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Discorso sulla servitù volontaria - Etienne de La Boétie





lunedì 12 marzo 2012 legge Raffaele Laudani
Che un testo del Cinquecento ci aiuti a pensare il presente non deve stupire. Un classico è tale perché parla travalicando le epoche, perché, con il linguaggio della propria, avanza la domanda radicale cui il futuro – che noi siamo – non ha fornito risposta. La critica della tirannia formulata mezzo millennio fa si dimostra viatico straordinario per pensare la servitù volontaria nelle odierne democrazie.
(…………………)
..La servitù volontaria passa oggi soprattutto attraverso i media. Non solo la disinformazione ma l’infotainment, e l’etica comune modellata attraverso reality e trasmissioni di evasione. Inventare e imporre istituzioni per l’informazione imparziale, oltre che plurale, allora, e per un dibattito nell’agorà televisiva – unica ormai esistente – che costringa ad argomentare anziché esprimere. Tecnicamente è possibile, basta volerlo, basta considerarlo vitale per la democrazia. Senza complessi di apparire elitari, insomma: la lotta contro la servitù volontaria deve mirare ad ogni misura che favorisca un illuminismo di massa. ( dalla prefazione “Perché oggi” di Paolo Flores d’Arcais al “Discorso sulla servitù volontaria”, Chiare lettere 2011)



Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, traduzione di Silvia Ecclesie

“No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re”.
Così, secondo Omero, s'espresse Ulisse parlando in pubblico. Se avesse detto soltanto:
“non è un bene il comando di molti”,
sarebbe stata la cosa migliore. Ma invece di spiegare questa affermazione sostenendo che il dominio di molti non può esser cosa buona giacché il potere d'uno solo, non appena costui prende il titolo di signore, è duro e irragionevole, al contrario arriva ad aggiungere:
“uno sia il capo, uno il re”.
Tuttavia bisogna scusare Ulisse, al quale forse in quel momento un tale linguaggio era necessario per domare la rivolta dell'esercito, adattando, come credo, il suo discorso alle circostanze piuttosto che alla verità. Ma, a dire il vero, è un'estrema disgrazia esser soggetti a un padrone della cui bontà non si può mai esser sicuri poiché ha sempre il potere d'incattivirsi a proprio piacimento, e avere parecchi padroni significa essere parecchie volte vittime di una tale disgrazia. Non intendo adesso discutere la questione tanto dibattuta se altre forme di regime politico siano preferibili alla monarchia; vorrei innanzitutto sapere, prima di domandarmi quale sia il rango che la monarchia debba occupare tra i diversi modi di governare la cosa pubblica, se la monarchia davvero ne meriti uno, in quanto è ben difficile credere che vi sia qualcosa di pubblico in quel governo in cui tutto è nelle mani di uno solo. Ma riserviamo a un'altra occasione questo problema cui si dovrebbe dedicare un intero trattato, nel quale confluirebbero tutte le discussioni politiche.
Per ora vorrei solo comprendere come è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se non quella che essi gli danno, che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero subirlo invece di contrastarlo. È cosa davvero sorprendente, eppure tanto comune da doversene rattristare piuttosto che stupire, vedere migliaia d'uomini asserviti miseramente, con il collo sotto il giogo, non già costretti da una forza più grande, ma in qualche modo, come sembra, incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero né temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce. La debolezza di noi uomini è tale che siamo spesso obbligati a obbedire alla forza; è necessario tergiversare, non possiamo sempre essere i più forti. Se dunque una nazione è obbligata dalla forza delle armi a servire uno solo, come la città di Atene i Trenta Tiranni, non bisogna stupirsi del fatto che essa serva, ma deplorare l'incidente; o meglio non stupirsi né lamentarsene, ma sopportare il male con pazienza e organizzarsi per una migliore occasione futura.
La nostra natura è tale che i doveri comuni dell'amicizia assorbono una buona parte della nostra vita. E ragionevole amare la virtù, stimare le belle azioni, essere riconoscenti dei benefici ricevuti, e spesso addirittura diminuire il nostro benessere personale per accrescere l'onore e il benessere di coloro che amiamo e che meritano d'essere amati. Quindi, se gli abitanti d'un paese trovano fra loro uno di quei grandi uomini che abbia dato ripetute prove di grande preveggenza nel prendersi cura di loro, di grande audacia nel difenderli, di grande prudenza nel governarli; se si abituano insensibilmente a obbedirgli; se addirittura hanno fiducia in lui, fino ad accordargli una certa supremazia, non so se sarebbe agire con saggezza toglierlo dal posto in cui faceva bene, per elevarlo in un luogo dove potrà fare male: tuttavia appare del tutto ragionevole non aver timore che il male possa venirci da chi ci ha fatto del bene.
Ma, Dio mio, che cosa mai è questa? Come diremo che si chiama? Di che sventura si tratta? Quale vizio, o meglio quale orribile vizio vedere un numero infinito di uomini non obbedire ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati, senza più avere come propri né beni, né genitori, né donne, né figli e neanche la loro stessa vita; subire le rapine, i brigantaggi, le crudeltà non da un esercito, non da un'orda di barbari, contro cui si dovrebbe dare il proprio sangue e la propria vita, ma da uno solo; non da un Ercole o da un Sansone, ma da un qualche omuncolo che spesso è il più vigliacco e il più effeminato della nazione;
Non da uno avvezzo alla polvere delle battaglie, ma da chi a mala pena è abituato alla sabbia dei tornei; non da uno capace con la forza comandare degli uomini, ma da chi è incapace di servire vilmente l'ultima donnicciola Definiremo tutto ciò mollezza? Chiameremo vili e codardi gli uomini che servono? : Se due, se tre, se quattro cedono a uno solo è cosa strana, ma comunque possibile; forse a buon diritto potremmo dire che è mancanza coraggio. Ma se cento, se mille sopportano uno solo, non si dirà forse che non vogliono , e non già che non possono affrontarlo, che non è per viltà quanto per abiezione e mancanza di dignità? Se si vedono non cento né mille individui, ma cento paesi, ma mille città, un milione di uomini che non attaccano quell'uno solo che nel migliore dei casi li tratta come servi e schiavi, come chiameremo ciò ? E’ viltà? Ma tutti i vizi hanno per natura -dei limiti che non possono superare. Due uomini e anche dieci possono temerne uno; ma se mille o un milione di individui, ma se mille città non si difendono contro uno solo, non si tratta di codardia: questa non arriva tanto, così come il valore non implica che uno solo espugni una fortezza, attacchi un esercito o conquisti un regno. E allora, che vizio mostruoso è mai questo, che non merita più il nome di codardia, per il quale non c'è una parola abbastanza offensiva, che la natura disconosce d'aver creato e che la lingua si rifiuta di nominare?
Si pongano cinquantamila uomini armati da una parte e altrettanti dall'altra, si schierino in ordine di battaglia; quando vengono a scontrarsi, gli uni liberi, che combattono per la propria libertà, gli altri che gliela vogliono togliere, a quale dei due gruppi si potrà presumere che arrida la vittoria? Chi andrà in battaglia con più coraggio, quelli che sperano come premio delle loro fatiche il mantenimento della propria libertà, o quelli che possono solo sperare come ricompensa delle percosse date e ricevute la servitù altrui? Gli uni hanno sempre davanti agli occhi la felicità della vita passata, l'attesa d'un simile benessere in futuro; pensano meno a ciò che sopportano durante la battaglia, che non a quello che dovranno sopportare per sempre, essi stessi, i loro figli, tutti i loro discendenti; gli altri sono stimolati unicamente da una punta di cupidigia che improvvisamente scema di fronte al pericolo, e che non può essere tanto ardente da non doversi spegnere, come sembra, alla minima goccia di sangue che sgorghi dalle loro ferite. Nelle battaglie tanto celebri di Milziade, Leonida o Temistocle, combattute duemila anni fa e ancor oggi vive nel ricordo dei libri e degli uomini come se fossero dell'altro giorno, combattute in Grecia per il bene dei Greci e per l'esempio di tutti, che cosa pensiamo abbia dato a un così sparuto gruppo di uomini, quanti erano i Greci, non già il potere, ma il coraggio di sostenere la forza di tante imbarcazioni che il mare stesso ne era sovraccarico, di sbaragliare tante nazioni, il cui numero era così grande che tutti i soldati greci messi insieme non avrebbero raggiunto il numero dei comandanti dell'esercito nemico? Solo il fatto, io credo, che in quei giorni gloriosi non ebbe luogo la battaglia dei Greci contro i Persiani, quanto piuttosto la vittoria della libertà sul dominio, dell'indipendenza sulla cupidigia.
È straordinario sentir parlare del valore che la libertà infonde nell'animo di coloro che la difendono. Ma ciò che accade in tutti i paesi, presso tutti gli uomini, ogni giorno, che un unico uomo ne opprima centomila e li privi della loro libertà, chi mai vi crederebbe se ne avesse solo sentito parlare, senza vederlo con i suoi occhi? E se ciò accadesse soltanto in paesi stranieri e in terre lontane, e ci venisse solo raccontato, chi non lo riterrebbe finzione e invenzione, non già realtà vera? Inoltre, questo tiranno solo non v'è neanche bisogno di combatterlo, non v'è bisogno di distruggerlo; egli vien meno da solo a patto che il paese non acconsenta alla propria servitù. Non è necessario strappargli alcunché, basta solo non dargli nulla. Non occorre che il paese si dia pena di far qualcosa per sé, a patto che non faccia nulla contro di sé. Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che, potendo scegliere se esser servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca. Se gli costasse qualcosa riconquistare la libertà, non ve lo spingerei affatto, benché riacquistare i propri diritti naturali e, per così dire, tornare a essere da bestia uomo, sia ciò che dovrebbe stargli più a cuore. E tuttavia non pretendo in esso una così grande audacia, ammetto che preferisca una certa qual sicurezza di vivere miseramente piuttosto che una speranza dubbia di vivere a proprio agio. Ma come?, se per avere la libertà occorre unicamente desiderarla, se è necessario un semplice atto di volontà, può mai esserci un popolo che ritenga di pagarla troppo cara potendo ottenerla con il solo auspicio, e che deplori la volontà di recuperare quel bene che invece andrebbe riscattato a prezzo del proprio sangue/quel bene la cui perdita dovrebbe rendere a ogni uomo d'onore la vita amara e la morte gradita? Come il fuoco, partito da una piccola scintilla, s'ingrossa e man mano rinvigorisce, e quanto più legno trova, tanto più ne brucia, e senza che vi si getti acqua per spegnerlo, solo non aggiungendovi più legno, non avendo più nulla da consumare, si consuma da solo, perde vigore e non è più fuoco; allo stesso modo i tiranni, quanto più saccheggiano, tanto più pretendono, quanto più rovinano e distruggono, tanto più ricevono, quanto più li si serve, tanto più si fortificano e diventano sempre più forti e più capaci di annientare e distruggere tutto; ma se non gli si consegna niente, se non gli si obbedisce affatto, senza combattere, senza colpirli, ecco che restano nudi e sconfitti, non sono più nulla, come rinsecca e muore il ramo che non riceve più linfa dalle radici.
Per conquistare il bene che ricercano, i coraggiosi non temono il pericolo, gli uomini accorti non si sottraggono alla fatica, mentre i vili e i fiacchi sono incapaci di sopportare il male e di recuperare il bene, che si limitano a desiderare, e la loro viltà toglie loro la forza di procurarselo. Il desiderio di averlo gli resta per natura: questo desiderio, questa volontà è comune ai saggi e agli sconsiderati, ai coraggiosi e ai codardi, e fa desiderare ogni cosa il cui possesso renda soddisfatti e contenti. D'una sola cosa non so dir come mai la natura non comunichi agli uomini il desiderio, ed è la libertà, ch'è tuttavia bene così grande e piacevole, tanto che quando viene perduta si produce ogni male, e gli stessi beni che dopo la sua scomparsa permangono perdono interamente il loro gusto e sapore, corrotti come sono dalla servitù. Solo la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l'otterrebbero: sembra quasi che rifiutino questo prezioso acquisto solo perché è troppo agevole.
O popoli insensati, poveri e infelici, nazioni tenacemente persistenti nel vostro male e incapaci di vedere il vostro bene! Vi lasciate sottrarre sotto i vostri occhi il meglio del vostro reddito, saccheggiare i vostri campi, devastare le vostre case e privarle degli antichi mobili di famiglia; vivete in modo tale che non potete più vantare alcuna proprietà veramente vostra; e date l'impressione che vi considerereste già molto fortunati se vi si lasciassero solo la metà dei vostri beni, delle vostre famiglie, delle vostre vite. E tutti questi danni, questi guai, questa rovina vi derivano non già dai nemici, bensì certamente proprio dal nemico, da colui che voi stessi rendete così potente, per il quale andate in guerra con tanto coraggio, per la cui grandezza non esitate affatto ad affrontare la morte. Colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di diverso da quanto ha il più piccolo uomo del grande e infinito numero delle vostre città, eccetto il vantaggio che voi gli fornite per distruggervi. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se voi non glieli forniste? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, donde gli verrebbero se non fossero i vostri? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Come oserebbe attaccarvi se voi stessi non foste d'accordo? Che male potrebbe mai farvi, se voi non faceste da palo al ladrone che vi saccheggia, se non foste complici dell'assassino che vi uccide e traditori di voi stessi? Voi seminate i vostri campi affinché egli li devasti; arredate le vostre case per farvele derubare; allevate le vostre figlie per soddisfare la sua lussuria, nutrite i vostri figli perché nella migliore delle ipotesi li mandi a combattere le sue guerre, li spedisca al macello, li faccia strumenti della sua avidità ed esecutori delle sue vendette. Vi ammazzate di fatica perché egli possa trastullarsi e sguazzare nei suoi turpi piaceri. Vi indebolite affinché egli diventi più forte e più duro per stringervi la briglia. E da cose così spregevoli, di cui le stesse bestie non hanno sentore e che non sopporterebbero, potete liberarvi senza neanche provare a farlo, ma solo provando a volerlo. Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi; non voglio che vi scontriate con lui o che lo facciate crollare, limitatevi a non sostenerlo più, e lo vedrete, come un grande colosso cui sia stata sottratta la base, cadere d'un pezzo e rompersi.
Ma certo i medici consigliano di non toccare le piaghe incurabili, e forse io ho torto a voler dare questi consigli al popolo, che da gran tempo sembra non aver più coscienza del male che l'affligge, e in ciò mostra che la sua malattia è mortale. Cerchiamo dunque per congettura, se ci riusciremo, in che modo si sia radicata così profondamente questa testarda volontà di servire, tanto che ora lo stesso amore della libertà sembra non esser poi così naturale.
In primo luogo non v'è dubbio, io credo, che se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dati e i precetti che essa c'insegna, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, soggetti alla ragione, ma non saremmo servi di nessuno. Dell'obbedienza naturale e istintiva di ciascuno verso il padre e la madre, tutti gli uomini sono testimoni ciascuno per sé. Quanto alla ragione, se essa sia o meno innata, questione dibattuta a fondo nelle accademie e affrontata da tutte le scuole filosofiche, per ora credo di non ingannarmi dicendo che c'è nell'anima nostra qualche germe naturale di ragione, che, se educato da buoni consigli e buon esempio, fiorisce producendo virtù, e che invece spesso, non riuscendo a durare contro il sopraggiungere dei vizi, abortisce soffocato. Ma senza dubbio se vi è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, qualcosa che nessuno può dire di non vedere, è il fatto che essa, strumento di Dio e governante degli uomini, ci ha fatti tutti di una medesima forma e, come sembra, col medesimo calco, affinché noi ci si riconosca scambievolmente tutti come compagni o meglio fratelli. E se, nella distribuzione dei suoi doni, ha avvantaggiato nel corpo o nello spirito gli uni piuttosto che gli altri, tuttavia non ha inteso metterci in questo mondo come in un campo di battaglia, e non ha mandato quaggiù i più forti e i più abili come briganti armati in una foresta per prevaricare i più deboli, ma bisogna invece pensare che distribuendo ad alcuni di più ad altri di meno, essa volesse dare spazio all'affetto fraterno e mettere gli uomini in grado di praticarlo, avendo gli uni capacità di offrire aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Inoltre questa buona madre ha dato a tutti noi la terra come dimora, ci ha ospitati tutti nella medesima casa, ci ha tutti impastati con la stessa pasta affinché ciascuno potesse vedersi e quasi riconoscersi nel suo prossimo; se ha fatto a tutti questo gran dono della voce e della parola per conoscerci e meglio fraternizzare, e realizzare attraverso la dichiarazione comune e scambievole dei nostri pensieri la comunione delle nostre volontà; e se essa ha cercato, con tutti i mezzi, di formare e stringere forte il legame della nostra alleanza e società; se ha mostrato in ogni cosa che non voleva tanto farci tutti uniti ma tutti uno: di conseguenza non è da mettere in dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, poiché siamo tutti uguali; e a nessuno può saltare in mente che la natura, che ci ha fatti tutti uguali, abbia reso qualcuno servo.
Ma a dire il vero non vale la pena discutere se la libertà sia naturale o meno, dal momento che nessuno può esser tenuto in servitù senza subire un grave torto, e che non v'è cosa al mondo che sia più dell'ingiustizia contraria alla natura, la quale è tutta ragionevole. Di conseguenza, la libertà è naturale, e a mio parere bisogna aggiun¬gere che siamo nati non solo in possesso della nostra libertà; ma anche con la volontà di difen¬derla. Ora, se per caso abbiamo ancora qualche dubbio in proposito, e siamo tanto corrotti da non poter riconoscere i nostri beni né similmen¬te le nostre inclinazioni innate, bisognerà ch'io vi faccia l'onore che meritate, e ch'io metta per così dire in cattedra le bestie selvagge, per inse¬gnarvi la vostra natura e condizione. Le bestie, Dio venga in mio aiuto, se gli uomini vogliono intenderle, gridano loro «viva la libertà». Ve ne sono molte che muoiono non appena vengono messe in cattività; come il pesce abbandona la vita non appena abbandona l'acqua, così vi sono animali che si lasciano morire e non vogliono sopravvivere alla loro libertà naturale. Se tra gli animali esistessero delle gerarchie, la libertà sareb¬be per essi l'equivalente della nobiltà. Vi sono altri animali, dai più grandi fino ai più piccoli, i quali, quando vengono catturati, oppongo¬no una tale resistenza con le unghie, le corna, il becco e i piedi, che ben manifesta quanto sia loro cara la libertà che perdono. E poi, una volta catturati, ci trasmettono segnali evidentissimi della consapevolezza che essi hanno della loro infelicità, sicché è facile dedurne che per essi la vita in cattività è piuttosto un languire che un vivere, e che continuano a vivere nel rimpian¬to della libertà perduta, piuttosto che compiacersi della servitù. Che cos'altro significa l'atteggiamento dell'elefante, il quale, dopo essersi difeso fino allo stremo delle forze, non vedendo più scampo, sul punto d'esser catturato, sbatte la mascella contro gli alberi e vi si spacca le zanne, se non che il gran desiderio di restar libero gli fornisce l'idea di patteggiare con i cacciatorii il baratto delle zanne in cambio della libertà, riscattando quest'ultima al prezzo della cessione del proprio avorio? Noi educhiamo il cavai- Io da quando nasce per abituarlo a servire, e tuttavia non riusciamo a blandirlo tanto da evitare che, quando vogliamo domarlo, morda il freno e scalci contro lo sperone, e sembra quasi voler mostrare alla natura, e così almeno testimonia¬re, che se serve non lo fa spontaneamente ma perché costretto. Che dire, dunque?
Anche i buoi gemono sotto il peso del giogo, E gli uccelli in gabbia si lamentano, come ho detto una volta passando il tempo a scriver versi in francese; e mentre scrivo a te, o Longa, non ho dubbi, citando i miei versi, che talvolta ti leggo sol perché tu mostri di apprezzarli, che tu mi ritenga vanitoso. Così dunque, poiché tutti gli esseri che hanno coscienza, dal momento che l'hanno, avvertono il male della soggezione e ricercano la libertà; poiché anche le bestie, che pur furono create a servizio dell'uomo, non possono abituarsi a servire senza manifestare un desiderio opposto: che disgrazia è mai stata quella che ha potuto tanto snaturare l'uomo, in verità l'unico nato per vivere libero, e fargli perdere la memoria del suo stato primigenio e il desiderio di riconquistarlo?
Vi sono tre tipi di tiranni, gli uni ottengono il regno per investitura popolare, gli altri in virtù della forza delle armi, gli ultimi per diritto di successione. Quelli che l'hanno acquisito per diritto di guerra, si comportano in modo da rendere evidente (come si dice) che si trovano in terra di conquista. Quelli che nascono re non sono in genere migliori; infatti, essendo nati e cresciuti all'interno della tirannia, assorbono col latte materno la natura del tiranno e trattano i popoli che gli sono soggetti come loro servi ereditati; secondo la loro inclinazione naturale, avari o prodighi che siano, si comportano col regno come farebbero con la propria eredità. Colui che ha ottenuto il potere dal popolo mi sembra dover esser più tollerabile, e lo sarebbe pure, come credo, se, da quando si vede innalzato al di sopra degli altri, lusingato da quel che si chiama la grandezza, non si risolvesse a rimanervi ben attaccato: generalmente costui si propone di trasmettere ai suoi figli la potenza che il popolo gli ha conferito. E dal momento in cui si sono formati questa opinione, è mostruoso vedere di quanto superino in ogni tipo di vizi, e anche in crudeltà, gli altri tiranni, poiché non scorgono altro mezzo per garantire la nuova tirannide che accrescere la servitù e allontanare i loro sudditi dalla libertà, tanto da fargliela completamente dimenticare, benché il suo ricordo sia fresco. E così, a dire il vero, vedo come vi sia tra loro qualche differenza, ma non tale da rendere preferibile l'uno o l'altro: poiché essi arrivano al trono per vie diverse, ma il loro modo di regnare è pressoché identico. Quelli eletti dal popolo lo trattano come un toro da domare, i conquistatori come una preda, i successori pensano di farne i propri schiavi naturali. Ma se per caso nascessero oggi uomini com¬pletamente nuovi, né abituati alla soggezione né affascinati dalla libertà, uomini che igno¬rassero perfino il nome dell'una e dell'altra, che cosa sceglierebbero, esser sudditi o vivere liberi? Naturalmente preferirebbero di gran lunga obbedire alla sola ragione, piuttosto che servi¬re un uomo, a meno che non siano come quei figli d'Israele che, senza costrizione né bisogno alcuno, si diedero un tiranno. Di questo popolo non leggo mai la storia senza provare un estremo disappunto, fin quasi a diventare disuma¬no nei suoi confronti, e a rallegrarmi di tutte le disgrazie che l'hanno colpito. Certo però tutti gli uomini, finché in essi v'è qualcosa d'umano, si lasciano asservire o perché costretti o perché ingannati: costretti dalle armi straniere, come Sparta o Atene dalle schiere di Alessandro, o dalle fazioni, come il governo di Atene prima caduto nelle mani di Pisistrato. Spesso gli uomini perdono la libertà perché ingannati, e in questo non sono mai così spesso sedotti da altri di quanto non siano ingannati da se stessi. Così, il popolo di Siracusa, metropoli della Sicilia (chiamata oggi Saragozza), messo alle strette dalle guerre, ponendo sconsideratamente riparo solo al pericolo del momento, chiamò Dionigi I, e gli diede il comando generale dell'esercito, e non si preoccupò d'averlo reso tanto grande che quel mascalzone, ritornando vincitore, come se avesse sconfitto non i suoi nemici ma i suoi concittadini, da comandante si fece re, e da re tiranno. È difficile immaginare come il popolo, da quando è asservito, cade improvvisamente in uno stato di tale profonda dimenticanza della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riprendersela, e serve tanto spontaneamente e tanto volentieri, che a vederlo non si direbbe che ha perso la libertà, ma che ha guadagnato la servitù. E ben vero che all'inizio si diventa servi perché costretti o sconfitti dalla forza: ma quelli che vengono dopo servono senza rimpian¬to, e fanno volentieri ciò che i loro predecesso¬ri avevano fatto per costrizione. In tal modo gli uomini nati sotto il giogo, cresciuti e allevati come servi, non pensano più al passato, ma si accontentano di vivere nella medesima condi¬zione in cui sono nati; non credendo di avere beni e diritti diversi da quelli che posseggono, ritengono naturale la condizione servile in cui sono nati. E tuttavia, non v'è erede, per quan¬to prodigo e disattento, che almeno una vol¬ta non dia un'occhiata alle carte del padre per verificare i suoi diritti di successione, semmai siano stati lesi i suoi o quelli del suo predeces¬sore. Ma senza dubbio l'abitudine, che in ogni campo esercita un enorme potere su di noi, non ha in nessun altro campo una forza così gran¬de come nell'insegnarci la servitù. È proprio l'abitudine, come si dice di Mitridate il qua¬le finì con l'abituarsi al veleno, che c'insegna a ingurgitare, senza trovarlo amaro, il veleno del¬la servitù. Non c'è dubbio che la natura abbia un gran peso nell'orientarci dove essa vuole, e nel darci una buona o cattiva reputazione; ma bisogna altresì ammettere che la natura ha su di noi minor potere dell'abitudine, dato che qualunque inclinazione naturale, per quanto favorevole, si perde se non è coltivata, e l'abitudine ci plasma sempre a suo modo, malgrado l'inclinazione naturale. I germi del bene che la natura deposita in noi sono così fragili e minuti da non poter resistere al minimo impedimento proveniente da un'educazione a essi contraria. Coltivarli è cosa assai più difficile che snaturarli, corromperli e addirittura farli degenerare, come accade in natura con gli alberi da frutta che conservano la loro natura selvatica se li si lascia crescere spontaneamente, ma la perdono, per produrre frutti affatto diversi, non appena li si innesti. Anche le erbe hanno tutte la loro proprietà, la loro natura, la loro particolarità, e tuttavia una gelata, il tempo, il terreno o la mano del giardiniere possono fare molto per migliorare o deteriorare la loro qualità, tanto che una pianta vista in un luogo diventa altrove irriconoscibile.