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Apologia di un matematico - G. H. Hardy



Introduce Marinella Lombardi   
lunedì 10 novembre 2008
Perché soffermarsi sull’Apologia di un matematico di G. H. Hardy?
Perché non è solo una riflessione sulla matematica, scritta da un famoso matematico del Novecento: è anche una dichiarazione d’amore per la disciplina cui egli ha dedicato la vita. Pervasa di rigore e sottile malinconia, quest’ operetta è la testimonianza di una  missione, con uno slancio a 360 gradi che anche oggi affascina il lettore.
Come scrisse Graham Green, quando la recensì, l’Apologia di un matematico, insieme con i Taccuini di Henry James,  è la descrizione più riuscita di che cosa significhi essere un artista creativo.
Marinella Lombardi, dottore di ricerca in matematica, è redattrice di testi scolastici. Collabora alla rivista online www.thrillermagazine.it e coltiva la passione per la scrittura, componendo poesie e racconti.

GODFREY HAROLD HARDY, Apologia di un matematico, Milano, Garzanti, 1989, pp. 53-55, 58-60, 64-67, 85-89, 98-105.
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Per un matematico di professione è un’esperienza melanconica mettersi a scrivere sulla matematica. La funzione del matematico è quella di fare qualcosa, di dimostrare nuovi teoremi e non di parlare di ciò che è stato fatto da altri matematici o da lui stesso. Gli uomini politici disprezzano i giornalisti, i pittori disprezzano i critici d’arte, i fisiologi, i fisici e i matematici hanno, in genere, un sentimento analogo. Non c’è disprezzo più profondo né, tutto sommato, più giustificato di quello che gli uomini “che fanno” provano verso gli uomini “che spiegano”. Esposizione, critica, valutazione sono attività per cervelli mediocri.
[…]
Quindi questo libro che mi accingo a scrivere, e che è non “di” matematica ma “sulla” matematica, equivale a una confessione di debolezza che potrebbe attirarmi a ragione il disprezzo o la compassione dei matematici più giovani e più attivi. Se scrivo “sulla” matematica è solo perché, come ogni matematico che abbia passato la sessantina, non ho più la freschezza di spirito, né l’energia, né la pazienza per continuare produttivamente nel mio lavoro.
2
Mi propongo di scrivere un’apologia della matematica. Mi si potrà obiettare che la matematica non ne ha alcun bisogno dato che, come tutti sanno, non esiste oggi una disciplina che sia ritenuta, a torto o a ragione, più utile o più degna di lode. Se non è del tutto vero è molto probabile che dopo i sensazionali trionfi di Einstein, solo l’astronomia e la fisica atomica le disputino oggi il primo posto del favore popolare. Un matematico, perciò, non ha bisogno di stare sulla difensiva.
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È meglio che dica subito qualcosa sulla questione dell’età, perché per i matematici è particolarmente importante. Nessun matematico può permettersi di dimenticare che la matematica, più di qualsiasi altra arte o di qualsiasi altra scienza, è un’attività per giovani. […]
Basti pensare, per esempio, alla carriera dell’uomo che è stato sicuramente uno dei tre più grandi matematici del mondo: Newton1. Abbandonò la matematica a cinquant’anni, ma aveva perso l’entusiasmo già molto prima; si era sicuramente reso conto già a quarant’anni che il suo periodo di grande creatività era finito. Le sue idee più grandi, le flussioni e la legge della gravitazione universale, sono del 1666, quando aveva solo ventiquattr’anni: “A quell’epoca, quanto a inventiva, ero nel fiore degli anni e mi occupavo di matematica e di filosofia più di quanto abbia mai fatto dopo di allora”. Newton fece delle scoperte importanti fino quasi a quarant’anni (l’ “orbita ellittica” a trentasette), ma in seguito non fece altro che ripulire e perfezionare le sue scoperte. Galois2 è morto a ventun’anni, Abel3 a ventisette, Ramanujan4 a trentatré, Riemann5 a quaranta. Ci sono stati altri uomini che hanno compiuto grandi cose a un’età più avanzata. La celebre memoria di Gauss6 sulla geometria differenziale è stata pubblicata quando aveva cinquant’anni (anche se ne aveva concepito le idee principali 10 anni prima), ma non conosco un solo esempio di una grande scoperta matematica che sia dovuta a un uomo di più di cinquant’anni. Se un uomo di età matura si stanca della matematica e l’abbandona, è molto probabile che non sarà una grave perdita, né per la matematica né per lui.
Ma d’altra parte neanche i vantaggi saranno molto rilevanti: le imprese finali dei matematici che hanno lasciato la matematica non sono molto incoraggianti. Newton fu direttore della Zecca, abbastanza competente (almeno quando non litigava con qualcuno).[…]. La carriera politica di Laplace7 fu molto disonorevole, ma quello di Laplace non è un buon esempio, perché era più disonesto che incompetente e poi non ha mai “smesso di fare” il matematico. È molto difficile trovare un matematico di spicco che abbia abbandonato la matematica e si sia distinto in qualche altro campo*. Forse molti giovani avrebbero potuto diventare degli eccellenti matematici se avessero perseverato nello studio della matematica, ma non ho mai incontrato un esempio davvero probante. Tutto ciò che è pienamente confermato dalla mia esperienza personale, per quanto limitata possa essere. Tutti i giovani matematici di vero talento che ho conosciuto sono rimasti fedeli alla matematica, e non per mancanza di ambizione, ma perché ne avevano molta; tutti hanno saputo riconoscere che lì, o in nessuna altra parte, si apriva per loro la strada verso una vita fuori dalla normalità.
* Pascal8 mi sembra l’esempio migliore.
8
Se la curiosità intellettuale, l’orgoglio professionale e l’ambizione sono le spinte più forti al lavoro di ricerca, sicuramente nessuno ha più probabilità di un matematico di soddisfarle. La sua materia è la più strana di tutte e non ce n’è un’altra in cui la verità giochi dei tiri più singolari. È un settore che richiede la tecnica più elaborata e più affascinante e che spalanca occasioni ineguagliabili di dimostrare la più pura capacità professionale. Infine, come dimostra ampiamente la storia, l’opera matematica, quale che sia il suo valore intrinseco, è la più duratura di tutte.
Questo appare fin dalle grandi civiltà semistoriche. Le civiltà dei Babilonesi e degli Assiri sono morte, Hammurabi, Sargon e Nabucodonosor non sono che dei nomi, ma la matematica Babilonese ci interessa ancora; e la numerazione sessagesimale babilonese è ancora usata in astronomia. Ma naturalmente l’esempio decisivo è quello dei Greci.
I Greci sono stati i primi matematici di quella categoria che oggi consideriamo dei “veri” matematici. Mentre la matematica orientale può essere una curiosità interessante, la matematica greca è vera matematica. I Greci sono stati i primi a usare un linguaggio che i matematici moderni capiscono. Come mi disse Littlewood9 una volta, i Greci non sono dei bravi studenti o dei “candidati borsisti”, ma dei “colleghi di un’altra università”. Perciò la matematica greca è “perenne”, ancora più della letteratura greca. Archimede sarà ricordato quando Eschilo sarà dimenticato, perché le lingue muoiono ma le idee matematiche no. “Immortalità” forse è una parola ingenua, ma un matematico ha più probabilità di chiunque altro di raggiungere quello che questa parola designa.
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Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme. Se le forme che crea sono più durature delle loro è perché le sue sono fatte di idee. Il pittore crea forme con i segni e i colori, il poeta con le parole. Un dipinto può incarnare un’“idea”, ma di solito si tratta di idee banali e senza importanza. In poesia, le idee contano molto di più, ma come sosteneva Housman10, di solito si esagera l’importanza delle idee nella poesia: “Non riesco a convincermi che esistano delle cose come le idee poetiche…. La poesia non è ciò che si dice ma un modo per dirlo.”
Not all the water in the rough rude sea
Can wash the balm from an anointed King.
Nemmeno tutta l’acqua del mare rude e violento
Può cancellare il crisma di un re consacrato
(Shakespeare, Riccardo II, atto III, scena II)
Potrebbero essere più belli questi versi, nonostante la banalità e la falsità delle idee che esprimono? La povertà di idee difficilmente guasta la bellezza della forma verbale. Il matematico, invece, non ha altro materiale con cui lavorare, se non le idee; quindi le forme che crea hanno qualche probabilità di durare più a lungo, perché le idee si usurano meno delle parole.
Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle; le idee, come i colori o le parole, devono legarsi armoniosamente. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c’è un posto perenne per la matematica brutta.
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La matematica mi interessa solo in quanto arte creativa. Ma ci sono altre questioni da considerare, e in particolare quella dell’ “utilità” (o inutilità) della matematica, sulla quale c’è molta confusione di idee. Dobbiamo anche stabilire se la matematica è davvero così “innocua”. […]
Una scienza o un’arte può essere definita “utile”, se il suo sviluppo accresce, anche indirettamente, il benessere materiale e fisico degli uomini, se favorisce la felicità, nel senso più semplice e banale della parola. Perciò la medicina e la fisiologia sono utili perché alleviano la sofferenza, e l’ingegneria è utile perché aiutandoci a costruire case e ponti eleva il nostro livello di vita.
(L’ingegneria, naturalmente, è anche dannosa, ma non è questo il punto adesso.) Anche la matematica è certamente utile in questo senso: gli ingegneri non potrebbero fare il loro lavoro senza una buona conoscenza della matematica, e anche la fisiologia comincia ad avvalersi della matematica. Da questo punto di vista è quindi possibile difendere la matematica; non sarà una difesa particolarmente forte e neanche la migliore, ma la dobbiamo prendere in considerazione. Gli usi “più nobili” della matematica, se ce ne sono, gli usi che condivide con ogni arte creativa, non verranno invece presi in considerazione nel nostro esame. La matematica, come la poesia e la musica, può “favorire e rafforzare un abito mentale elevato”, e quindi accrescere la felicità dei matematici e anche di altre persone, ma difenderla con questa argomentazione sarebbe una semplice elaborazione di quello che ho già detto. Ciò che dobbiamo esaminare ora è la “pura e semplice” utilità della matematica.
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[…] È innegabile che una buona parte della matematica elementare (uso il termine “elementare” nel senso in cui lo usano i matematici professionisti, e che comprende, per esempio, una buona conoscenza del calcolo differenziale e integrale) ha una considerevole utilità pratica. Questa parte della matematica in complesso è piuttosto noiosa ed è proprio quella che ha minore valore estetico. La “vera” matematica dei “veri” matematici, quella di Fermat11, di Eulero12, di Gauss, di Abel e di Riemann, è quasi totalmente “inutile” (e questo vale sia per la matematica “applicata” sia per la matematica “pura”). Non è possibile giustificare la vita di nessun vero matematico professionista sulla base dell’ “utilità” del suo lavoro.
Ma a questo punto devo chiarire un pregiudizio. A volte si dice che i matematici puri si glorino dell’inutilità del loro lavoro** e si vantino che esso non abbia nessuna applicazione pratica. L’accusa si basa generalmente su un’incauta affermazione attribuita a Gauss, che suona più o meno così (non sono mai riuscito a trovare la citazione esatta); se la matematica è la regina delle scienze, allora, data la sua suprema inutilità, la teoria dei numeri è la regina della matematica. Sono certo che l’affermazione di Gauss (se è davvero sua) è stata grossolanamente fraintesa. Se la teoria dei numeri si potesse impiegare a fini pratici e ovviamente onorevoli, se potesse contribuire ad accrescere la felicità degli uomini o ad alleviare le loro sofferenze come la fisiologia e anche la chimica, allora sono certo che né Gauss né qualsiasi altro matematico sarebbe stato così pazzo da denigrare o deplorare tali applicazioni. Ma la scienza lavora sia per il bene, sia per il male (particolarmente in tempo di guerra); e allora è giusto che Gauss e anche gli altri matematici minori si rallegrino per l’esistenza di almeno una scienza, e proprio la loro, che il distacco stesso dalle contingenze umane, conserva benigna e pulita.
** Anch’io sono stato accusato di sostenere lo stesso parere. Una volta avevo detto che “una scienza viene definita utile quando il suo sviluppo tende ad accentuare le ineguaglianze già esistenti nella distribuzione della ricchezza, o a favorire direttamente la distruzione della vita umana”. Questa frase, scritta nel 1915, è stata citata (sia a favore, sia contro di me) parecchie volte. Era una frase deliberatamente retorica, forse giustificabile dato il momento in cui fu scritta.
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[…] Credo che la realtà matematica sia fuori di noi, che il nostro compito sia di scoprirla o di osservarla, e che i teoremi che noi dimostriamo, qualificandoli pomposamente come nostre “creazioni”, siano semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni.
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Ci sono dunque due matematiche: la vera matematica dei veri matematici, e quella che chiamerò, in mancanza di un termine migliore, la matematica “banale”. […]
La matematica banale, nel suo complesso, è utile, e la matematica vera, nel suo complesso non lo è; la matematica banale, contrariamente alla vera matematica, in un certo senso “fa del bene”. Ma dobbiamo ancora chiederci se una delle due fa del male. Siccome sarebbe paradossale pensare che possa esistere una matematica nociva in tempo di pace, siamo costretti a considerare le conseguenze della matematica sulla guerra. È quasi impossibile, di questi tempi, discutere di simili questioni con serenità, e avrei quindi preferito sorvolare; ma, in un modo o nell’altro, questa discussione sembra inevitabile…
C’è una conclusione facile e confortante per un vero matematico. La vera matematica non ha alcun effetto sulla guerra. Nessuno ha ancora scoperto un uso bellico della teoria dei numeri o della relatività, e sembra molto improbabile che se ne scopra uno ancora per molti anni. […]
Perciò un vero matematico ha la coscienza pulita; non c’è nulla di cui lo si possa accusare, indipendentemente dal valore del suo lavoro. La matematica… è un’occupazione innocua.
La matematica banale, al contrario, ha molte applicazioni militari. Gli esperti in armamenti e i progettisti di aeroplani, per esempio, non potrebbero farne a meno nel loro lavoro. L’effetto generale di queste applicazioni è chiaro: la matematica facilita (anche se in modo meno evidente della fisica o della chimica) la guerra moderna, scientifica, “totale”.
[…]
In realtà, c’è ancora qualcosa da dire, perché c’è almeno uno scopo a cui la vera matematica può servire in tempo di guerra. Quando il mondo impazzisce, il matematico può trovare nella matematica un rimedio incomparabile. Perché la matematica, fra tutte le arti e tutte le scienze, è la più austera e la più distaccata dal mondo, e il matematico dovrebbe, più facilmente di tutti gli altri potersi rifugiare là dove, secondo Bertrand Russell13, “almeno uno dei nostri impulsi più nobili può sfuggire al tetro esilio del mondo reale”. È un peccato dover aggiungere una riserva molto seria: il matematico non deve essere troppo vecchio. La matematica è un esercizio creativo e non contemplativo, e nessuno ne può trarre gran consolazione quando ha perduto il potere o il desiderio di creare.

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Terminerò con un riepilogo delle mie conclusioni, esprimendole però, in modo più personale. Avevo detto all’inizio che chiunque difenda il proprio campo si accorgerà di difendere se stesso; e che la mia giustificazione della vita di un matematico professionista sarebbe inevitabilmente stata in fondo, la giustificazione della mia stessa vita. Perciò questo paragrafo conclusivo sarà in sostanza un frammento di autobiografia.
Non mi ricordo di aver mai voluto essere nient’altro che un matematico. È sempre stato chiaro, immagino, che le mie capacità personali andavano in quella direzione, e non mi è mai venuto in mente di mettere in discussione l’opinione dei più vecchi di me. Non ricordo di aver sentito, da ragazzo, nessuna passione per la matematica, e l’idea che mi ero fatto della carriera di un matematico era tutt’altro che nobile. Concepivo la matematica in termini di esami e di borse di studio: volevo battere i miei compagni, e la matematica mi sembrava il mezzo più efficace.
[…]
Arrivando a Cambridge, scoprii immediatamente che ottenere un posto implicava un “lavoro originale”, ma ci misi molto tempo prima di farmi un’idea precisa sulla ricerca. A scuola, naturalmente avevo scoperto, come succede a ogni futuro matematico, che riuscivo a risolvere certi problemi molto meglio dei miei insegnanti; e anche a Cambridge, anche se meno spesso, mi accorsi che a volte potevo fare meglio dei professori di College.
[…] Scrissi parecchio durante i venti anni successivi... Il momento decisivo della mia carriera arrivò nel 1911, quando, iniziai la mia lunga collaborazione con Littlewood, e nel 1913, quando scoprii Ramanujan. Tutto il mio miglior lavoro da allora è stato legato al loro, ed è innegabile che la collaborazione con loro sia stato l’avvenimento decisivo della mia vita. Ancor oggi nei momenti di depressione, quando sono costretto ad ascoltare della gente pedante e presuntuosa, mi dico: “Beh, io ho fatto qualcosa che voi non sareste mai stati capaci di fare: ho collaborato con Littlewood e Ramanujan, su un piano quasi di parità”. È a loro che devo una maturità insolitamente tardiva: ho dato il meglio di me un po’ dopo la quarantina, quand’ero professore a Oxford. Da allora ho subito un regolare declino, che è il destino comune degli uomini che invecchiano. Un matematico può essere abbastanza efficiente a sessant’anni, ma è inutile aspettarsi da lui delle idee originali.
È evidente ormai che la mia vita, per quel che vale, è finita, e che non posso fare più nulla che accresca o diminuisca sensibilmente il suo valore. È molto difficile essere imparziali, ma io la considero “riuscita”; ho avuto più riconoscimenti, e non meno, di quanti fossero dovuti a un uomo con le mie capacità. Ho occupato un certo numero di posizioni comode e “prestigiose”. Ho avuto pochissimi fastidi dalla routine accademica. Odio “insegnare” e ho dovuto farlo pochissimo, quasi esclusivamente sotto forma di supervisione alla ricerca; amo tenere conferenze e ne ho tenute molte, davanti a uditori estremamente competenti; infine ho sempre avuto parecchio tempo libero per la ricerca, che è stata l’unica vera felicità duratura di tutta la mia vita. Mi è sempre stato facile lavorare con gli altri, e ho collaborato assiduamente con due matematici eccezionali; questo mi ha consentito di dare alla matematica un contributo molto più importante di quanto mi potessi ragionevolmente aspettare. Ho avuto le mie delusioni, come qualsiasi altro matematico, ma nessuna è stata troppo grave né mi ha reso veramente infelice. Se, quando avevo vent’anni, mi avessero offerto una vita così, né migliore né peggiore, l’avrei accettata senza esitazione.
[…]
Non ho mai fatto niente di “utile”. Nessuna mia scoperta ha aggiunto qualcosa, né verosimilmente aggiungerà qualcosa, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, alle attrattive del mondo. Ho aiutato a formare altri matematici, ma erano matematici della mia stessa specie e il loro lavoro, quello che hanno compiuto col mio aiuto, è stato altrettanto inutile del mio. Giudicato secondo tutti i parametri pratici, il valore della mia vita matematica è nullo; e al di fuori della matematica è assolutamente insignificante. Ho un’unica possibilità di sfuggire a un verdetto di irrilevanza totale, se si giudica che ho creato qualcosa che valeva la pena creare. Che ho creato qualcosa è innegabile: la questione riguarda il suo valore.
La sola difesa della mia vita, allora, o di chiunque sia stato matematico nello stesso mio senso, è dunque questa: ho aggiunto qualcosa al sapere e ho aiutato altri ad aumentarlo ancora; il valore dei miei contributi si differenzia soltanto in grado, e non in natura, dalle creazioni dei grandi matematici, o di tutti gli altri artisti, grandi e piccoli, che hanno lasciato qualche traccia dietro di loro.
[G. H. Hardy, 1940]

Note biografiche di matematici (a cura di M. Lombardi)
1. Isaac Newton (1642-1727), filosofo, matematico, fisico e alchimista inglese. È noto soprattutto per il contributo alla meccanica classica. Nel linguaggio di Newton, flussioni = derivate.
2. Évariste Galois (1811–1832), matematico francese. Dimostrò che le equazioni di quinto grado non sono risolubili per radicali (ossia tramite una formula con coinvolga operazioni elementari quali addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione ed estrazione di radice) con tecniche diverse da quelle utilizzate da Abel. Il suo lavoro ha posto le basi per la teoria che porta il suo nome, la Teoria di Galois, una branca dell'algebra astratta.
3. Niels Henrik Abel (1802–1829), matematico norvegese, noto soprattutto per i suoi studi sull'algebra e sulla teoria delle funzioni. Il primo lavoro rilevante di Abel riguardò la dimostrazione dell'impossibilità di risolvere le equazioni di quinto grado tramite i radicali.
4. Srinivasa Aiyangar Ramanujan (1887–1920), matematico indiano. Autodidatta, nel 1913 entrò in contatto epistolare con Hardy e questi lo aiutò a trasferirsi in Inghilterra. Lavorò a Cambridge con Hardy e Littlewood, dal 1914 al 1919, dedicandosi alla teoria analitica dei numeri.
5. G. F. Bernhard Riemann (1826-1866), matematico e fisico tedesco. Il suo nome è legato alla geometria ellittica (o riemanniana), con modello la superficie di una sfera, e alla non ancora dimostrata ipotesi di Riemann, una questione di teoria dei numeri che riguarda la distribuzione dei numeri primi.
6. Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico, astronomo e fisico tedesco. Ha fornito contributi determinanti nell’ambito dell'analisi matematica, della teoria dei numeri, del calcolo numerico, della geometria differenziale, della geodesia, del magnetismo e dell’ottica. Viene definito "il più grande matematico della modernità".
7. Pierre-Simon Laplace (1749–1827), matematico, fisico e astronomo francese. Fu uno dei principali scienziati del periodo napoleonico.
8. Blaise Pascal (1623-1662), matematico, fisico, filosofo e teologo francese.
9. John Edensor Littlewood (1885-1977), matematico inglese. Lavorò a Cambridge con Hardy ed è noto per i suoi contributi in teoria dei numeri (in particolare al teorema dei numeri primi).
10. Alfred Edward Housman (1859-1936), poeta, filologo e professore di Latino a Cambridge.
11. Pierre de Fermat (1601–1665), matematico francese. Ha dato importanti contributi allo sviluppo della matematica moderna, pur non essendo un matematico di professione. È stato il precursore del calcolo differenziale. Importanti sono le sue ricerche nella teoria dei numeri. Fermat è famoso per l’ipotesi, nota come l’ultimo teorema di Fermat, indimostrata fino al 1994; la dimostrazione è dovuta al matematico inglese Andrew Wiles.
12. Eulero (Leonhard Euler, 1707–1783), matematico e fisico svizzero. È considerato il più importante matematico dell'Illuminismo.
13. Bertrand Arthur William Russell (1872-1970), filosofo, logico e matematico inglese. Nel 1950 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura.