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La penombra che abbiamo attraversato- Lalla Romano





lunedì 13 febbraio 2012 legge Magda Indiveri
E se la memoria fosse un luogo? un grande “vano” diviso in stanze e corridoi da percorrere ed attraversare, per far aderire la mappa del tempo di ieri al proprio presente? Forse è questa una chiave di lettura del romanzo di Lalla Romano, il cui titolo riprende una dichiarazione dal Tempo ritrovato di Marcel Proust: 
«Ci appartiene veramente soltanto ciò che noi stessi portiamo alla luce estraendolo dall’oscurità che abbiamo dentro di noi… Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aura poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato». 
La scrittrice piemontese, una delle grandi voci del nostro novecento, torna al suo paese di nascita e cerca nelle strade, nella casa d’infanzia e sulle montagne, secondo un percorso topologico fatto di avvicinamenti e di distanze, di visioni, di odori e di fotografie, la propria “persistenza”.


Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Torino, Einaudi, 1994Parte prima
p 5
La camera, piccola come una cella, era tinta di un giallo feroce. Il letto enorme era di ferro, dipinto a righe parallele, a «imitazione del legno». L’aria era afosa e vi stagnava un odore di fumo cattivo. Due mosche andavano su e giù, come le macchioline che ballano davanti agli occhi malati. Mi ero distesa sul letto e cercavo di pensare a cose innocue. Il letto a ogni piccolo movimento gemeva, col suono di un organo. 
Da bambina sentivo criticare gli alberghi. Sentivo dire che c'erano le pulci. A me pareva una specie di privilegio degli alberghi. Nelle case si dava l'allarme se si trovava una pulce, che appena vista spariva come un folletto, e bisognava cercarla abilmente, schiacciarla tra le unghie. Cosa orribile che guardavo con ribrezzo. [...] Papà aveva trovato le cimici, in un albergo. (Le cimici, più temibili delle pulci, erano una rarità, quasi un lusso). Papà aveva sollevato il cuscino: le cimici nere, piatte, correvano sul lenzuolo. Papà raccontava adagio, con una precisione favolosa. Io vedevo le cimici come l'immagine lontana, rimpicciolita, di un esercito di guerrieri coperti dagli scudi, in marcia su una pianura di neve.
(…)Per me c'erano stati odori precisi: nella camera della mamma un'ampollina di porcellana dal lungo collo terminante con una piccola corona da regina (l'aveva portato papà da Nizza) sprigionava odore di viole "vere". Però se si annusava un mazzetto di violette raccolte lungo le siepi, avevano un odore diverso: tenero, leggermente amaro, mentre quello della boccetta era più dolce, ma freddo.
p 13
(…)La mamma aggiunge che era stato «perché» (che ci si innamorasse per un motivo era un'altra cosa inaudita) papà si dimenticava di mangiare - erano al ristorante - per guardare il mare ed i pescatori che tiravano le reti. Papà che si incantava guardando con aria meditativa, grave, mi era familiare: l'avevo visto guardare così i quadri, le montagne; avevo anche capito che, siccome per la mamma, la bellezza era prima di tutto, così chi la amava le diventava caro per questo. Lei non amava le «cose belle»; ammirava certi momenti fuggevoli della natura. Le contemplazioni della mamma erano diverse da quelle di papà: erano rapide. Dopo, appariva felice. Riabbassava gli occhi come avesse visto qualcosa che gli altri non vedevano.
p. 14
Sono uscita nella strada davanti all’albergo, e ho sentito l’aria. L’aria mi può bastare. E’ la mia aria. 
In nessun’altra valle vicina o lontana c’è quell’aria. Io la riconosco all’odore leggero che sa di latte, di strame, di erbe amare. Ma non è un odore, se non dopo. 
Non è mi esaurito il mio bisogno di quell’aria. Io la penso di lontano, e mi nutre. Mi tormenta, anche: per qualcosa di irraggiungibile, ma anche di fatale. Essa è per me il passato: tutto quello che è avvenuto. Per me è anche “loro”. In loro sono compresa io. La conoscenza di loro e di me, come non era veramente distinta allora, tanto meno lo è adesso .
p 16
La sorellina era trattata in tutt’altro modo da me; ma non nel senso di maggiore severità. Lei stessa richiamava altri modi: più allegri, più leggeri. Soltanto io mi vergognavo di lei. Provavo fastidio, non certo gelosia, era chiaro che non era presa sul serio. Per me avevano preso la balia in casa e poi una governante; la sorellina era stata messa a balia in campagna: per lei non si erano fatte cose eccezionali.
Nei pomeriggi d’inverno, se c’era il sole, si andava a vedere la sorellina. La strada era una pista di neve dove i piedi affondavano, scivolosa. Qualcuno mi teneva per mano. Trovavamo sull’aia asciutta la sorellina affondata in un seggiolone rustico, aggrottata per il sole. Intorno c’era odore di latte e di stalla. La mamma si preoccupava delle mosche.
In quei momenti la sorellina mi ripugnava già un poco, per quell’insieme di odori di nido e di cuccia; ma non sapevo che sarebbe venuta a casa. Quando fu a casa, si vide quanto era pacifica, ma credo che soffrissi del silenzio turbato. Io «parlavo da sola», e la mamma mi lasciava fare, non mi interrompeva. La sorellina aveva una bambola di pezza vestita da tirolese; la prendeva per le braccia e la scuoteva, dicendo senza fine: «Ghi-go, goghi». Tutti trovavano graziosa quella cantilena.
Quando la sorellina andò all’Asilo, ne parlava sempre. Tutto era importante: il cestino, l’uovo, le pastiglie che le dava la direttrice.
La suora preferita dalla sorellina non era bella; aveva la faccia pallida, glabra, e lei l’aveva soprannominata «la Maestra Liscia». Io mi vergognavo di quel nome, lo trovavo indecente. A me la sorellina stessa pareva indecente, perché era grassa. Mi accorsi allora di essere magra. La mamma penava per me perché non volevo mangiare. La sorellina «mangiava di tutto». A me piacevano soltanto le patate fritte. Odiavo il latte. Alla sorellina piaceva il latte, perfino la schifosa «pelle del latte». Tutti la volevano baciare. Lei si lasciava prendere sulle ginocchia e baciare. Io la giudicavo senza dignità.
A me i baci facevano ripugnanza, perché lasciavano bagnato sulla faccia, o pungevano. In questo io e la mamma eravamo uguali: anche lei non poteva soffrire i baci. 
Tutti ammiravano «gli occhioni» della sorellina. Lei li spalancava tranquilli, guardava diritto in faccia la gente. Io guardavo di solito da un’altra parte. Per lo più per noia e distrattamente; o evitavo di proposito di guardare in faccia le persone, se esse mi guardavano.
Provavo disagio per quell’eccesso di intimità e persino paura: le facce erano troppo marcate, piene di protuberanze, peli, macchie. Mi piaceva solo guardare le persone belle, che appartenevano a un’altra specie, come le figure dei libri.
Volevo che non mi scrutassero. Forse perché stavo zitta, sembravo pensierosa. A me premeva di essere presa sul serio. Tutt’e due noi bambine eravamo pettinate «alla paggio», come usava. La sorellina aveva una bella frangetta liscia, mentre la mia era sempre scomposta. In un punto i miei capelli non volevano star giù. Era, mi dicevano, la «ruota della fortuna», ma io capivo che mi volevano consolare. Mi irritava che mi compiangessero: che cosa mi importava della frangia? La sorellina divertiva tutti con le sue ingenuità. Io provavo imbarazzo per lei e avrei voluto farla tacere.
Avevo detto che a scuola la bidella metteva l’inchiostro nei calamai; la sorellina credeva che la bidella fosse un uccello, che mettesse l’inchiostro infilando il becco nei calamai. Rimanevo sbalordita dalla sua capacità di immaginare cose simili, ma non la apprezzavo, perché la giudicavo irragionevole.
La sorellina impersonava tutto quello che non mi piaceva: la condiscendenza, la credulità. Non la maltrattavo certo; ma avevo come un istinto di corromperla . Una volta la condussi per mano a rubare dei dolci da una scatola che la mamma teneva in un cassetto. Non ero nemmeno golosa, ricordo invece la sottile gioia cattiva di indurre l’innocente a far qualcosa di proibito. Solo dopo che fu nata la sorellina, scopersi di essere cattiva. Questo fu motivo di rimorso, e persino di timore tanto il mio istinto mi pareva invincibile.
p 49
Il corridoio è scuro (illuminato da una lampadina), con una vetrata in fondo; il pavimento è di mattonelle rosse e grigie. 
Appesi alla parete, allora, c’erano i fucili di papà. il cannocchiale; appoggiati, l’alpenstock (terminante con un corno di camoscio) e le canne da pesca. 
Lo storpio mi precede, intende davvero farmi visitare la casa. Da quale stanza comincerà? In fondo al corridoio, a sinistra: la camera di papà e mamma. Va ad aprire le persiane. 
In quell’angolo c’era l’ «armoire à glace». La mamma era in piedi davanti allo specchio. Indossava un tailleur di velluto marrone, lungo, morbido, dolce a toccarlo. (Non ho memoria per gli abiti; perché ricordo quello?) Rinette, la ragazza francese che mi custodiva, disse: - Que vous êtes mince! - (Come ho potuto ricordarlo?)
Io sono in braccio a Rinette e guardo la mamma nello specchio. La mamma punta uno spillone nel cappello grande, piumato. I suoi occhi luccicano, nell’ombra. Li ricordo tristi, sebbene il viso di lei sorridesse. (Tutta lei è in questo mistero, che io ho rispecchiato bambina, fedelmente, ma senza inquietàrmene. Dopo l’ho spiegato, l’ho negato, l’ho ritrovato sempre). Parte seconda
p 101
Ero appoggiata al vecchio parapetto,nel punto dove una volta stava la lesa. Di fronte a me era la casa, alta e chiusa; di nuovo inaccessibile, remota (rientrata nell’ordine: io non volevo che fosse viva).
Ora fuori della casa doveva continuare l’inventario: di una sconfitta? Un lento ma doloroso decadere era avvenuto in me, in quel tempo che ora consideravo “sottratto al tempo”. Era stato il contatto col mondo? 
p 142
Le scuole erano (sono ancora) nel punto più alto dei portici; dietro, il paese scende verso il Cant. 
Ho percorso il breve andito scuro, il corridoio che prende luce dalla porta-finestra in fondo. Ho ritrovato la luce, fredda e come povera. Freddo è anche l’odore di latrina; anche quello sa di povertà, fa pensare alle prigioni, agli ospedali. Non la ricordavo così. Allora era mescolato ad altri odori, caldi, misti di sciapo e di acre; d’inchiostro, di stufa, e delle bambine, che anche loro avevano un odore. Di qua e di là del balcone i due usci: della Prima e della Seconda. Il paletto minuscolo a forma di croce è quello che toccavo con un po’ di batticuore quando arrivavo in ritardo, e la classe col suo brusio e la voce scandita della maestra, col suo calore e odore intenso, mi pareva improvvisamente gremita, forte di una vita estranea che non osavo affrontare. 
p 181
Ad un certo punto della strada del Podio si diparte il sentiero, ampio, sul quale passava il calesse della marchesa. Non ho saputo più ritrovare, nel primo tratto della strada, la Pietra della fotografia Forse è quel pietrone sghembo sotto il bordo della strada: deve essere stato divelto e ribaltato per far largo ai carri militari, durante la guerra. La pietra allora era sporgente sul bordo e aveva più o meno la forma di un ciocco; pareva messa lì apposta per sedersi. Io la credevo di “papà”. Papà componeva il gruppo. La mamma seduta, un berretto piatto posato sui suoi capelli crespi; io col paltoncino bianco, appoggiata a lei; papà stava all’impiedi dietro a noi, la giacca da cacciatore abbottonata fino al collo e il berretto di pelo. Davanti a tutti Murò. Sullo sfondo la strada bordata di roveri e di magri olmi selvatici. Papà era serio, un po’ fiero, con un’ombra di sorriso negli occhi socchiusi. Anche Murò era serio; ma in alcune fotografie, distratto da una farfalla, aveva voltato la testa. La mamma guardava con i suoi occhi profondi, un po’ canzonatori. (Lei trovava piuttosto noiosa la faccenda delle fotografie). Io piccola fissavo con stupore quasi doloroso 
(…) Anche in cima al Castello papà aveva fatto molte fotografie, sempre nello stesso punto, sullo sfondo di un pino dal tronco bifido. In una, papà appoggia il capo a quello della mamma ( del periodo “romantico”); la mamma è assorta come fosse sola e con la mano gioca coi miei capelli; io sono davanti a lei, piccola di due o tre anni, le gambine esili, e negli occhi quello stupore inquieto che avevo sempre. 
Ma l’immagine che ora cercavo era della mamma sola. La mamma vestita di bianco, sullo sfondo dei pini, si appoggiava appena, con una mano, all’ombrellino. La vita sottile era chiusa da un’alta cintura con la fibbia d’argento. Se non possedessi la fotografia, avrei ricordato soltanto quella cintura. Era un nastro di “gros” a strisce pallide gialle e rosa, con la fibbia molto alta. La mamma ce la regalò poi per giocare. La camicetta era di pizzo, la gonna liscia, scampanata in fondo. Un poco sopra il polso ricadeva ampio e molle il pizzo arricciato. Il polso era esile, la mano magra e come stanca. 
(…) In cima al Castello, tra gli alberi radi ho sentito arrivare come un tempo il vento della valle. Nello spiazzo rinselvatichito restava l’impronta della costruzione antica; di una grandezza remota, inusitata. 
La casa del custode era stata ripulita; le arcate riempite. Non ci si poteva avvicinare; c’era una cinta, un cancello chiuso.
Ho risalito i sentieri seminascosti tra le gaggie, e tutti terminavano contro un alto reticolato. Rottami di ferro, relitti di guerra segnavano qua e là il passaggio e forse la stanza di militari. Non era possibile avvicinarsi alle gallerie, agli spalti di roccia: anche se solo per dimenticanza durava l’interdizione. 
Tuttavia ho trovato quello che cercavo, quel preciso riferimento: il pino dal tronco sdoppiato. Là la mamma aveva posato, tra i ginepri spinosi che le sfioravano la veste. Il tronco bifido era ingrossato, come una persona appesantita dall’età. Allora le due anse snelle erano staccate come i due bracci di una cetra. Il terreno era ripido, scivoloso per le erbe secche. 
p. 199
La mamma, così festosa, aveva fatto diventare serio papà.
- Lui sapeva, - disse quando moriva, e si aprì con noi in quel modo nuovo, leggero e tragico insieme, sapeva che io potevo sfuggirgli.
Noi della loro storia non avevamo mai immaginato nulla.
Per anni la mamma ci sembrò solo bella e gaia; papà era, secondo noi, più interessante.
Lei certo diventò più allegra quando noi fummo cresciute, anche se lo era sempre al suo modo improvviso, rapido. La gioia della mamma nell'accoglierci quando tornavamo da scuola, il suo correre incontro a papà che rincasava, noi lo giudicavamo ingenuo; mentre papà, che vedevamo ora più grave, quasi taciturno rispetto al tempo di Ponte Stura, era considerato da noi più profondo della mamma. Questo fu nella nostra fanciullezza.
Dopo, il nostro giudizio fu rovesciato. Papà ci sembrò troppo semplice; incominciammo a intravedere una gravità nei silenzi della mamma, ad avvertire qualcosa di intenso, di misterioso nella sua bellezza. Fin che la nostra stessa giovinezza ci rese ottuse: indifferenti a quello che "loro" potevano essere o non essere. Accettammo con naturalezza, quasi con noncuranza che essi fossero buoni, con una specie di compatimento che fossero felici. 
Quando papà si ammalò, non ci rendemmo conto che la mamma era ancora quasi giovane; sapevamo soltanto che lui era vecchio. Ma quando lei è morta, abbiamo avvertito quella perdita con una lucidità crudele; come un'operazione chirurgica subita senza anestesia. 
Ora l’aria si era davvero rinfrescata, il cielo velato. La leggera nebbia era una medicazione inutile sulle ustioni della siccità. 
Nell’albergo la camera non era più così ostile. Un mazzolino di colchico in un bicchiere combatteva contro il giallo delle pareti, che diventava un po’ verde. Il colchico (una volta si chiamava “frigiolina”: il fiore dei primi freddi), l’avevo raccolto nei prati sotto la Madonna di Ronvello.
La Madonna di Ronvello è una cappella rustica in cima a uno sperone di roccia, a picco sulla valle. Dal basso la distingue solo chi la conosce. C’ero salita da piccola , con la mamma. Partivamo noi due sole, papà era già lassù. Papà faceva a Ronvello un lungo lavoro di misurazione per Comune. La mamma gli portava tutti i giorni il mangiare. Accadde solo per Ronvello, e lo ricordammo poi sempre. Anche in quegli ultimi giorni di lei. 
Sono uscita dal ponte su Cant verso la montagna. Dalla mulattiera si staccava un sentiero e salvia solitario. Mi fermai, considerai se mi convenisse seguirlo. Intanto fui sorpassata da un cane; un vecchio bastardo nero, silenzioso come un’ombra e svelto, quasi avesse un affare di premura più avanti. Provai timore, per un istante, ma i cani sono cambiati: non badò a me. 
Il sentiero incominciò a salire ripido. Sotto i piedi rotolarono sassi, smossi come in una frana. Era quello, il sentiero. E perché avrebbe dovuto mutare? Alzando il capo, vidi più in alto, su un altro viottolo a mezza costa, una bambina con una gavetta infilata in un braccio. Forse anche lei portava da mangiare a qualcuno.
“Vado bene di qua per Ronvello?” – La bambina fece di sì col capo, e con la mano indicò la direzione. La dolcezza del presente rendeva meno bruciante la felicità passata. Ho provato a immaginare la mamma che salvia con me: ho ritrovato solo l sua silenziosa presenza di sempre. 
Eravamo certo passate su questo altipiano breve, vicino a questa fontana, dove ora due giovani donne lavano. Mi guardano e dicono, con una familiarità un po’ beffarda: “Andiamo in montagna?”
Nell’ultimo tratto si aggira lo sperone roccioso sul quale sta la cappella. Papà era nelle vicinanze, noi lo aspettavamo sul prato. 
Arrivava sorridente, con la sua giacca da cacciatore, i gambali di cuoio; si asciugava il sudore. Lo abbracciavamo, ci sedevamo sul prato. 
(…) I monti, allineati come quinte o fondali, sono quelli dai nomi strani, che mi sembravano di un paese lontano. Hanno l’antico aspetto desolato, boreale. 
La strada nazionale, laggiù, è un filo scuro, bluastro. Nel quadro di papà la strada era un filo bianco. Il quadro con la valle vista dall’alto (da Ronvello?) era appeso alla parete di fianco al letto della mamma. Mentre le stavo accanto, l’ho guardato. 
(…) La valle, come la casa, è abitata per sempre da “loro” e da me bambina. Serba quasi la traccia di una presenza fisica. Ma non ha “più esistenza” per questo. Non può, anzi, contenere altre vite. Perciò nell’andar via, in quel lontano autunno, avevo pensato: “era”…
1962-1964