paese, confinava con il "campo della Raffaella", il luogo dei nostri scatenati giochi giornalieri; di fianco, oltre il magazzino della legna e del carbone del nostro padrone di casa, scorreva il fiume e sul davanti le finestre del nostro secondo piano si affacciavano sul parco dell'albergo Fiornovelli.
Lì, d'estate, almeno una volta alla settimana eseguivano concerti di musica classica, trii o quartetti o per soli violino e pianoforte.
Dal balcone, nell'oscurità tiepida della sera estiva, li ascoltavo. Non avevo mai sentito nulla di simile.
Il grammofono che mio padre aveva portato in casa alcuni anni prima aveva sempre suonato brani d'opera o canzonette; mai niente che assomigliasse alla musica che ascoltavo salire dal parco nella notte. Sentivo muoversi dentro di me uno struggimento vago, un desiderio che non trovava il suo oggetto, una felicità sospesa. Il mio amore per la musica è nato in quelle sere d'estate.

Dopo due anni che abitavamo nella casa vicino al fiume mio padre ebbe una promozione che gli dava diritto all'appartamento nell'edificio della stazione, situata un po' prima dell'inizio del paese.
Traslocammo ed ebbi finalmente una camera tutta per me; non più divisa con i miei o con la sorellina nata da poco. Oltre al letto e all'armadio c'era anche un tavolo da studio, una piccola libreria, un divano e due grandi finestre che guardavano, oltre i binari, sui boschi di abeti e di faggi. L'amai subito e spesso mi ritrovavo seduta davanti al tavolo a guardarmi attorno assaporando quello spazio dove potevo starmene sola.
E' in quel nuovo appartamento che scoprii il teatro tramite la radio, entrata in casa col trasloco.
Trasmettevano spesso commedie e drammi, che duravano fino a tardi. Riuscii, a forza di pregare e ripregare, ad ottenere il permesso di stare alzata ad ascoltarli anche quando i miei andavano a letto. Tenevo il volume basso, la luce spenta (per economia) e stavo in quella oscurità rotta solo dalla lucina fioca della radio. Dimenticavo tutto nel seguire le vicende che attraverso le voci e i suoni prendevano sostanza.
Ricordo ancora qualche titolo: "Come le foglie", "La fiaccola sotto il moggio", " Addio giovinezza".
..........
Mi sentivo diventare grande, avevo già dieci anni. Trovai il modo di procurarmi nuove letture facendo la cresta sulla spesa. Essendo la stazione distante un mezzo chilometro dal paese, la mamma si serviva spesso di me per gli acquisti quotidiani, sui quali io mi trattenevo sempre qualcosa. Era una tacita intesa fra me e lei fini a un “ventino”, ma io a volte arrivavo anche alla mezza lira.
Nell’atrio della stazione c’era il chiosco dei giornali e il giornalaio, al quale avevo subito cominciato a girare attorno, mi aveva detto che i giornali illustrati invenduti non venivano restituiti alle case editrici: ne rispedivano soltanto la testata e vendevano il giornale così decapitato a pochi soldi.
Di giornali allora ce n’erano pochissimi, in casa nostra entrava solo la “Domenica del corriere.
Scoprii, tutta stampata in viola,” Novella”, e con mezza lira mi portavo in casa una bracciata di numeri vecchi.
Cominciai allora a tuffarmi nel mondo delle grandi dive, ne ritagliavo le foto e le collezionavo. Quando cominciò la bella stagione scoprii che potevo stendermi sulla tettoia della pensilina quasi come su una spiaggia ( un po’ in discesa ma non ci badavo) e lì distesa su un telo, con un cappello di paglia in testa e le mie riviste sottomano, penso che mi sentissi pari alle mie dive in viola. Non mi passò nemmeno una volta in mente che anche quelle potevano essere giudicate cattive letture, in ogni caso non le avrei bruciate.
Di là dei binari cominciavano subito i boschi di faggi. Assieme agli amici della nuova casa a cui spesso si aggiungevano i vecchi, li avevamo scelti come luogo ideale per i nostri giochi.
Lì nella luminosa penombra verde oro, la fantasia si scatenava, si poteva fare di tutto: dai bivacchi intorno al fuoco, dalle morti gloriose nelle battaglie alle visite maliziose ai feriti. Rubavamo in casa quello che potevamo per improvvisare pranzi alla griglia spesso ripugnanti che mangiavamo senza battere ciglio……
Ma che corse,che fughe,che agguati palpitanti nei cespugli chiazzati di sole, che lotte furibonde avvinghiati a rotolare sui pendii, che dolori disperati per un tradimento e che riconciliazioni calde, appaganti, assolute.
Tornavo a casa accaldata, sporca di erba e di terra, felice e smemorata.
Così, quando seppi alla fine dell’inverno avremmo lasciato il paese per trasferirci a Bologna, sentii per la prima volta il dolore sordo e irrimediabile delle rinunce obbligate, quelle alle quali non ci si può sottrarre.
Il primo dicembre del ’33 ci trasferimmo a Bologna:
…………….Lì, penso, finì la mia infanzia.

(1. La foglia di cedrina pp. 16-17)

Cominciammo ad avvertire i primi morsi della guerra dopo che, nel settembre del '41, era cominciato il razionamento dei generi di prima necessità. La popolazione si era subito divisa in due categorie: quelli che, provvisti di capitali, già da tempo si erano dati ad accaparrare tutto quello che era possibile, e gli altri, che sulle prime tentarono di vivere con la tessera. La prima categoria era piuttosto ristretta, la seconda comprendeva la quasi totalità della popolazione.
Ciascuno di noi aveva ricevuto il suo pacchetto di tessere annonarie: per il pane, per la pasta, per la carne, i grassi, il latte, perfino per il tabacco. Ogni giorno si andava dal fornaio il quale sforbiciava dalla tessera il bollino del giorno, dopodiché poteva consegnarci i nostri due etti di pane a testa, ridotti ben presto ad uno e mezzo; così anche per gli altri alimenti e combustibili, che cominciarono subito a scarseggiare.
Avevamo tutti fame. A settembre, all'inizio del razionamento, fra le poche cose in vendita libera si trovava la zucca e ci riempivamo di quella, cotta in vari modi. Quando la stagione della zucca finì, si affacciò sul mercato libero un nuovo alimento, la vegetina. Era una farina sabbiosa color dell'erba secca, fra il grigio e il verde e probabilmente era proprio fieno macinato. Il sapore era pessimo, nonostante l'inventiva delle donne per migliorarlo, ma la fame ce lo faceva inghiottire ugualmente.
Finite o accaparrate le scorte, da parte di chi poteva, sparì tutto quello che si importava, non solo the, caffè, cacao, ma anche cotoni, pellami, zucchero, gomma e tante altre merci. Le razioni distribuite divennero sempre più scarse, alcune col tempo sparirono del tutto,come i grassi, e un efficientissimo mercato clandestino si diffuse diramandosi in mille rivoli. C'era quello per i pochi privilegiati e quello per i tanti che avevano semplicemente fame.
Cominciammo, la mamma ed io, a fare strane spedizioni notturne in strade appartate, ad indirizzi avuti da conoscenti, ed uscivamo furtive da quelle case ignote con due sporte di pasta e un po' di farina pagata a caro prezzo.
Come clienti appartenevamo al livello più modesto di questo mercato. Per quelli che lo rifornivano e che, con evidenza, erano più in carne degli altri, nacque subito la definizione di "borsari neri", così come, dopo la crisi mondiale del '29, chi era ben pasciuto e ben vestito veniva definito "pescecane". Cominciammo a dimagrire e i vestiti già cominciavano a penzolarci addosso. E non era che l'inizio.
…………………….

Quello che mancava era il pane, la pasta, l'olio e il burro. Fino a quando fu possibile facemmo a turno varie spedizioni in Toscana per racimolare qualche bottiglia d'olio, ma sempre più spesso tornavamo a mani vuote.
L'alimento più difficile da reperire era però il burro, che il babbo riteneva indispensabile per la sua "dieta in bianco", prescritta allora dai medici a chi aveva qualche disturbo gastrointestinale. Ne eravamo perennemente alla ricerca.
Ogni mattina veniva da un paese vicino la lattaia, su di un carrozzino tirato da un cavallo. Dai grandi bidoni di alluminio, con un misurino versava il latte nel tegame che le porgevamo, ma con la guerra anche il latte cominciò a scarseggiare, finché negli ultimi anni divenne introvabile.
La mamma lo bolliva a lungo e con la panna che si formava in superficie, montandola, ricavava un cucchiaio di burro, che però non bastava. Queste difficoltà alimentari dettero a Bruno, il ragazzo che avevo conosciuto nella prima estate di vacanza a Molino, la possibilità di intensificare le manovre di avvicinamento. Riusciva, sfruttando tutte le sue conoscenze, a portare quasi ogni sera qualcosa al signor Leo, come ha sempre chiamato mio padre: un po' di burro, un pezzetto di pane bianco, una porzione di riso.
Mio padre lo accoglieva a braccia aperte e si rafforzava nella simpatia che aveva avuto per lui sin da quando l'aveva conosciuto in una delle sue rapide visite d'estate a Molino. Dopo cena noi donne eravamo in cucina a trafficare (i nonni andavano a letto sempre molto presto), il babbo spesso in salotto a leggere quando sentivamo i due rapidi tocchi di campanello.
Andava ad aprire il signor Leo che si portava Bruno in salotto. Stavano a lungo a parlare fra di loro poi venivano in cucina a continuare la loro conversazione. Quanto con noi il babbo era di poche e brusche parole, tanto con gli altri era vivace e brillante; era un parlatore inesauribile e aveva trovato in Bruno un ascoltatore ideale, perché era taciturno e attento. Continuavano quindi i loro discorsi tipicamente maschili: di macchine, di moto, delle Mille Miglia e di ricordi, da parte di mio padre, della grande guerra.
Io zitta ad ascoltare, continuando il lavoro che sempre più spesso era un disegno o un acquerello.
Quando Bruno se ne andava ci salutavamo amichevolmente ed era sempre mio padre a riaccompagnarlo alla porta. Per me era naturale, ancora non avevo alcun impegno con lui; eravamo solo amici, ma già quegli approcci alimentari facevano parte di una strategia che si andò snodando nel tempo.
Ebbe una delle sue vittorie proprio quell'estate.
Il babbo non poteva mandarci a Molino perché non avrebbe saputo come rifornirci di cibo, mancando lassù i conigli, l'orto, la pasta e la farina che in città si trovavano a mercato nero. Bruno con improntitudine tranquilla garantì che per lui non sarebbe stato un problema trovare il necessario. E così fece a prezzo di acrobazie incredibili.
Persuaso il signor Leo, quell'estate persuase anche me.
Da allora in poi, fino alla fine della guerra, per la popolazione civile la preoccupazione che guidava ogni giornata fu quella di trovare di che sfamarsi; poi, quando cominciarono, di salvarsi dai bombardamenti; e dopo 1'8 settembre si aggiunse quella di sfuggire ai rastrellamenti e alle rappresaglie dei tedeschi. (5, La guerra, pp. 46-47)
………………………….
Le "retate" erano all'ordine del giorno. Tedeschi e brigate nere circondavano un quartiere o una borgata chiudendone gli accessi, poi procedevano alle perquisizioni casa per casa. Spesso erano accompagnati da cani lupo e la caccia dell'uomo all'uomo con l'aiuto dei cani era agghiacciante
Ora non avevamo più illusioni, ma certezze. E quali certezze.
Qualcosa però bisognava costruire e la formazione delle bande partigiane, nate su base spontanea poi sempre più organizzate dai vari comitati che presto si unificarono, ebbe grande importanza per riscattarci almeno in parte dalla vergogna, ma soprattutto per darci un filo di speranza per il futuro.
Fu probabilmente avvertendo, anche se inconsapevolmente, questa necessità che anche noi, Lucetta ed io, cercammo di fare qualcosa che ci permettesse di guardare oltre la guerra.
Non fu certo un'azione eroica, non corremmo rischi ne occorse coraggio: solo un po' di ostinazione e di fiducia.

Dopo gli avvenimenti di quella estate, sia a Molino che nelle borgate disseminate sui monti attorno, erano affluite numerose le famiglie di quelli che in passato erano emigrati da lì a Milano, a Torino, a Bologna. C'erano ora molti adolescenti che avrebbero dovuto frequentare le scuole medie; a Molino però c'erano solamente le elementari.
Decidemmo di aprirle noi, dopo aver meditato a lungo sopra il progetto, che incontrava la sua maggiore difficoltà nel fatto che eravamo solo due insegnanti per coprire tre classi.
Risolvemmo il problema accorpando insieme tutti gli allievi per materie come ginnastica, religione, disegno. Lavorando molte ore ciascuna ce l'avremmo fatta. Ci inerpicammo più volte fino a Granaglione, sede del podestà, anche se l'edificio del municipio era a Molino, per chiedere di poter usare nel pomeriggio i locali delle elementari, ma trovammo inciampi e lungaggini burocratiche.
Allora, usando la minima quota che facevamo pagare agli allievi, affittammo uno stanzone a pianterreno, andammo in prestito di una ventina di sedie e nell'ottobre del '43 aprimmo la scuola. Anche mia sorella era fra gli allievi, nella seconda classe; questo permise, a lei come agli altri, di non essere poi in ritardo con gli studi.
Avevamo una quindicina di allievi in tutto, divisi in tré classi ma in una sola aula. Alcuni abitavano in paese, altri a Posola, a Campeda e in altre borgate, ad un'ora e più di cammino su sentieri spesso molto ripidi. Nei due anni che la scuola funzionò non ci m mai un'assenza: tutti e ogni giorno furono presenti. Quando vennero le nevicate erano gli uomini anziani che andavano avanti facendo la rotta nella neve intatta e i ragazzi li seguivano mettendo i piedi dell’affossatura delle loro orme.
Finalmente, dopo Natale arrivò il permesso del comune; potemmo così usufruire, nel pomeriggio, dei locali delle elementari, dei banchi, delle lavagne, ma soprattutto della stufa. Ognuno portava un pezzo di legna e finalmente potevano avere anche un po' di caldo. La cosa che ci scaldò di più fu però il legame che ci unì, insegnanti e allievi, in quei due anni così travagliati; non avremmo rinunciato alla scuola per nessuna ragione. Quando venivano le belle giornate andavamo a fare lezione all'aperto, a far ginnastica sui prati o geografia seguendo il fiume, i ruscelli, le vene rocciose, i diversi tipi di vegetazione. Facemmo feste con cori e mostre di lavori a metà e fine anno, ma ogni giorno le ore scorrevano serene e ricche di una consapevolezza inespressa ma intensa che ci legava.
Dovevamo però dare uno sbocco legale agli allievi di quella scuola così poco ortodossa e li iscrivemmo, come privatisti, per gli esami di fine anno a Porretta.
Il giorno dell'esame -era la fine del maggio '44- ci eravamo incamminati a piedi, la mattina molto presto, per percorrere i sette chilometri che ci separavano dalla sede di esame; treni a quell'ora non ne passavano. Dopo poco però sentimmo arrivare dietro di noi il camioncino sconquassato di "Cartaccia", il robivendolo della zona, che ci fece salire fra le urla di gioia dei ragazzi. Arrivammo alla scuola con più di un'ora di anticipo ma l'attesa non ci pesò.
Durante gli esami -per decreto soltanto orali- ci furono sette interruzioni dovute agli allarmi aerei. Radunavamo i ragazzi e uscivamo di corsa, di corsa ci portavamo il più lontano possibile — dall'abitato e quando suonava il "cessato allarme" tornavamo alla scuola.
Alla fine del pomeriggio tutti i nostri allievi erano stati esaminati e ci avviammo fuori dal paese, all'appuntamento con Cartaccia, che si era detto disposto ad aspettarci.