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‘Ala al-ASwani La rivoluzione egiziana e da vari autori de i Diari della Rivoluzione


Lunedì 14 maggio 2012 leggono Azzurra Meringolo e Giulia Piccinini
Fino al 25 gennaio 2011, l’Egitto veniva considerato in Occidente una colonna portante e stabile dello scacchiere geopolitico mediorientale, ma non tutti la pensavano così. Tra i più accorti che sapevano che il regime non era che un gigante dai piedi di argilla c’era il giornalista e scrittore ‘Ala al-Aswani, che dalle pagine dei pochi giornali d’opposizione non ha mai cessato di raccontare nei suoi articoli un Egitto fatto di un popolo stanco e insofferente, ma pronto a cogliere l’occasione per far sentire la sua voce chiedendo libertà e dignità. Una raccolta di questi articoli è contenuta in La rivoluzione egiziana, un vademecum per orientarsi nella complessa fase di transizione che sta vivendo l’Egitto nell’era post Mubarak. A raccontare in presa diretta i diciotto giorni di quella lotta che, supportata e diffusa dalla rete, si è combattuta in strada, sono invece sette attivisti e blogger che raccolgono le loro testimonianze nei Diari della Rivoluzione.


Ala al-Aswani, La rivoluzione egiziana, Milano, Feltrinelli, 2011
L’Egitto siede in panchinaNegli anni ottanta ho ottenuto il mio master in odontoiatria dall’Università dell’Illinois, negli Stati Uniti. L’università richiedeva che gli iscritti studiassero un certo numero di materie e poi
preparassero la tesi per ottenere il loro titolo. In casi eccezionali, l’università poteva concedere agli studenti molto bravi l’opportunità di preparare la tesi e i programmi degli esami contemporaneamente. Nella storia del dipartimento di istologia che stavo frequentando, solo due studenti in due periodi differenti erano stati capaci di finire il master in un anno, e questo risultato aveva destato molta ammirazione negli americani. Questi due studenti erano entrambi egiziani, così come il loro supervisore, il dottor Abdel Moneim Zaki.
Dopo il master sono tornato in Egitto e ho lavorato come dentista in posti diversi, compresa la società Toilah Cement, dove ho scoperto per puro caso che i suoi laboratori sul cemento hanno rivestito un ruolo importante nella storia del paese. Durante la preparazione della guerra del 1973, i chimici della società – Fakhri al-Dali, Nabil Gabriel, e altri ancora – hanno lavorato per sviluppare un tipo speciale di cemento in cooperazione con il genio militare delle forze armate. Dopo ricerche difficili, sono riusciti a produrre un nuovo tipo di cemento incredibilmente forte, con una
resistenza eccezionale alle alte temperature. Gli uomini-rana egiziani hanno usato questo cemento durante l’attraversamento del Canale di Suez per bloccare i tubi di lancio del napalm sulla linea Bar Lev, la linea di difesa israeliana costruita sulla sponda est del canale. Quando gli israeliani hanno aperto i tubi per sparare il napalm, che aveva trasformato le acque del canale in un inferno, sono rimasti sorpresi dalla qualità del cemento, migliorato a tal punto da bloccare il napalm rovente, anche sotto pressione elevata. E non è stata questa l’unica storia che sono venuto a sapere riguardo a quel periodo. La linea Bar Lev è stata una delle più formidabili strutture di difesa militare della storia, e si riteneva che solo una bomba nucleare l’avrebbe potuta demolire, ma un originale ingegnere egiziano, un generale di divisione di nome Baqi Zaki, del genio militare, fece uno studio attento della composizione della linea, concludendo che era stata messa in piedi con la terra, e se ne uscì con un’idea eccellente
quanto semplice. Inventò un cannone ad acqua che potesse aumentare a tal punto la pressione fino a fargli avere una straordinaria capacità di penetrazione. Durante l’attraversamento del canale, i soldati egiziani usarono il cannone ad acqua inventato da Baqi Zaki sulla linea Bar Lev, che si sgretolò come un pezzo di formaggio.
C’è molto da dire sull’ingegnosità degli egiziani. Conoscete la reale dimensione della fuga di cervelli egiziani verso l’Europa, l’America e l’Australia? Circa 824.000 egiziani con titoli di studio
superiori sono andati all’estero, un numero praticamente uguale a quello della popolazione di alcuni paesi arabi, compresi tremila scienziati che si occupano di settori importanti come l’ingegneria nucleare, la genetica e l’intelligenza artificia1e. Tutti loro avrebbero accolto con favore l’opportunità di servire il proprio paese. Negli stati del Golfo l’ingegnosità degli egiziani è più evidente che in altri posti. Questi stati, che guadagnano milioni di dollari al giorno con il petrolio, hanno costruito opulente città ex novo e costituito aziende gigantesche. L’Egitto, invece, ha avuto successo perché ha dato i natali ad Ahmed Zewail, Magdi Yacoub, Naguib Mahfuz, Abdel Wahab, Umm Kulthum, così come a migliaia di egiziani creativi, perché la creatività di un popolo non ha nulla a che vedere con il benessere, quanto piuttosto con l’esperienza culturale accumulata attraverso tante generazioni. Questo patrimonio culturale esiste in Egitto più di quanto esista in altri paesi arabi, ed è per questo che i paesi arabi produttori di petrolio hanno accumulato un debito nei confronti degli egiziani per tutti i successi che hanno ottenuto. Sono stati gli egiziani a essere i loro insegnanti, a scuola e all’università, gli egiziani a progettare e a dirigere la costruzione delle loro città, a mettere in piedi le loro stazioni radio e televisive, e a redigere le loro costituzioni e le loro leggi. Scoprirete che persino gli inni nazionali di questi paesi sono stati composti e musicati da egiziani.
La creatività egiziana è una realtà che non può essere negata, ed è per questo che sorge spontanea una domanda: se l’Egitto è la culla di questa creatività, perché il paese è precipitato in fondo alla classifica mondiale, e perché mai la maggior parte degli egiziani vive in povertà? La ragione può essere sintetizzata in una sola parola: dispotismo. I talenti dell’Egitto continueranno a essere sprecati e il loro potenziale verrà disperso sino a quando il sistema politico sarà tirannico e oppressivo. Gli incarichi pubblici, in Egitto, vanno sempre ai seguaci del regime, senza riguardo per la loro competenza o il loro grado d’istruzione. E chi ricopre questi incarichi non è interessato ai risultati, tanto quanto alla propria immagine agli occhi di chi lo governa, perché è lui, chi lo governa, l’unica persona in grado di destituirlo. Siccome, poi, la gran parte di loro non ha alcun talento, covano sempre avversione nei confronti di chi, invece, è competente, perché lo vedono come una minaccia. La macchina del regime egiziano esclude automaticamente le persone competenti e piene di talento, e apre le porte ai sicofanti e agli incensatori. Siamo forse l’unico paese al mondo in cui un ministro che ha fallito nel settore dell’edilizia assume l’incarico per il settore petrolifero, di cui non sa nulla, semplicemente perché piace al presidente Mubarak, e siamo anche l’unico paese in cui una persona viene designata primo ministro quando non ha mai partecipato a un incontro politico in tutta la sua vita.
Il popolo egiziano non è mai stato testato, o solo in pochissime occasioni, come la guerra di logoramento contro Israele tra il 1967 e il 1970, la Guerra dell’ottobre 1973, oppure la costruzione della Grande diga di Assuan. Ogni volta che hanno affrontato gli esami, gli egiziani li hanno superati con onore, ma subito dopo sono ritornati in panchina. Noi egiziani siamo come una squadra di calciatori di talento, ma il nostro allenatore non ci rispetta, non gli piace come giochiamo e non ci vuole dare nessuna chance. Al nostro posto usa perdenti e corrotti che conducono irrimediabilmente la squadra alla sconfitta. Secondo le regole del calcio, un giocatore che passa l’intera stagione in panchina ha diritto a rescindere il suo contratto. Tutto l’Egitto ha continuato a rimanere seduto in panchina negli scorsi trent’anni, assistendo alle sconfitte e ai disastri senza essere capace di intervenire. L’Egitto non ha, dunque, il diritto, anzi il dovere, di rescindere il suo contratto?
Durante la mia ultima visita a New York ho visto, come al solito, egiziani con tanto di laurea lavorare come camerieri nei ristoranti o come benzinai. Una notte stavo passeggiando sulla Quarantaduesima Strada, quando sono passato davanti a una persona in piedi accanto a un carretto che vendeva hot dog. Sembrava egiziano, mi sono avvicinato e ho cominciato a parlare con lui. Sono rimasto di sasso quando ho scoperto che era un laureato della facoltà di medicina, all’università cairota di Ain Shams. Mi ha offerto un tè alla menta e io mi sono seduto per strada accanto a lui. È arrivato un cliente, lui è scattato in piedi per preparargli gli hot dog, e ho pensato che quello fosse un esempio vivente di ciò che il regime ha fatto agli egiziani. Questo ragazzo aveva lavorato sodo e con dignità per arrivare all’università, guadagnarsi la laurea in medicina, e ora era lì a preparare hot dog per i passanti. Come se mi avesse letto nel pensiero, il giovane si è seduto accanto a me, si è acceso una sigaretta, e mi ha detto: “Lo sa, certe volte mi sento come se stessi sprecando la mia vita. Ho paura di passare tutti i miei giorni per strada a preparare hot dog. Subito dopo, però, mi dico che qui io sono un venditore di hot dog e un cittadino rispettato, mentre in Egitto potrei essere un medico, ma non avrei nessun diritto né il rispetto che mi è dovuto”. Mi ha raccontato di come suo padre, un impiegato al ministero per gli Affari religiosi, avesse faticato per educare lui e sua sorella, e di come – dopo la sua laurea – lui avesse amaramente scoperto quella che definiva la teoria dei “tre no”. No al lavoro, no al matrimonio, no al futuro. E di come avesse scoperto che lavorare nel Golfo era umiliante quanto insicuro, e che affrontare una specializzazione era fuori dalle sue possibilità. Mi ha anche raccontato di come avesse chiesto all’unica ragazza che avesse mai amato di dimenticarlo perché non poteva sposarla o chiederle di aspettarlo.
È rimasto in silenzio per un po’, e poi, cercando di tirarsi su di morale, ha detto: “Le farebbe piacere ascoltare Mohammed Munir? Ho tutte le sue cassette”. Ha preso un registratore dal suo carretto, e ha aggiunto la voce di Munir come sottofondo a una scena già triste. C’era un freddo pungente e la stufetta vicino al carretto non era sufficiente a riscaldarci. Ci siamo chiusi i cappotti per bene, stretti attorno al corpo, soffiando sulle nostre mani per avere un piccolo ristoro. I clienti se ne erano andati, e la strada era quasi deserta, ma lui sarebbe dovuto rimanere lì sino al mattino dopo, così come pretendeva il proprietario del carretto. Sono rimasto a lungo assieme a lui, a parlare e a scherzare. Alla ?ne mi sono congedato abbracciandolo stretto stretto. Non ha detto una parola. Ho provato una pena profonda per quel ragazzo, mentre mi allontanavo di qualche passo, verso la piazza, senza voltarmi. È stato lui, invece, a chiamarmi ad alta voce. “Senta,” mi ha detto. Mi sono voltato, e l’ho visto sorridere mentre mi diceva: “Mi ricordi al mio Egitto. Mi manca molto”.
L’unica soluzione è la democrazia.

Ma gli egiziani sono veramente religiosi?
Per anni ho lavorato come dentista in una grande azienda statale con migliaia di lavoratori. Durante il mio primo giorno di lavoro, mentre stavo curando un paziente, la porta si aprì e comparve un uomo che si presentò come il dottor Mahmoud, il farmacista. Mi invitò a seguirlo per partecipare alla preghiera di metà giornata assieme a un gruppo di altre persone. Declinai l’invito, dicendo che dovevo prima finire il mio lavoro, e poi avrei pregato. Cominciammo una discussione che per poco non si trasformò in una lite, perché lui insisteva che io abbandonassi il mio paziente per unirmi agli altri per pregare, e io insistevo che volevo continuare a lavorare. Ho poi scoperto che le idee del dottor Mahmoud erano molto diffuse tra il personale dell’azienda. La devozione era a livelli altissimi. Tutte le donne avevano il capo coperto dal velo, e almeno mezz’ora prima della preghiera ognuno smetteva completamente di lavorare per disporsi alle abluzioni di rito, mentre i tappeti venivano srotolati nei corridoi
in preparazione della preghiera comune. Ovviamente prendevano parte ai pellegrinaggi dello hajj e della umra che l’azienda organizzava ogni anno in Arabia Saudita. Io non avevo alcuna obiezione di principio, perché penso che essere devoti sia una cosa meravigliosa, ma scoprii presto che molte delle persone che lavoravano lì, nonostante fossero rigorose nel seguire gli obblighi rituali, avevano nel contempo commesso reati seri, che andavano dai maltrattamenti personali alle menzogne, dall’ipocrisia agli abusi verso i sottoposti. Sino ad arrivare addirittura alle tangenti e all’appropriazione indebita di fondi pubblici. Quello stesso dottor Mahmoud che insisteva a invitarmi alla preghiera, peraltro, era lo stesso che risultò – qualche tempo dopo – falsificare i conti e vendere di straforo le medicine.
Quello che succedeva nella grande azienda statale succede dappertutto in Egitto: le manifestazioni di devozione sono così diffuse che un recente rapporto Gallup ha scoperto che gli egiziani sono il popolo più fervente sulla faccia della Terra. Eppure, al contempo, l’Egitto dà lezioni al mondo su comportamenti come corruzione, abuso d’ufficio, abusi sessuali, frode e truffa. Dovremmo chiederci, con stupore, come facciamo a essere allo stesso tempo i più devoti e i più delinquenti. Nel 1664 il grande drammaturgo francese Molière scrisse il Tartufo, una commedia che parlava di un corrotto di nome Tartufo che cercava di soddisfare i suoi istinti più bassi mentre faceva sfoggio della sua devozione. A quel tempo, la chiesa cattolica scatenò un putiferio contro Molière e fece in modo che la commedia non potesse essere messa in scena per cinque lunghi anni. Nonostante il divieto, però, il Tartufo divenne un classico del teatro modemo, tanto che la stessa parola – Tartufo – viene ancora oggi utilizzata sia in francese sia in inglese per riferirsi a un ipocrita che si nasconde dietro la devozione.
La domanda è, dunque, se milioni di egiziani siano diventati copie di Tartufo. Penso, però, che il problema in Egitto sia molto più profondo. Gli egiziani sono profondamente devoti, hanno una fede sincera. Una buona parte di loro, però, si comporta in maniera immorale senza che questo urti minimamente la propria, individuale coscienza religiosa. Non bisogna generalizzare, certo, perché ci sono molte persone in Egitto che sono guidate dalla loro coscienza in tutto ciò che compiono. I grandi giudici che hanno combattuto per l’indipendenza della magistratura, in modo da difendere la dignità e la libertà degli egiziani, la giurista Noha al-Zeini che ha denunciato i brogli elettorali del governo, Yahya Hussein che ha combattuto una strenua battaglia per proteggere il denaro pubblico nell’accordo sulla catena di grandi magazzini Omar Effendi, e assieme a loro molti altri: tutte queste persone sono devote nel vero e pieno senso della parola. Dall’altra parte, però, ci sono i ragazzi che molestano le donne per strada nella mattina della festa dell’Eid al-Fitr; la festa che conclude il Ramadan, dopo aver digiunato e pregato per un mese. I poliziotti che torturano persone innocenti, i medicie gli infermieri che maltrattano i pazienti poveri negli ospedali-pubblici, i funzionari statali che manipolano i risultati elettorali a favore del governo, e gli studenti che copiano in massa, gli stessi che, in gran parte, sono devoti e rigorosi quando si tratta di rispettare i riti. Le società si ammalano né più né meno come si ammalano gli uomini, e la nostra società ora sta soffrendo della frattura tra il credo e la condotta, tra la devozione e la morale.
Questo tipo di malattia ha diverse cause. La prima è insita nel fatto che un regime dispotico ha come sua conseguenza ineludibile la diffusione della truffa, della menzogna e dell’ipocrisia. La seconda causa della malattia è nell’interpretazione della religione che va per la maggiore ora in Egitto: un’interpretazione più legata ai riti che ai comportamenti, nel senso che non si presenta la fede come sinonimo di moralità, ma la si vede come confinata alla rappresentazione di una serie di procedure, il cui compimento è l’unica cosa che quali?chi la persona come devota. A1cuni risponderanno asserendo che le formalità del culto sono aspetti della religione importanti tanto quanto la moralità. La questione è, invece, che tutte le religioni difendono i valori dell’umanità – verità, giustizia e libertà –, e tutto il resto viene in secondo piano. La cosa triste è che la tradizione islamica è piena di prove che mostrano quanto l’etica sia l’elemento più importante della religione, ma noi non lo comprendiamo né vogliamo comprenderlo. C’è una storia famosa sul tempo in cui il Profeta incontrò un asceta che aveva consacrato se stesso al culto, notte e giorno. Il Profeta gli chiese: “Chi provvede a te?”. E 1’uomo rispose: “Mio fratello lavora e provvede alle mie necessità”. Allora il Profeta disse: “Tuo fratello rende lode a Dio più di quanto tu faccia”. Il significato, qui, è determinante e importante allo stesso tempo: se qualcuno lavora e provvede alla sua famiglia è più virtuoso agli occhi di Dio di quanto lo sia un asceta che passa tutto il suo tempo nella venerazione, ma non lavora.
Un’interpretazione ristretta della religione è una delle ragioni principali per il declino delle condizioni in cui versa l’Egitto. Per vent’anni le strade e le moschee del paese sono state ricoperte da milioni di poster che spingevano le donne musulmane a indossare lo hijab. Provate a immaginare se questi poster avessero esortato la gente, più che a portare lo hijab, a respingere le ingiustizie imposte agli egiziani dal dittatore, a difendere i diritti dei detenuti, oppure a impedire i brogli elettorali. Se questo fosse accaduto, avremmo avuto la democrazia nel nostro paese, e il popolo non sarebbe stato privato dei propri diritti da un sistema dispotico.
La virtù si raggiunge solo in due modi: attraverso la vera religiosità, che è del tutto identica alla moralità, o attraverso la sola moralità, anche se non è fondata sulla religione. Alcuni anni fa mia madre, ora defunta, si ammalò di cancro, e noi chiamammo uno dei migliori oncologi a livello internazionale per curarla, il dottor Garcia-Giralt dell’Istituto Curie di Parigi. Questo grande scienziato venne molte volte in Egitto per curare mia madre, e alla fine rifiutò con fermezza qualsiasi compenso. Quando lei insistette, lui disse: “La mia coscienza professionale non mi permette di accettare un compenso per curare la madre di un mio collega”. Quest’uomo non è molto religioso, tutt’altro, ma il suo comportamento gentile e generoso lo mette sul piedistallo più alto della vera devozione. Mi chiedo quanti dei medici famosi e pii, oggi, avrebbero pensato di rifiutare il compenso da un collega.
Un altro esempio è un episodio accaduto nel 2007. Per migliorare l’immagine del regime libico nel mondo, è stato organizzato un premio letterario internazionale del valore di centocinquantamila euro, intitolato Premio intemazionale Gheddafi per la letteratura. Una giuria di intellettuali arabi di fama ha deciso di premiare il grande scrittore spagnolo Juan Goytisolo, che aveva allora settantotto anni. A sorpresa, però, Goytisolo ha scritto una lettera ai membri della giuria, ringraziandoli per averlo
scelto, ma anche dicendo che non poteva accettare un premio dal regime di Gheddafi, che aveva preso il potere con un colpo di stato militare e che aveva abusato, attraverso detenzione e tortura, di migliaia di suoi oppositori. Goytisolo ha rifiutato un premio da centocinquantamila euro perché era incompatibile con la sua coscienza morale.
Quanti intellettuali o quanti uomini di religione, in Egitto, avrebbero rifiutato quel premio? E chi è più vicino a Dio onnipotente: questo scrittore spagnolo d’animo nobile, che sono certo non abbia pensato per nulla alla religione quando ha preso una decisione così coraggiosa e nobile, oppure le decine di egiziani devoti, musulmani e cristiani, che hanno collaborato con regimi dispotici e hanno messo se stessi al loro servizio, ignorando nella maniera più completa i crimini che questi regimi hanno perpetrato contro i loro stessi popoli? La religiosità reale va di pari passo con l’etica, perché la moralità senza devozione è molto meglio della religiosità senza moralità, e l’unica soluzione è la democrazia.

Nadia El-Awady, Hossam El-Hamalawy , Mohamed El-Dahshan, Sarah el-Sirgany, Amira Salah-Ahmed, Mohamoud Salem, Tarek Shalaby, I diari della rivoluzione, Roma, Fandango, 2011
25 gennaio 2011. Mohamed El Dahshan
Non ho mai visto una manifestazione così grande al Cairo! Fermo all’incrocio tra via El-Batal e via Ahmed El-Gameat Dowal riesco a vedere la folla incurvarsi ma non ne vedo la fine. Resto sul marciapiede al centro della strada continuando a fissare il flusso di persone che mi scorre accanto, fino alla fine di quella massa umana apparentemente interminabile.
Poi, quando il flusso è diventato un rivolo, mi sono voltato e diretto verso il centro della manifestazione.
“Yasqot yaskot Hosni Mubarak!” (Abbasso! Abbasso! Hosni Mubarak!). È difficile immaginare un canto arrabbiato intonato con gioia, ma così è stato. Liberatorio. I canti per la caduta di Mubarak di solito erano una sorta di corollario delle proteste contro le violenze in Irak, o in Palestina – ma stavolta era diverso.
È stato greve, è stato urlato, è stato cantato. Lo si leggeva nei volti delle persone: in primo luogo l’esitazione – quale atto di coraggio mettersi non solo a viaggiare, ma a cantare contro il Faraone! – , poi, non appena traevano fiducia dalle persone intorno a loro, le voci si alzavano, le braccia tremanti iniziavano a sollevarsi, prima timidamente, poi sempre con maggiore sicurezza. Chiamatelo “micro-empowerment”. Chiamatela vena rivoluzionaria. Io lo chiamo soffio di libertà.
(…)
Mentre si avvicina il ponte Sei Ottobre, vedo i soldati che si sono schierati alle due imboccature. Quei soldati del cazzo, con le loro divise invernali nere e i manganelli più solidi delle loro spine dorsali, ingranaggi insensati della macchina statale.
Qualcuno dalla folla grida: “Non prendiamo il ponte! È una trappola!”. Buona idea, penso, come il resto della folla.
Così abbiamo camminato verso destra, sotto quel ponte maledetto. I soldati continuavano a guardarci dall’alto. Hai mai visto 5.000 persone agire di soppiatto?
Sembrava proprio così, cazzo!
Abbiamo continuato a camminare verso il Nilo, cantando e sventolando bandiere. Le persone si prendevano per le spalle le une con le altre, come per congratularsi reciprocamente per essere lì – un autentico tratto di coraggio in un paese dove le manifestazioni sono una stranezza, un impegno pericoloso.
Tutti erano sui balconi, scattavano foto coi cellulari. Abbiamo cominciato a invitarli a scendere per unirsi a noi.
(…)
Solo lì quei bastardi anemici potevano – e volevano – bloccarci. Le prime file di manifestanti forse potevano immaginare di fermarsi ma il flusso spingeva imperioso. Lo sbarramento si ruppe, non senza violenza da parte della polizia. Ci hanno colpito con i manganelli, con gli scudi, ci hanno preso a calci. In modo insensato. Si vince e si perde. Attraversiamo. Devo chinarmi di colpo per schivare una bastonata in testa. Ci riesco a stento. I soldati cercano di chiudere il varco con il loro sbarramento. Non mi fermo lì, però, mi metto a correre insieme agli altri verso il ponte successivo, il Qasr El-Nil, con i suoi famosi leoni – lo sbarramento dei soldati si apre spontaneamente.
Applaudiamo. Acclamiamo i soldati e li invitiamo a unirsi a noi.
Attraversiamo il ponte verso piazza Tahrir.
È la nostra piccola vittoria. In realtà solo una piccola tregua.
Ecco che arrivano i cannoni ad acqua, quindi i gas lacrimogeni che inizialmente vengono sparati dall’alto, poi in orizzontale, in stile israeliano, direttamente sui manifestanti. La polizia ha infiltrato diverse centinaia di teppisti in borghese tra i manifestanti, nell’intento di inasprire gli animi in una situazione già di per sé tesa, trovando così il pretesto per intervenire con la violenza.
Li vediamo arrivare e poi passare dall’altro lato della barricata, quello della polizia, per riposarsi e rifocillarsi.
Non c’erano permessi, infatti, né riposo né cibo. La polizia aveva sbarrato le entrate dei fast-food intorno a piazza Tahrir, dove era raccolta la maggior parte dei giovani – mi è stato confermato da uno dei camerieri di un ristorante –, mentre hanno tenuto aperto il MacDonald’s di fronte all’università americana per garantirsi il pranzo. Ho visto con i miei occhi come la polizia ha inseguito, bloccato e arrestato un uomo con diverse scatole di dolci e biscotti per i manifestanti.

2 febbraio 2011. Sarah El Sirgany(…)
Più tardi ho visto un camion carico di sostenitori di Mubarak che si dirigeva verso il centro. La scena ricorda le elezioni, quando gli uomini di affari che lavorano per lo stato mandano i loro dipendenti a votare per i candidati del partito principale.
Ma quello che pensavo sarebbero state solo manifestazioni provocatorie si è trasformato in un attacco organizzato di poliziotti in borghese e criminali contro quelli che erano accampati a Tahrir dopo otto giorni.
È stato brutale, più di sabato e domenica. A Tahrir non era stata ammessa alcuna arma; i manifestanti volevano mantenere la protesta pacifica. Disarmati com’erano, sono stati colpiti con delle pietre ma alla fine hanno risposto per difendersi. La faccenda si è fatta seria quando i sostenitori di Mubarak, a un certo punto in groppa a cavalli e cammelli, hanno iniziato a usare bottiglie molotov.
Centinaia di persone sono state ferite e molta gente è morta. Il nostro reporter Mohammed Effat, che mi stava comunicando le notizie telefonicamente mentre io aggiornavo la situazione sul nostro sito e su Twitter (per ironia della sorte il collegamento internet è stato ripristinato prima oggi), è stato colpito da varie pietre. Si è riposato un po’ ma poi è tornato di nuovo in prima fila.
Spero che la carneficina di mercoledì sia stata il colpo di coda del dittatore prima della fuga – o almeno ho pregato che fosse così mentre la vedevo in diretta in televisione.
11 febbraio 2011. Mahmoud Salem/Sandmonkey
Oggi la gente è più risoluta che mai a sbarazzarsi di Hosni Mubarak, specialmente dopo il discorso provocatorio della sera scorsa. Insieme a migliaia di altri egiziani, mi reco al palazzo presidenziale e lo circondiamo completamente. Nel giro di un paio d’ore riceviamo la notizia: MUBARAK HA ABDICATO!
Ora, intendiamoci, non ha proprio abdicato… l’esercito lo ha spodestato. È per questo che è solo Omar Suleiman a mettercene al corrente. Ma non importa. Ci riprenderemo tutto il denaro che ci hanno rubato e lo useremo per ricostruire il paese.
Questa sarà la prima notte in cui andrò a dormire senza preoccuparmi che la Sicurezza di Stato mi dia la caccia, o che gli scagnozzi del governo mi rapiscano; o che gli hacker finanziati dal governo attacchino il mio sito web. Stanotte, per la prima volta in vita mia, mi sento libero… ed è una sensazione che mi sgomenta! Ben vengano tutti i disaccordi con ognuno dei gruppi che li provocherà. Saremo in disaccordo tra di noi, e sarà bello perché non sarà più una dittatura. Litigheremo domani, e… stanotte!
STANOTTE SI FESTEGGIA!
VAFFANCULO MUBARAK…
SPERO CHE BRUCI ALL’INFERNO.

Hossam El-Hamalawy, Introduzione a I diari della rivoluzione, Roma, Fandango, 2011(…)
La nostra rivoluzione voleva prendere di mira il regime di Mubarak, ma l’unica cosa che siamo riusciti a fare finora è stato liquidare il presidente. Attualmente il paese è in mano ai generali dell’esercito che fin dall’inizio sono stati uno dei pilastri della dittatura. In tanti sono rimasti delusi da come sono andate le cose dopo la caduta di Mubarak; io personalmente lo sono meno di altri, perché ero scettico in partenza rispetto all’ipotesi di un governo di transizione guidato dai militari.
Nonostante tutto ci sono due processi che hanno preso forma in Egitto negli ultimi sei mesi e che mi fanno ben sperare. Entrambi credo che siano un indizio del fatto che la rivoluzione non è ancora finita. La prima buona notizia è che sono continuati gli scioperi, la seconda è che i lavoratori hanno preso l’iniziativa di creare dei sindacati indipendenti, che penso siano l’unico rimedio possibile contro ogni dittatura.
Molti attivisti moderati si sono impegnati per cercare di contenere gli sviluppi della rivoluzione e assicurarsi che le cose sarebbero rimaste entro i limiti della politica istituzionale.
(…)
La verità, invece, è che una rivoluzione deve provvedere all’emancipazione dei cittadini. Se si vuole eliminare la corruzione e il clientelarismo del sistema elettorale bisogna fare in modo che la gente viva in condizioni di vita decenti, percepisca salari adeguati e sia consapevole dei propri diritti. Gli attivisti benestanti che simpatizzano con la causa della democrazia pensano che la rivoluzione sia compiuta e di poter lasciare le piazze e tornare tranquillamente a ricoprire i loro incarichi prestigiosi da qualche altra parte, ma i lavoratori dei trasporti pubblici, ad esempio, che dopo venti anni di servizio guadagnano 189 libbre egiziane al mese, vivono una condizione molto diversa: non basta dirgli: “tornate a lavorare e abbiate pazienza che tutto sarà risolto quando finalmente avremo il prossimo governo”. Quella che è appena cominciata è la fase due della rivoluzione, il momento in cui devono essere avviati i cambiamenti sociali ed economici. Adesso dobbiamo portare piazza Tahrir nelle fabbriche, nelle università e nei luoghi di lavoro. In tutte le istituzioni del paese sono ancora troppi i rappresentanti del vecchio regime che devono essere espulsi, l’Egitto è ancora pieno di Mubarak in miniatura.