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De beneficiis - Lucio Anneo Seneca



lunedì 12 giugno 2006 legge Paolo Bollini
Il massimo filosofo di Roma, Lucio Anneo Seneca (4 a. C. – 65 d. C.) ha continuato per secoli a insegnare. Seneca individua nel “dono” un punto cruciale per vedere quanto valgono gli uomini, quanto siano civili le società. Il beneficium è infatti il punto sensibile della società, la "cellula" fondamentale del vasto e complicato "organismo" dei comportamenti.
La società contemporanea (la sua, la nostra), è in gran parte incapace di beneficare - tutta presa da una logica che oggi chiameremmo "consumistica" - arriva a giustificare una falsità totale di comportamenti, e offre un unico enorme spettacolo di oscenità. Propone l'inautenticità come metodo di vita.
Invece, parlare del “dono”, del “beneficio”, può aiutare a comprendere se c’è ancora qualcosa di sacro – da cui ripartire.



Lucio Anneo Seneca
(Cordova 4 a. C. – Roma 65 d. C.)

Le radici morali del comportamento sociale

(De beneficiis, libro I, paragrafi VI-IX)



Estratto da Cossarini Bollini Grillini, Antologia latina, Bologna, Zanichelli, 1996, pp. 916 e seguenti.

Che cos'è il beneficio?

VI. (1) Quid est ergo beneficium? Benivola actio1 tribuens gaudium2 capiensque tribuendo3 in id, quod facit4 prona et sponte sua parata. Itaque non, quid fiat aut quid detur5, refert, sed qua mente6, quia beneficium non in eo, quod fit aut datur, consistit, sed in ipso dantis aut facientis animo7.
(2) Magnum autem esse inter ista discrimen8 vel ex hoc intellegas licet9, quod beneficium utique bonum est10, id autem, quod fit aut datur11, nec bonum nec malum est. Animus est, qui12 parva estollit, sordida inlustrat, magna et in pretio habita dehonestat; ipsa, quae adpetuntur13, neutram naturam habent, nec boni nec mali: refert, quo illa rector inpellat14, a quo forma rebus datur.
(3) Non est beneficium ipsum, quod numeratur aut traditur15, sicut ne in victimis quidem16, licet opimae sint auroque praefulgeant, deorum est honor, sed recta ac pia voluntate venerantium. Itaque boni etiam farre ac fictilla17 religiosi sunt18; mali rursus non effugiunt inpietatem19 quamvis aras sanguine multo cruentaverint20.

1) Benivola actio = "Un'azione benevola", cioè un'azione fatta con buona disposizione; 2) tribuens gaudium = "che dà soddisfazione"; 3) capiensque tribuendo = "e che, col darne, ne riceve"; 4) in id, quod facit... = "per questa ragione, poiché (lo) fa..."; 5) quid fiat aut quid detur = "ciò che venga fatto o ciò che venga dato"; 6) qua mente = "con quale intenzione"; 7) in ipso... animo = "nello stato d'animo stesso di chi (lo) dà o di chi (lo) fa".
Con grande decisione, quindi, Seneca afferma che il beneficio non consiste nell'oggetto dato, ma nel "dare" stesso, nel suo aspetto soggettivo. Questo cambiamento radicale dei termini gli consente di mutare del tutto gli assi di riferimento del problema.
8) Magnum... esse... discrimen = "che ci sia una grande differenza", per ista si intendono i due "punti di vista" espressi precedentemente: considerare beneficium l'oggetto, o invece la disposizione d'animo; 9) vel... licet = "anche da questo lo si può capire"; 10) utique bonum est = "è sempre un bene"; 11) quod fit aut datur = "ciò che vien fatto o dato" non è in sé valutabile, perché dipende da una serie di fattori, tutti circostanziali e intenzionali; 12) Animus est, qui = "E' la disposizione dell'animo che..." -seguono tre azioni dalle quali si può misurare il ruolo decisivo dell'intenzione soggettiva; 13) ipsa quae adpetuntur = "perfino le cose che si desiderano di più"; 14) quo ...inpellat = "in quale senso le spinge colui che le gestisce", cioè secondo l'interpretazione data ad esse da chi benefica.
Si noti, di passaggio, la presentazione come demiurgica del rector, addirittura indicato con termine simile alla definizione tecnica di dator formae.
15) quod numeratur et traditur = "a poter essere quantificato, e (come tale) consegnato"; 16) ne in victimis quidem = non... affatto nelle vittime sacrificali", dipende dal successivo deorum est honor = "consiste l'onore (attribuito) agli dei"; 17) farre ac fictilla = "con farro e misero vasellame"; 18) religiosi sunt = "si dimostrano religiosi"; 19) non effugiunt inpietatem = "non scampano all'empietà", nel senso "se sono empi, non riescono a porvi rimedio"; 20) quamvis ...cruentaverint = "quantunque abbiano insanguinato...".


Disposizione d'animo reciproca

VII. (1) Si beneficia in rebus, non in ipsa bene faciendi voluntate consisterent1, eo maiora essent, quo maiora sunt2, quae accipimus. Id autem falsum est; non numquam enim magis nos obligat3, qui dedit parva magnifice4, qui "regum aequavit opes animo"5, qui exiguum tribuit sed libenter, qui paupertatis suae est oblitus, dum meam respicit6, qui non voluntatem tantum iuvandi habuit sed cupiditatem7, qui accipere se putavit beneficium, cum daret8, qui dedit tamquam numquam recepturus9, recepit tamquam non dedisset, qui occasionem, qua prodesset, et occupavit et quaesiit10.

1) Si beneficia... consisterent = "Se i benefici consistessero ..."; ovvero "se avessero valore in quanto..."; 2) eo... essent, quo... sunt = "avrebbero più importanza a seconda del valore".
Qui Seneca sta svolgendo un ragionamento ex contrario, dimostrando la falsità delle conseguenze che discendono dal punto di vista opposto al proprio. Si noti invece come il valore dell'intenzionalità del dono sia espresso in forme sintattiche che danno l'idea del raccoglimento riflessivo, prima fra tutte il chiasmo: in questo paragrafo in ipsa bene faciendi voluntate, nel precedente: in ipso dantis aut facientis animo.
3) non numquam... nos obligat = "spesso infatti ci obbliga di più", propriamente non numquam è la caratteristica doppia negazione che spesso serve a Seneca per esprimere con maggior forza un "invece" implicito; 4) qui... magnifice = "chi ci ha dato piccole cose, ma con animo splendido"; 5) "regum... animo" = "uguagliava con la disposizione dell'animo le ricchezze dei re" -si tratta della ripresa di un verso di Virgilio, Georgiche, IV, 132, che in realtà dice "regum aequabat opes animis"; 6) qui ...est oblitus, dum... respicit = "si è dimenticato della sua povertà guardando la mia"; 7) non voluntatem tantum... sed cupiditatem = "che non ha solamente avuto la volontà di aiutare, ma addirittura un grande desiderio"; 8) qui... putavit... cum daret = "che pensava di ricevere lui un beneficio, mentre invece lo concedeva"; 9) qui dedit... recepturus = "che diede come se non avesse mai dovuto ricevere", cioè senza minimamente pensare all'essere contraccambiato; poi anche il contrario: recepit tamquam non dedisset, mantenendo cioè la stessa disposizione d'animo anche nel ricevere, affatto proccupato della "logica" del dover ricambiare; 10) qui occasionem... et occupavit et quaesiit = "che cercò e colse sempre l'occasione per fare del bene".
Si noti come la tendenza a esprimere con chiasmi e iperbati sintattici i concetti dell'intenzionalità sia diventata sistematica in questo paragrafo, tutto dedicato a questo argomento: tutte le frasi possono costituirne un valido esempio. In questo modo Seneca ha anche introdotto, a fianco di quello dell'intenzionalità del beneficare, anche il fondamentale concetto della reciprocità dell'intenzione.
Seneca riprende in questo modo il mito classico (e moderno) delle Tre Grazie: "dare", "ricevere", "restituire", termini che acquistano valore solo se compresenti e solidali, poiché l'uno non avrebbe senso senza l'altro, ovvero avrebbe un senso del tutto "inumano" o "sgraziato", come si dirà nel prossimo paragrafo.

(2) Contra11 ingrata sunt12, ut dixi, licet re ac specie magna videantur13, quae danti aut extorquentur aut excidunt14, multaque gratius venit, quod facili quam quod plena manu15 datur.
(3) Exiguum est, quod in me contulit16, sed amplius non potuit; at hic17 quod dedit, magnum est, sed dubitavit, sed distulit18, sed, cum daret, gemuit, sed superbe dedit19, sed circumtulit20 et placere non ei, cui praestabat, voluit; ambitioni dedit, non mihi21.


11) Contra = "Al contrario", avverbio; 12) ingrata sunt = "sono sgraziate" -per questo senso vedi qui la spiegazione dopo la nota 10); 13) licet... videantur = "anche se sembrano di grande consistenza e bellezza"; 14) extorquentur... excidunt = "vengono come estorte o cadono di mano"; 15) ...facili quam ...plena manu = "spontaneamente piuttosto che riccamente", alla lettera: "con mano spontanea, piuttosto che con mano piena"; 16) Exiguum... quod... contulit = "E' poco quel che mi ha dato", il sogg. è sottinteso, e indica persona povera ma generosa, al contrario dell'hic subito seguente; 17) at hic = "al contrario, quello"; 18) dubitavit... distulit = "ha tentennato, ha rimandato"; 19) superbe dedit = "ha donato con superbia", cioè "facendo pesare" il suo gesto; 20) circumtulit = "se ne è vantato in giro"; 21) ambitioni... non mihi = "ha donato per ambizione, non per me".

Al contrario di quanto accadeva allo stile del paragrafo dedicato alla reciprocità dell'intenzione, qui, dove si tratta della falsa interpretazione del donare, che finisce solo per esaltare l'egoismo, lo stile procede per ripetizioni e accumulazioni successive, con l'idea, frequente in Seneca, di un movimento ossessivo e angoscioso.

Un caso di Socrate

VIII. (1) Socrati, cum multa pro suis quisque facultatibus1 offerrent, Aeschines, pauper auditor2: "Nihil" inquit "dignum te, quod dare tibi possim, invenio3 et hoc uno modo4 pauperem esse me sentio. Itaque dono tibi, quod unum habeo5, me ipsum. Hoc munus rogo, qualecumque est, boni consulas6 cogitesque alios7, cum multum tibi darent8 plus sibi reliquisse"9.
(2) Cui Socrates: "Quidni tu" inquit "magnum munus mihi dederis10, nisi forte te parvo aestimas?11 Habebo itaque curae12, ut te meliorem tibi reddam13, quam accepi". Vicit Aeschines hoc munere Alcibiadis parem divitiis animum14 et omnem iuvenum opulentorum munificentiam.

1) pro... facultatibus = "ognuno secondo le proprie possibilità economiche"; 2) Aeschines... auditor = "Eschine, un discepolo povero" -si tratta del filosofo Eschine, particolarmente intimo di Socrate, da non confondere coll'Eschine retore; 3) Nihil... invenio = "Non trovo niente..."; 4) hoc uno modo = "per questo solo motivo"; 5) quod unum habeo = "l'unica cosa che ho"; 6) rogo... boni consulas = "ti prego di prenderlo per buono", secondo la costruzione aliquid bini consulere = "trovar buono, prender per buono qualcosa"; 7) cogitesque alios = "e pensa che gli altri...", cioè le altre persone che ti fanno regali; 8) cum multum tibi darent = "(pur) dandoti molto"; 9) plus... reliquisse = "hanno riservato di più per sé".

Si noti, nell'esempio di Eschine, che il ragionamento è di una logica stringente, ma allo stesso tempo anche moralmente retto; e che questa coincidenza intelligenza lo salva dall'essere banalmente patetico.

10) Quidni ...dederis = "Perché mai non dovresti darmi un grande dono"; 11) nisi... aestimas = "a meno che giusto non stimassi poco te stesso?"; 12) Habebo ...curae = "Mi impegnerò"; 13) meliorem... reddam = "di restituirti migliore a te stesso"; 14) parem... animum = "l'animo di Alcibiade, che era pari alla sua ricchezza".

L'esempio di Eschine e di Socrate ha anche la funzione di mostrare quanto il punto di vista qui assunto da Seneca si presti per passare agevolmente da un ragionamento sulle cose a uno sugli uomini, da un motivo economico sociale a uno morale, privato e pubblico.


IX. (1) Vides, quomodo animus inveniat liberalitatis materiam15 etiam inter angustias? Videtur mihi dixisse16: "Nihil egisti17, fortuna, quod me pauperem esse voluisti; expediam dignum nihilo minus huic viro munus18, et quia de tuo non possum, de meo dabo"19. Neque est, quod existimes20 illum vilem sibi fuisse21: pretium se sui fecit22. Ingeniosus adulescens invenit, quemadmodum Socratem sibi daret23. Non quanta quaeque sint24, sed a quali profecta25, scire proficit.

15) inveniat... materiam = "sappia trovare materia di generosità"; 16) Videtur... dixisse = "Trovo che è come se avesse detto", riferito sempre a Eschine; alla lettera "Mi sembra aver detto"; 17) "Nihil egisti... = "Non hai potuto far niente"; 18) expediam dignum... munus = "riuscirò a trovare un dono degno..."; 19) de tuo... de meo dabo" = "del tuo...darò del mio", questi due de più abl. indicano provenienza; 20) Neque est, quod existimes = "E non devi pensare"; 21) vilem... fuisse = "si considerasse dappoco"; 22) pretium...fecit = "eguagliò se stesso al valore suo", cioè, volendo stabilire un valore, lo commisurò a se stesso, alla lettera "fece di sé il valore di sé"; 23) quemadmodum... daret = "in che modo darsi a Socrate", che significa anche "come ingraziarsi Socrate", sensibile, com'è noto agli argomenti che portano l'attenzione sull'uomo; 24) quanta... sint = "Quanti e quali siano (i doni)"; 25) a quali profecta = "da che tipo di persone provengano", si noti la variazione dell'interrogativo: quis nel primo caso, il più pregnante qualis nel secondo.


Una società incapace di beneficare

IX. (2) En dominus callidus1 non difficilem aditum2 praebuit inmodica cupientibus3 spesque inprobas nihil re adiuturus4 verbis fovit5; at peior Opimio6, si lingua asper, voltu gravis cum invidia7 fortunam suam explicuit. Colunt enim detestanturque felicem8 et, si potuerint, eadem facturi odere9 facientem.
(3) Coniugibus alienis ne clam quidem sed aperte ludibrio habitis10 suas aliis permisere11. Rusticus12, inhumanus ac mali moris et inter matronas abominanda condicio est, si quis coniugem suam in sella prostare vetuit13 et vulgo admissis inspectoribus14 vehi perspicuam undique15.

1) En dominus callidus = "Ecco un padrone furbo"; 2) non difficilem aditum = "di avvicinarlo senza difficoltà", alla lettera "un accesso non difficile", cioè il primo gradino di una squallida promozione sociale; 3) inmodica cupientibus = "a individui bramosi di eccessi"; 4) nihil re adiuturus = "con l'intenzione di non aiutarli per niente nella realtà"; 5) verbis fovit = "li appoggia a parole"; 6) peior Opimio = "peggiore di Opimio".
Opimio è un avaro per antonomasia, del quale parla Orazio, Sat. II, 3, 142 e sgg. ("Pauper Opimius argenti positi intus et auri), che morì di fame perché il cibo gli sembrava troppo caro, perfino il decotto di riso che il medico gli prescrisse come estremo rimedio.
7) cum invidia = "con astio"; 8) Colunt... detestanturque = "(Gli uomini) assecondano, ma detestano..."; 9) eadem... odere facientem = "e odiano chi fa le stesse cose che..."; dove odere è forma contratta per oderunt, da rendere ovviamente col pres.; 10) Coniugibus alienis... ludibrio habitis = "Dopo essersi presi gioco delle mogli degli altri", un abl. ass. dove ludibrio habere = "prendersi gioco di"; 11) suas ...permisere = "concedono le proprie agli altri", dove il perf. ha piuttosto un senso gnomico.

C'è qui molto probabilmente un'altra allusione a un celebre personaggio, stavolta contemporaneo, e ben conosciuto da Seneca: quell'Otone che introdusse la bella moglie Sabina Poppea presso Nerone, favorendone esplicitamente la "carriera", tanto che l'imperatore, com'è noto, ne fece la sua amante e poi moglie, nel clima di dissolutezza e di morte descritto da Tacito nei libri XIII e XIV degli Annales.
12) Rusticus... = "(è considerato) una persona rozza...", più altre tre caratterizzazioni seguenti, "sgarbato", "maleducato", "la cui frequentazione le matrone aborriscono"; 13) si quis... vetuit = "se qualcuno non lascia che la moglie venga esposta in portantina"; 14) vulgo admissis inspectoribus = "consentendo che la si guardi pubblicamente; 15) vehi perspicuam undique = "farla trasportare dappertutto vestita in modo che si veda tutto". In questa scena, oltre la scostumatezza degli atteggiamenti -che peraltro conosciamo come tipici dell'epoca- colpisce il fatto che, come denuncia Seneca, si fosse formata un'"etichetta", affermatasi ormai come una sorta di "morale parallela", da parte dei dissoluti, in base alla quale erano loro a poter giudicare inhumanus o addirittura mali moris chi non si adeguava all'oscenità quotidiana.

(4) Si quis nulla se amica fecit insignem16 nec alienae uxori annuum praestat17, hunc matronae humilem et sordidae libidinis et ancillariolum18 vocant. Inde certissimum sponsaliorum genus est adulterium19 et in consensu viduitas caelibatusque20: nemo uxorem duxit, nisi qui abduxit.
(5) Iam rapta spargere21, sparsa sera et acri avaritia recolligere certant22, nihil pensi habere23, paupertatem alienam contemnere, suam quam ullum aliud vereri malum24, pacem iniuriis perturbare, inbecilliores vi ac metu premere25. Nam provincias spoliari26 et numarium tribunal27 audita utrimque licitatione28 alteri addici non mirum29, quoniam, quae emeris, vendere gentium ius est30.

16) se... fecit insignem = "non s'è fatto notare"; 17) nec... praestat = "mantiene la moglie di qualcuno", dove annuum praestare significa propriamente "dare un compenso annuo", in questo caso a una "mantenuta"; 18) sordidae... et ancillariolum = "un uomo dai piaceri meschini, degno delle servette". L'equazione stabilita dalle matronae si spiega esplicitandone il ragionamento: se costui coltivasse una "vera" libido, allora si darebbe naturalmente agli eccessi, in caso contrario è un impotente. Non passa neppure per la mente di queste matronae che quest'uomo possa essere, almeno in parte, "morale".
19) certissimum... adulterium = "il tipo più solido di fidanzamento è l'adulterio"; 20) in consensu... = "mentre è comunemente accettata la vedovanza o il celibato", nel senso che appare normale che ufficialmente un uomo non sia sposato, dato che è unito alle mogli degli altri, come si dirà in seguito; 21) rapta spargere = "dilapidare le cose che hanno rapinato", dipende da certant = "fanno a gara a"; 22) sparsa... recolligere = "radunare nuovamente queste che hanno dilapidato"; 23) nihil pensi habere = "non farsi scrupolo di niente"; 24) suam... vereri malum = "temere la propria (povertà) più di qualsiasi altro male"; 25) inbecilliores... premere = "tener sotto i più deboli con la forza o col terrore".
Come già notato in altri casi, la condanna morale dell'autore si accompagna spesso a figure retoriche della ripetizione e dell'accumulazione: qui ben sette proposizioni all'infinito, che danno un ritmo incalzante alla denuncia.
26) provincias spoliari = "la spoliazione delle province", l'inf. è sostantivato, così il seguente addici "l'aggiudicazione"; 27) numarium tribunal = "un tribunale corrotto"; 28) audita... licitatione = "dopo aver ascoltato le offerte dell'una e dell'altra parte", cioè le offerte per corrompere i giudici; 29) non mirum = "non sono cose di cui meravigliarsi"; 30) quoniam... ius est = "poiché vendere ciò che si è comprato risponde al diritto delle genti".
Non solo questa società consente le nefandezze di vocazione privata (i sette infiniti allineati in questo paragrafo), e la violenza sistematica di un'opinione pubblica ormai totalmente distorta (come nei paragrafi 3 e 4), ma non c'è posto per la moralità nemmeno appellandosi alla sede che dovrebbe garantire la giustizia: anche il tribunale è fatto per mercanteggiare, anzi, per premiare la prepotenza. La conclusione è ironica e insieme realistica: tutto si giustifica con "le leggi del mercato", come diremmo in termini solo un poco più moderni.


Traduzione “di servizio”
di Salvatore Guglielmino, Zanichelli 1991, I prosatori di Roma (con qualche differenza).

VI
Cos’è quindi il beneficio? Una benevola disposizione d’animo che fa il bene e che di ciò gioisce, essendo, da una spontanea inclinazione, portata a fare il bene. Quindi non interessa ciò che si fa o che si dà, ma con qual animo, dato che il beneficio non consiste in ciò che si fa o che si dà, ma proprio nella disposizione d’animo di chi dà o di chi fa. Che ci sia una gran differenza tra queste impostazioni, si può capire anche da ciò: che il beneficio è sempre un bene, mentre invece ciò che si dà o che si fa non è in sé né un bene né un male. E’ la disposizione d’animo che dà valore alle cose di poco conto, nobilita le cose meschine, immiserisce le cose di gran conto e pregiate; persino le cose che bramiamo non hanno una natura ben definita, né di bene né di male: quello che importa è sapere verso dove sono indirizzate da colui che le regola e che dà loro forma e senso. L’essenza del beneficio non consiste in ciò che si possiede o che si dà, come l’onore tributato agli dei non consiste affatto nelle vittime, siano pure esse opime e adornate d’oro, ma nella onesta intenzione religiosa di chi li venera. Gli onesti quindi possono manifestare la loro pietà religiosa con un po’ di farro o con modesto vasellame; i malvagi invece non cessano di essere empi, anche se ricolmano di sanguinanti vittime gli altari.
VII
Se il beneficio consistesse nalla cosa donata e non nella intenzione in sé di fare il bene, la sua importanza sarebbe proporzionale al dono che riceviamo. Ciò invece è falso; spesso ci sentiamo maggiormente in obbligo con chi ci ha donato cose da poco ma signorilmente, con chi “per la disposizione d’animo eguagliava le ricchezze dei re”, con chi ci ha concesso poco ma con animo pronto, con chi ha dimenticato la sua povertà guardando la mia, con chi ha avuto non la volontà, ma direi quasi la brama di aiutarmi, con chi nell’atto di beneficarmi si considerava lui beneficato, con chi ha dato come se non avesse mai dovuto ricevere un contraccambio, con chi ha ricevuto il contraccambio come se non avesse mai, a suo tempo, donato, con chi ha cercato apposta e ha prevenuto la circostanza per essermi utile. Sono invece privi di alcuna grazia, come ho detto, anche se sembrino di gran pregio e bellezza, quei doni che vengono quasi strappati al donatore o che gli cadono quasi di mano: la spontaneità infatti più che l’abbondanza, rende gradito un dono. Questi mi ha dato poco, ma non avrebbe potuto darmi di più; quest’altro invece mi ha dato molto, ma esitò, procrastinò, ma dandomi si lamentò, ma fece pesare il suo atteggiamento di sufficienza, ma ha parlato con tutti di quel dono allo scopo di riuscir gradito, non però a colui cui lo dava; per la sua ambizione, non per me, lo ha dato.
VIII
A Socrate offrivano – ciascuno secondo le proprie possibilità – molti doni; allora Eschine, un discepolo povero, gli disse: “Non trovo nulla da offrirti che sia degno di te e per questo solo m’accorgo di esser povero. Di conseguenza ti offro me stesso, l’unica cosa che possiedo. Questo dono, qualunque esso sia, gradiscilo, te ne prego, e considera che gli altri – pur avendoti dato molto – hanno riservato a sé molto di più”. E Socrate gli rispose: “Per quale ragione il tuo non dovrebbe essere un grande dono? a meno che tu non faccia poco conto di te stesso. Sarà mia cura quindi restituirti a te stesso migliore di come ti ho ricevuto”. Con questo dono Eschine vinse la liberalità di Alcibiade – che era pari alla ricchezza – e ogni altro dono dei discepoli ricchi.

IX
Lo vedi come il cuore sa trovare, anche nelle ristrettezze, la materia per manifestare la sua liberalità? Per me è come se Eschine avesse detto “Non hai ottenuto nulla, o Fortuna, col volermi povero: riuscirò a trovare, ciò nonostante, un dono degno di tale maestro e poiché non possono dare nulla del tuo, darò del mio”. Né è da credere che egli si sia valutato poco: egli si stimò pari al suo debito. Da giovane spiritoso, trovò come cattivarsi Socrate. Quello che interessa sapere non è quanti siano i doni e quanto valgano, ma da quali persone ci vengano dati.
Ecco un astuto padrone che senza difficoltà si fa circondare da tipi che bramano cose smodate e alimenta, con i suoi discorsi, le loro pazze speranze, con l’intenzione di non aiutarli affatto nella realtà; ma è peggiore di Opimio allorché con discorsi sprezzanti e con duro cipiglio fa sfoggio delle sue ricchezze! Gli uomini infatti corteggiano ma contemporaneamente maledicono chi è fortunato, e ne odiano le azioni; proprio quelle stesse che essi farebbero solo che lo potessero. Dopo che si son presi gioco delle mogli degli altri – e, non di nascosto, ma manifestamente – hanno messo a disposizione degli altri le proprie. Se qualcuno non vuole che sua moglie venga esposta al pubblico in portantina o che vada in giro con abiti trasparenti in ogni parte, permettendo a chiunque di godersela cogli occhi, passa per zoticone, per uomo privo di finezza, per maleducato: e le matrone aborrono un uomo siffatto. Chi non s’è fatto notare perché non ha alcuna amante e non ha come mantenuta la moglie di qualche amico è, per le matrone, un mediocre, un uomo di grossolani piaceri, un dongiovanni da servette. Pertanto, la più salda forma di fidanzamento è l’adulterio, vedovanza e celibato sono unanimemente ammessi; il legame maritale lo si stabilisce solo con le moglie degli altri. Ormai spandono ai quattro venti le ricchezze che sono frutto di rapine, e, presi più tardi da una rapace cupidigia, fanno a gara nel riacquistare quello che hanno dilapidato, non hanno alcuno scrupolo, diprezzano l’altrui povertà, temono la propria quanto nessun altro male, turbano la pace con le violenze, opprimono con la forza o col terrore coloro che sono più deboli. Il fatto che vengano spogliate le province e che dei giudici venduti, ascoltate le offerte che le parti fanno loro, si vendano all’una delle due, non desta meraviglia, dal momento che rientra nel diritto delle genti vendere ciò che si è comprato.