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Il sistema periodico - Primo Levi





lunedì 15 novembre 2010 legge Carlo Varotti
Primo Levi (1919-1987) ebbe una rigorosa formazione scientifica ed esercitò per tutta la vita la professione di chimico. L’amore per la scienza si associa spesso nella riflessione di Levi al senso empirico per le cose, alla ricerca di quell’armonia tra competenza teorica ed esecuzione manuale che presiede ad ogni ‘lavoro ben fatto’.
Il Sistema periodico (1975) è una raccolta di racconti, in buona parte autobiografici, i cui titoli sono associati ad altrettanti elementi (Argon; Idrogeno; Zinco; Ferro ecc.). Come il ‘sistema periodico’ (che regola la Tavola di Mendeleev degli elementi chimici) istituisce un ordine nella materia, distribuendola secondo il peso atomico e le affinità chimiche, così il titolo del libro allude a un ordine possibile della materia narrata. Ma la scienza non è qui un pretesto esterno, la felice metafora con cui un titolo rimanda al contenuto delle storie, ma permea il lessico, che attinge con naturalezza alla lingua tecnico-scientifica, nella ricerca della precisione e della chiarezza, come a istituire una corrispondenza biunivoca tra gli oggetti e le parole. Educazione scientifica ed esercizio rigoroso della precisione diventano così, fin dalla giovinezza dello scrittore, rievocata in pagine nitidissime, rifiuto consapevole della parola insensata e ingannevole delle ideologie e dei regimi.

 

Primo Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975 (1ª ed.)
Idrogeno
Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici, ma le nostre aspettazioni e speranze erano diverse. Enrico chiedeva alla chimica, ragionevolmente, gli strumenti per il guadagno e per una vita sicura. Io chiedevo tutt'altro: per me la chimica rap¬presentava una nuvola indefinita di potenze future, che av¬volgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mo¬sè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l'ordine in me, attorno a me e nel mondo. Ero sazio di libri, che pure con¬tinuavo a ingoiare con voracità indiscreta, e cercavo un'altra chiave per i sommi veri: una chiave ci doveva pur essere, ed ero sicuro che, per una qualche mostruosa congiura ai danni miei e del mondo non l'avrei avuta dalla scuola. A scuola mi somministravano tonnellate di nozioni che digerivo con di¬ligenza, ma che non mi riscaldavano le vene. Guardavo gon¬fiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse mani, e dicevo dentro di me: «Capirò anche que¬sto, capirò tutto, ma non come loro vogliono. Troverò una scorciatoia, mi farò un grimaldello, forzerò le porte». Era snervante, nauseante, ascoltare discorsi sul problema del¬l'essere e del conoscere, quando tutto intorno a noi era mi¬stero che premeva per svelarsi: il legno vetusto dei banchi, la sfera del sole di là dai vetri e dai tetti, il volo vano dei pap¬pi nell'aria di giugno. Ecco: tutti i filosofi e tutti gli esercizi del mondo sarebbero stati capaci di costruire questo mosce¬rino? No, e neppure di comprenderlo: questa era una vergo¬gna e un abominio, bisognava trovare un'altra strada.
Saremmo stati chimici, Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre forze, col nostro ingegno: avremmo stretto Proteo alla gola, avremmo troncato le sue metamorfosi inconcludenti, da Platone ad Agostino, da Ago¬stino a Tommaso, da Tommaso a Hegel, da Hegel a Croce. Lo avremmo costretto a parlare.
Questo essendo il nostro programma, non ci potevamo per¬mettere di sprecare occasioni. Il fratello di Enrico, misterio¬so e collerico personaggio di cui Enrico non parlava volen¬tieri, era studente in chimica, e aveva installato un labora¬torio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale in¬trappolato nella struttura evoluta di un mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo ata¬vico, bensí in quello di estrema povertà. C'era un bancone piastrellato, poca vetreria, una ventina di bocce con reatti¬vi, molta polvere, molte ragnatele, poca luce e un gran fred¬do. Lungo tutta la strada avevamo discusso su quello che avremmo fatto, ora che saremmo «entrati in laboratorio», ma avevamo idee confuse.
Ci sembrava «embarras de richesse», ed era invece un al¬tro imbarazzo, più profondo ed essenziale: un imbarazzo le¬gato ad un'antica atrofia, nostra, delle nostre famiglie, della nostra casta. Cosa sapevamo fare con le nostre mani? Nien¬te, o quasi. Le donne sí: le nostre madri e nonne avevano ma¬ni vive ed agili, sapevano cucire e cucinare, alcune anche suo¬nare il piano, dipingere con gli acquerelli, ricamare, intrec¬ciarsi i capelli. Ma noi, e i nostri padri?
Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regre¬dite, insensibili: la parte meno educata dei nostri corpi. Com¬piute le prime fondamentali esperienze del gioco, avevano im¬parato a scrivere e null'altro. Conoscevano la stretta convul¬sa intorno ai rami degli alberi, su cui amavamo arrampicarci per voglia naturale ed insieme (Enrico ed io) per confuso omaggio e ritorno all'origine della specie; ma ignoravano il peso solenne e bilanciato del martello, la forza concentrata delle lame, troppo prudentemente proibite, la tessitura sa¬piente del legno, la cedevolezza simile e diversa del ferro, del piombo e del rame. Se l'uomo è artefice, non eravamo uomi¬ni: lo sapevamo e ne soffrivamo.
Il vetro del laboratorio ci incantava e ci intimidiva. Il ve¬tro, per noi, era ciò che non si deve toccare perché si rompe, e invece, ad un contatto piú intimo, si rivelava una materia diversa da tutte, di suo genere, piena di mistero e di capric¬cio. È simile in questo all'acqua, che pure non ha congeneri: ma l'acqua è legata all'uomo, anzi alla vita, da una consue¬tudine di sempre, da un rapporto di necessità molteplice, per cui la sua unicità si nasconde sotto la veste dell'abitudine. Il vetro, invece, è opera dell'uomo ed ha storia piú recente. Fu la prima nostra vittima, o meglio il primo nostro avversario. Nel laboratorio della Crocetta c'era tubo di vetro da lavoro, di vari diametri, in mozziconi lunghi e corti, tutti coperti di polvere: accendemmo un becco Bunsen e ci mettemmo a lavorare.

Cromo
C’era del pesce come secondo piatto, ma il vino era rosso. Versino, capetto della manutenzione, disse che erano tutte storie, purché il vino e il pesce fossero buoni. (…) Il vecchio Cometto aggiunse che la vita è piena di usanze la cui radice non è più rintracciabile: il colore della carta da zucchero, l’abbottonatura diversa per uomini e donne, la forma della prua delle gondole, e le innumerevoli compatibilità e incompatibilità alimentari, di cui appunto quella in questione era un caso particolare: ma del resto, perché obbligatoriamente lo zampone con le lenticchie, e il cacio sui maccheroni?
Io feci un rapido ripasso mentale per accertarmi che nessuno dei presenti l’avesse ancora udita, poi mi accinsi a raccontare la storia della cipolla nell’olio di lino cotto. Quella, infatti, era una mensa di verniciai, ed è noto che l’olio cotto (ölidlinköit) ha costituito per molti secoli la materia prima fondamentale della nostra arte. (…) Raccontai ai commensali che in un ricettario stampato verso il 1942 avevo trovato il consiglio di introdurre nell’olio, verso la fine della cottura, due fette di cipolla, senza alcun commento sullo scopo di questo curioso additivo. Ne avevo parlato nel 1949 col signor Giacomasso Olindo, mio predecessore e maestro, che aveva allora superato la settantina e faceva vernici da 50 anni, e lui, sorridendo benevolmente sotto i folti baffi bianchi, mi aveva spiegato che in effetti, quando lui era giovane e cuoceva l’olio personalmente, i termometri non erano ancora entrati nell’uso: si giudicava della temperatura della cottura osservando i fumi, o sputandoci dentro, oppure, più razionalmente, immergendo nell’olio una fetta di cipolla infilata sulla punta di uno spiedo; quando la cipolla cominciava a rosolare, la cotttura era buona. Evidentemente, col passare degli anni, quella che era stata una grossolana operazione di misura aveva perso il suo significato, si era trasformata in una pratica misteriosa e magica.
A questo punto feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l’arte da cui sono state attinte: decaduta l’equitazione al rango di sport costoso, sono ormai inintelligibili, e suonano strambe, espressioni come “ventre a terra” e “mordere il freno”; scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, ha perso ogni riferimento la frase “macinare” o “mangiare a quattro palmenti”, che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta. Allo stesso modo, poiché anche la natura è conservatrice, portiamo nel coccige quanto resta di una coda scomparsa.
Bruni ci raccontò un fatto in cui era stato lui stesso implicato, ed a misura che raccontava, io mi sentivo invadere da sensazioni dolci e tenui che cercherò poi di chiarire: devo premettere che Bruni ha lavorato dal 1955 al 1965 in una grande fabbrica in riva a un lago, la stessa dove io ho imparato i rudimenti del mio mestiere verniciario negli anni 1946-47. Raccontò dunque che, quando laggiù era responsabile del reparto Vernici Sintetiche, gli era capitata per mano una formulazione di un’antiruggine ai cromati che conteneva un componente assurdo: nulla meno del cloruro d’ammonio, il vecchio e alchimistico Sale Ammoniaco del tempio di Ammone, assai propenso a corrodere il ferro piuttosto che a preservarlo dalla ruggine. In quella fabbrica in riva al lago, a meno di ulteriori sviluppi, il cloruro d’ammonio si mette tutt’ora; eppure esso è oggi totalmente inutile, come posso affermare con piena cognizione di causa, perché nella formulazione l’ho introdotto io.
L’episodio citato da Bruni, l’antiruggine ai cromati e il cloruro d’ammonio, mi scagliarono indietro nel tempo, fino al rigido gennaio del 1946 quando ancora la carne e il carbone erano razionati, nessuno aveva l’automobile, e mai in Italia si era respirata tanta speranza e tanta libertà.
Ma io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro: mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, e una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al vecchio marinaio di Coleridge, che abbranca per strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro. Ma poiché di poesie e racconti non si vive, cercavo affannosamente lavoro, e lo trovai nella grande fabbrica in riva al lago.
(…)
Un giorno [il direttore della fabbrica] mi mandò a chiamare, e con una luce obliqua negli occhi mi annunciò che aveva un lavoretto per me. Mi condusse in un angolo del piazzale, vicino al muro di cinta: ammonticchiati alla rinfusa, i piú bassi schiacciati dai piú al¬ti, c'erano migliaia di blocchi squadrati, di un vivace color arancio. Me li fece toccare: erano gelatinosi e mollicci, ave¬vano una sgradevole consistenza di visceri macellati. Dissi al direttore che, a parte il colore, mi sembravano dei fegati, e lui mi lodò: proprio cosí stava scritto nei manuali di verni¬ciologia! Mi spiegò che il fenomeno che li aveva prodotti si chiamava in inglese proprio cosí, «livering», e cioè «infega¬tamento», ed in italiano impolmonimento; in certe condi¬zioni, certe vernici da liquide diventano solide, con la consi¬stenza appunto del fegato o del polmone, e sono da buttar via. Quei corpi parallelepipedi erano state latte di vernice: la vernice si era impolmonita, le latte erano state tagliate, ed il contenuto buttato nel mucchio delle immondizie.
Quella vernice, mi disse, era stata prodotta durante la guerra e subito dopo; conteneva un cromato basico ed una resina alchidica. Forse il cromato era troppo basico o la resi¬na troppo acida: sono appunto queste le condizioni in cui può avvenire un impolmonimento. Ecco, mi regalava quel muc¬chio di antichi peccati; ci pensassi su, facessi prove ed esa¬mi, e gli sapessi dire con precisione perché era successo il guaio, cosa fare perché non si ripetesse, e se era possibile ri¬cuperare il prodotto avariato.
Cosí impostato, mezzo chimico e mezzo poliziesco, il pro¬blema mi attirava: lo andavo riconsiderando quella sera (era un sabato sera), mentre uno dei fuligginosi e gelidi treni mer¬ci di allora mi trascinava verso Torino. Ora avvenne che il giorno seguente il destino mi riserbasse un dono diverso ed unico: l'incontro con una donna, giovane e di carne e d'os¬sa, calda contro il mio fianco attraverso i cappotti, allegra in mezzo alla nebbia umida dei viali, paziente sapiente e sicura mentre camminavamo per le strade ancora fiancheggiate di macerie. In poche ore sapemmo di appartenerci, non per un incontro, ma per la vita, come infatti è stato. In poche ore mi ero sentito nuovo e pieno di potenze nuove, lavato e gua¬rito dal lungo male, pronto finalmente ad entrare nella vita con gioia e vigore; altrettanto guarito era ad un tratto il mon¬do intorno a me, ed esorcizzato il nome e il viso della donna che era discesa agli inferi con me e non ne era tornata. Lo stesso mio scrivere diventò un'avventura diversa, non piú l'i¬tinerario doloroso di un convalescente, non più un mendica¬re compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non piú solitario: un'opera di chimico che pesa e divide, mi¬sura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del re¬duce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere com¬plesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da stu¬dente nel penetrare l'ordine solenne del calcolo differenzia¬le. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Pa¬radossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere co¬me una pianta.
Nel merci del lunedí seguente, pigiato fra la folla inson¬nolita e imbacuccata nelle sciarpe, mi sentivo ilare e teso co¬me mai prima né dopo. Ero pronto a sfidare tutto e tutti, al¬lo stesso modo come avevo sfidato e sconfitto Auschwitz e la solitudine: disposto, in specie, a dare battaglia allegra al¬la goffa piramide di fegati arancioni che mi attendeva in ri¬va al lago. È lo spirito che doma la materia, non è vero? Non era questo che mi avevano pestato in testa nel liceo fascista e gentiliano? Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l’avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica…
(…)
Non mi fu difficile procurarmi, oltre alle PDA [Prescrizione di Acquisto], anche le altrettante inviolabili PDC [Prescrizioni di Collaudo]: in un cassetto del laboratorio c’era un pacchetto di schede bisunte, scritte a macchina e più volte corrette a mano. Estrassi la scheda del cromato, che per il lungo uso era divenuta color dell’aurora, e lessi con attenzione. Era tutto abbastanza sensato, e conforme alle non lontane nozioni scolastiche: solo un punto mi apparve strano. Avvenuta la disgregazione del pigmento, si prescriveva di aggiungere 23 gocce di un certo reattivo: ora, una goccia non è un’unità così definita da sopportare un così definito coefficiente numerico. A questo punto si cominciava a vedere la luce. In un archivio polveroso trovai la raccolta delle PDC in disuso, ed ecco, l’edizione precedente della scheda del cromato portava l’indicazione di aggiungere “2 o 3” gocce, e non “23”: la “o” fondamentale era mezza cancellata, e nella trascrizione successiva era andata perduta. Gli eventi si concatenavano bene: la revisione della scheda aveva comportato un errore di trascrizione, e l’errore aveva falsato tutte le analisi successive, appiattendo i risultati su di un valore fittizio dovuto all’enorme eccesso di reattivo, e provocando così l’accettazione di lotti di pigmento che avrebbero dovuto essere scartati; questi essendo troppo basici, avevano scatenato l’impolmonimento.
(…)
Poiché il magazzino conteneva parecchi lotti di cromato pericolosamente basici, che dovevano essere utilizzati perché erano stati accettati al collaudo e non si potevano più restituire al fornitore, il cloruro venne ufficialmente introdotto come preventivo antimpolmonimento nella formulazione di quella vernice. Poi io diedi le dimissioni, passarono i decenni, finì il dopoguerra, i deleteri cromati troppo basici sparirono dal mercato, e la mia relazione fece la fine di ogni carne: ma le formulazioni sono sacre come le preghiere, i decreti-legge e le lingue morte, e non un iota può venire mutato. Perciò, il mio Cloruro Demonio, gemello di un amore felice e di un libro liberatore, ormai in tutto inutile e probabilmente un po’ nocivo, in riva a quel lago viene tutt’ora religiosamente macinato nell’antiruggine ai cromati, e nessuno sa più perché.

Carbonio
Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d’ossigeno e ad uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea (….). Ma per la fortuna di chi racconta, che in caso diverso avrebbe finito di raccontare, il banco calcareo di cui l’atomo fa parte giace in superficie. Giace alla portata dell’uomo e del suo piccone (onore al piccone e ai suoi più moderni equivalenti: essi sono tutt’ora i più importanti intermediari nel millenario dialogo fra gli elementi e l’uomo): in un qualsiasi momento, che io narratore decido per puro arbitrio essere nell’anno 1840, un colpo di piccone lo staccò e gli diede l’avvio verso il forno a calce, precipitandolo nel mondo delle cose che mutano. Venne arrostito affinché si separasse dal calcio, il quale rimase per così dire con i piedi in terra e andò incontro a un destino meno brillante che non narreremo; lui, tutt’ora fermamente abbarbicato a due dei tre suoi compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell’aria. La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa.
Fu colto dal vento, abbattuto al suolo. Sollevato a dieci chilometri. Fu respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue ricco, e fu espulso. Si sciolse per tre volte nell’acqua del mare, una nell’acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell’avventura organica.
Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza gran¬de spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il car¬bonio è l'elemento chiave della sostanza vivente: ma la sua promozione, il suo ingresso nel mondo vivo, non è agevole, e deve seguire un cammino obbligato, intricato, chiarito (e non ancora definitivamente) solo in questi ultimi anni. Se l'organicazione del carbonio non si svolgesse quotidiana¬mente intorno a noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate al¬la settimana, dovunque affiori il verde di una foglia, le spet¬terebbe di pieno diritto il nome di miracolo.
L'atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due sa¬telliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque con¬dotto dal vento, nell'anno 1848, lungo un filare di viti. Eb¬be la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di es¬servi inchiodato da un raggio di sole. Se qui il mio linguaggio si fa impreciso ed allusivo, non è solo per mia ignoranza: que¬sto avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, del¬l'anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato finora descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto esso è diverso da quell'altra chimica «organica» che è opera ingombrante, lenta e ponde¬rosa dell'uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata «inventata» due o tre miliardi d'anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non di¬scutono, e la cui temperatura è identica a quella dell'ambiente in cui vivono. Se comprendere vale farsi un'immagine, non ci faremo mai un'immagine di uno happening la cui scala è il milionesimo di millimetro, il cui ritmo è il milionesimo di se¬condo, ed i cui attori sono per loro essenza invisibili. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una varrà l'altra: val¬ga quindi la seguente.
Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili) molecole di azoto ed ossigeno. Aderisce ad una grossa e complicata molecola che lo attiva, e simultaneamente riceve il decisivo messaggio dal cielo, sotto la forma folgo¬rante di un pacchetto di luce solare: in un istante, come un insetto preda del ragno, viene separato dal suo ossigeno, com¬binato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla tem¬peratura e pressione dell'atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare altrettanto saremo «sicut Deus», ed avremo anche risolto il problema della fame nel mondo.
Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cin¬que compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. È una bella struttura ad anello, un esagono quasi regolare, che però va soggetto a complicati scambi ed equilibri con l'acqua in cui sta sciolto; perché ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa della vite, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le so¬stanze che sono destinate a (stavo per dire «desiderano») tra¬sformarsi. Se poi qualcuno volesse proprio sapere perché un anello, e perché esagonale, e perché solubile in acqua, ebbe¬ne, si dia pace: queste sono fra le non molte domande a cui la nostra dottrina sa rispondere con un discorso persuasivo, accessibile a tutti, ma fuori luogo qui.
È entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara: un destino né carne né pesce, mediano, che lo prepara ad un primo contatto col mondo animale, ma non lo autorizza alla responsabilità piú alta, che è quella di far par¬te di un edificio proteico. Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi ma¬turo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi inte¬ressa solo precisare che sfuggí (con nostro vantaggio, perché non la sapremmo ridurre in parole) alla fermentazione al¬coolica, e giunse al vino senza mutare natura.
È destino del vino essere bevuto, ed è destino del gluco¬sio essere ossidato. Ma non fu ossidato subito: il suo bevito¬re se lo tenne nel fegato per piú d'una settimana, bene ag¬gomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a fare la domeni¬ca seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato. Ad¬dio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomi¬tolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trasci¬nato dalla corrente del sangue fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e qui brutalmente spaccato in due molecole d'acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo piú tardi, qual¬che minuto dopo, l'ansito dei polmoni poté procurare l'ossi¬geno necessario ad ossidare con calma quest'ultimo. Cosí una nuova molecola d'anidride carbonica ritornò all'atmosfera, ed una parcella dell'energia che il sole aveva ceduta al tral¬cio passò dallo stato di energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nella ignava condizione di ca¬lore, riscaldando impercettibilmente l'aria smossa dalla cor¬sa ed il sangue del corridore. «Cosí è la vita», benché rara¬mente essa venga cosí descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giú dell'energia, dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all'ingiú, che condu¬ce all'equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un'ansa e ci si annida.
Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio obbligato, anche questo; se ne possono imma¬ginare o inventare altri, ma sulla terra è cosí. Di nuovo ven¬to, che questa volta porta lontano: supera gli Appennini e l'Adriatico, la Grecia l'Egeo e Cipro: siamo sul Libano e la danza si ripete. L'atomo di cui ci occupiamo è ora intrappo¬lato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tron¬co venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa par¬te appartiene, come il grano di un rosario, ad una lunga ca¬tena di cellulosa. Non è piú la fissità allucinante e geologica della roccia, non sono piú i milioni di anni, ma possiamo be¬ne parlare di secoli, perché il cedro è un albero longevo. È in nostro arbitrio abbandonarvelo per un anno o per cinque¬cento: diremo che dopo vent'anni (siamo nel 1868) se ne oc¬cupa un tarlo. Ha scavato la sua galleria fra il tronco e la cor¬teccia, con la voracità ostinata e cieca della sua razza; trapa¬nando è cresciuto, il suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, ha ingoiato ed incastonato in se stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in primavera sotto for¬ma di una brutta farfalla grigia che ora si sta asciugando al sole, frastornata ed abbagliata dallo splendore del giorno: lui è là, in uno dei mille occhi dell'insetto, e contribuisce alla vi¬sione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. L'insetto viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo cadavere giace nel sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepol¬ta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una «cosa», ma la morte degli atomi, a differenza dalla no¬stra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili ed invisibili becchini del sottobosco, i mi¬crorganismi dell'humus. La corazza, coi suoi occhi ormai cie¬chi, è lentamente disintegrata, e l'ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente preso il volo.
Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed a giustificazione di questo intervallo cosí lungo rispetto alla misura umana faremo notare che esso è invece assai piú breve della media: questa, ci si assicura, è di due¬cento anni. Ogni duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie pla¬stiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta della fotosintesi. Esistono altre porte? Sí, alcune sin¬tesi create dall'uomo; sono un titolo di nobiltà per l'uomo¬-fabbro, ma finora la loro importanza quantitativa è trascu¬rabile. Sono porte ancora molto piú strette di quella del ver¬de vegetale: consapevolmente o no, l'uomo non ha cercato finora di competere con la natura su questo terreno, e cioè non si è sforzato di attingere dall'anidride carbonica dell'a¬ria il carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per riscaldarsi, e per i cento altri bisogni piú sofisticati della vita moderna. Non lo ha fatto perché non ne ha avuto biso¬gno: ha trovato, e tuttora trova (ma per quanti decenni an¬cora?), gigantesche riserve di carbonio già organicato, o al¬meno ridotto. Oltre al mondo vegetale ed animale, queste ri¬serve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosinte¬tiche compiute in epoche lontane, per cui si può bene affer¬mare che la fotosintesi non è solo l'unica via per cui il car¬bonio si fa vivente, ma anche la sola per cui l'energia del so¬le si fa utilizzabile chimicamente.
Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere: tutte letteralmente vere, nella natu¬ra dei trapassi, nel loro ordine e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a ca¬priccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di car¬bonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che, da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via piú grossi, ri¬tornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un per¬petuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni di¬voratore è immediatamente divorato; di altri che raggiungo¬no invece una decorosa semi-eternità nelle pagine ingiallite di qualche documento d'archivio, o nella tela di un pittore famoso; di quelli a cui toccò il privilegio di fare parte di un granello di polline, e lasciarono la loro impronta fossile nel¬le rocce per la nostra curiosità; di altri ancora che discesero a far parte dei misteriosi messaggeri di forma del seme uma¬no, e parteciparono al sottile processo di scissione duplica¬zione e fusione da cui ognuno di noi è nato. Ne racconterò invece soltanto ancora una, la piú segreta, e la racconterò con l'umiltà e il ritegno di chi sa fin dall'inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza.
È di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte. È inserito in una lunga catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono accettati dal corpo umano. Viene in¬goiato: e poiché in ogni struttura vivente alberga una selvag¬gia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, ed i frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Que¬sta cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l'atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gi¬gantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto.
È quella che in questo istante, fuori da un labirintico in¬treccio di sí e di no, fa sí che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono se¬gni; un doppio scatto, in su ed in giú, fra due livelli d'ener¬gia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.