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A tavola con gli antichi. Petronio, Apicio, Orazio, Anonimo





lunedì 14 novembre 2011 legge Sandro degli Esposti
"Cibo” e “cultura”: due concetti strettamente collegati. Non soltanto le scelte alimentari e le conseguenze dietetiche giocano un ruolo determinante sugli equilibri vitali dell'essere umano e dunque costituiscono la premessa ad ogni successiva sua forma espressiva; ma la individuazione degli alimenti, la loro preparazione, il loro consumo rivelano all'origine opzioni significative sul piano dei valori simbolici.

Non stupisce, perciò, di ritrovare anche presso i classici latini indicazioni estremamente interessanti relative ai comportamenti alimentari. Al di là della semplice curiosità documentaria, infatti, è possibile ricavare dai testi orientamenti e allusioni a modelli di vita, o addirittura a sistemi di valori che attraversano la società del tempo e si riflettono anche nel campo dei gusti e della scelta del cibo.




Petronio – Satyricon (35, 36, 40, 66, 69, 70) 35.

 Al nostro plauso tenne dietro una portata non proprio grandiosa come ci attendevamo, la cui originalità, tuttavia, attrasse gli sguardi di tutti i commensali. Si trattava infatti di un vassoio rotondo che aveva disposti, uno dopo l'altro, in circolo, i dodici segni zodiacali, sopra ciascuno dei quali il maestro di cucina aveva sistemato il cibo proprio e adatto al referente: sopra l'Ariete ceci cornuti, sopra il Toro una bistecca di manzo, sopra i Gemelli testicoli e rognoni, sopra il Cancro una corona, sopra il Leone un fico d'Africa, sopra la Vergine la vulva di una piccola scrofa vergine, sopra la Bilancia una bilancia che portava su un piatto una focaccia salata, sull'altro una focaccia dolce, sopra lo Scorpione un pesciolino di mare, sopra il Sagittario un totano, sopra il Capricorno un'aragosta, sopra l'Acquario un'oca, sopra i Pesci due triglie. Nel centro del vassoio, inoltre, una zolla estirpata con la sua erba sosteneva un favo.

Un giovane cameriere egiziano porgeva del pane ai commensali tutt'intorno, traendolo da un forno portatile in argento <...> ed allora anche il padrone di casa, con orrendi gorgheggi, straziò un'aria tratta dal mimo Il mercante di laserpizio. Come tutti noi, un po' demoralizzati, ci accostammo a cibi così correnti, Trimalchione incalzò: « Vi prego, mangiamo; il sugo della cena è questo».

36. Come pronunciò queste parole, accorsero sgambettando a tempo di musica quattro camerieri e tolsero la parte superiore del trionfo. Compiuta questa operazione, scorgiamo nella parte più bassa pollame e pancette di scrofa ed in mezzo una lepre, provvista di ali, in modo da sembrare un Pegaso. Agli angoli del trionfo notammo anche quattro figurine di Marsia, dai cui piccoli otri una salsa al pepe colava sopra dei pesci che nuotavano come in un euripo. Ci fu un applauso generale, sollecitato dalla servitù, e ci buttiamo, ridendo, su quelle cose tanto prelibate.


[…]


40. A questi tenne dietro un vassoio, sul quale era sistemato un cinghiale di grandi dimensioni, e per giunta fornito di pileo, dalle cui zanne pendevano due panierini, fatti di foglie di palma intrecciate, ripieni l'uno di datteri freschi, l'altro di datteri secchi. Intorno al cinghiale, poi, dei lattonzoli fatti di pasta biscottata, dando l'impressione di stare attaccati alle mammelle, indicavano che il cinghiale era femmina. E questi ultimi, peraltro, furono utilizzati come doni da portare a casa. Peraltro a tagliare il cinghiale non si presentò quello Squarcia che aveva trinciato il pollame, ma un gigante barbuto, che aveva le gambe avvolte da fasce e sulle spalle un mantelletto policromo: impugnato un pugnale da caccia, inferse un colpo violento ad un fianco del cinghiale, dalla cui ferita uscì in volo uno stormo di tordi. Stavano lì pronti gli uccellatori con le panie ed in un attimo catturarono gli uccellini svolazzanti intorno alla stanza.


Quindi dopo aver fatto consegnare a ciascuno il proprio tordo, Trimalchione aggiunse: «Ed ora guardate un po' che ghiande raffinate quel maiale selvatico si mangiava». Immediatamente i valletti si accostarono ai panierini che pendevano dalle zanne e distribuirono in parti uguali tra gli invitati i datteri secchi e quelli freschi.


Mentre ci vien detto di prendere questi ricordini, volgendo lo sguardo alla tavola <...> già vi era stato sistemato un trionfo contornato da alcune focacce, il cui centro era occupato da un Priapo, realizzato da un pasticcere; che secondo l'iconografia consueta teneva nel suo capace grembo ogni sorta di frutti e di grappoli. Con una certa ingordigia allungammo le mani verso quel bendidio ed ecco che d'un tratto un'ennesima messinscena scherzosa venne a rianimare l'allegria. Infatti ogni focaccia ed ogni frutto al pur minimo tocco presero a spargere zafferano, il cui acre aroma ci arrivava fino in faccia. Pensando dunque che si trattasse di una portata sacra, aspersa com'era di un ingrediente così proprio delle cerimonie cultuali, ci alzammo tutti bene in piedi e esclamammo: «Alla salute di Augusto, padre della patria». Poiché però c'era chi, anche dopo questo omaggio formale, si accaparrava la frutta, anche noi ne riempimmo i tovaglioli, […]


66. «Si, va bene, ma cosa vi è stato servito da cena?» chiese Trimalchione.

«Te lo dirò, se ne sarò capace;» rispose «infatti sono di memoria così buona, che non di rado dimentico il mio nome. Dunque, come prima portata abbiamo avuto un maiale coronato di sanguinacci, con intorno delle salcicce e ventrigli di pollo, preparati alla perfezione, e di sicuro c'era anche della bietola e pane integrale fatto in casa da sé, che io preferisco a quello bianco; primo, rinforza e poi, quando la faccio non piango. La seconda portata consisté in una torta fredda al formaggio, servita con eccellente vino spagnolo versato sopra del miele caldo. Per la verità di torta non ne ho mangiato nemmeno un pezzettino, ma di miele ne ho fatto una scorpacciata. Tutt'intorno c'erano ceci e lupini, noci a volontà e una mela a testa. Io, tuttavia, ne ho prese due ed eccole qui, le tengo legate nel tovagliolo; infatti, se non porto qualche regaluccio al mio piccolino, mi tocca litigare. Mi suggerisce bene la mia signora. Come piatto in vista c'era un pezzo di carne d'orso, di cui quella scriteriata Scintilla, avendo assaggiato un pezzetto, ci mancò poco che vomitasse anche le budella; io invece ne ho mangiato più di una libbra, infatti sapeva pari pari di cinghiale. E se, dico io, l'orso si pappa l'ometto, a quanto più forte ragione l'ometto ha diritto di mangiarsi l'orso? Come piatto finale abbiamo avuto del formaggio molle con una salsa di sapa e una lumaca a testa, listarelle di trippa, fegatini serviti al tegamino, uova incappucciate, rape, senape e piatto cacarelloso: falla finita, Palamede! Ancora, invece fecero girare dentro una zuppiera delle olive in salamoia dalle quali alcuni, con maleducazione quadrata, attinsero tre manciate. Il prosciutto, poi, lo mandammo indietro.» [...]


69. […] Né ci sarebbe stata alcuna fine a questa serie di iatture, se non fosse stato servito il pospasto, consistente in tordi realizzati con farina di segale impastata, farciti di uva passa e noci. Fecero loro seguito anche delle mele cotogne su cui erano confitte delle spine, in modo da sembrare dei ricci di mare. E queste cose sarebbero state anche tollerabili, se una portata di gran lunga più orrenda non avesse provocato in noi la conseguenza che avremmo preferito morir di fame, prima di assaggiarla. Infatti, come fu servita in tavola quella che noi credevamo un'oca ingrassata con intorno dei pesci e uccelli di ogni tipo, Trimalchione ci informò: «Amici, tutto quello che vedete qui sul tavolo è fatto di un unico materiale».


70. […] «Possa aumentare il mio patrimonio, non la mia stazza, com'è vero che il mio cuoco tutte codeste cose le ha ricavate dalla carne di porco. Non esiste persona al mondo più preziosa. A tuo comando, sarà in grado di farti da una vulva un pesce, da un pezzo di lardo un piccione, da un prosciutto una tortora, da uno zampone una gallina.


 Apicio, Arte culinaria

IV, 2


Torta di acciughe senza acciughe. Sminuzza i pesci arrostiti o allessati in quantità da riempire un piatto a tuo piacere, trita: pepe, un po' di ruta; lavora con una quantità sufficiente di garum e con un po' di olio e mescola (questa salsa direttamente) nel piatto col pesce; rompi le uova crude e incorpora ben bene. Posa sopra delicatamente le ortiche di mare, evitando che si mescolino con le uova. Fai stufare così che (le ortiche) non si possano mescolare con le uova e, quando queste saranno ben asciutte, insaporisci col pepe e servi. A tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia.


VII, 4


Braciole alla moda di Ostia. Incidi la pelle della braciola senza, però, levarla. Trita: pepe, ligustico, aneto, cumino, silfio, una bacca di alloro, tempera con garum; ritrita e versa in un recipiente insieme alla braciola. Dopo due o tre giorni di marinatura con i condimenti, ritira, fermala con due stecchi incrociati e metti nel forno. A cottura ultimata, taglia la braciola lungo le tacche e trita: pepe, ligustico; tempera col garum e un po' di passito per addolcire. Quando questa salsa sarà ben cotta, legala con l'amido; cospargila in dose abbondante sulle braciole e servi.


 VII, 9


PROSCIUTTO
1. Dopo aver allessato il prosciutto con molti fichi secchi e con 3 foglie di alloro, scotennalo, incidilo a tasselli, che riempi di miele. Rivesti poi come di una nuova pelle il prosciutto con una sfoglia di pasta, fatta con farina ed olio. Quando la sfoglia è cotta, levalo dal forno e servilo.



Excerpa, 21


21. Maialino cotto nel vino. Prendi il maialino, acconcialo e fallo cuocere in olio e garum. Durante la cottura metti nel mortaio: pepe, ruta, 1 bacca di alloro, garum, vino o passito o cotto, vino vecchio. Tritura tutto insieme; tempera e versa nella pentola di bronzo. Sistemaci (22) il maialino e fai terminare la cottura nella salsa; quando lo ritiri, lega (la salsa) con l'amido, versa così nella salsiera e servi.



Anonimo (“Appendix Vergiliana”) -

“Moretum” (la pizza rustica), vv. 16 – 25, 38 – 54, 85 – 116


Per terra era sparso un piccolo mucchio di frumento;

di questo prende quanto ne permetteva un misurino,

quantità corrispondente al peso di sedici libre.

Poi si allontana e si avvicina alla macina e, su una piccola tavola,

che teneva fissa alla parete per usi di quel tipo,

colloca il fido lume, libera allora dalla veste le due braccia

e, cinto della pelle di una villosa capra,

spazza con una coda le pietre e il centro della mola.

Chiama poi le mani all'opera, che ripartisce in due;

la sinistra è intenta a servire, la destra a lavorare.

[…]

Dopo che l'opera girevole della mola ebbe compiuto la sua funzione,

trasferisce da lì con le mani nel setaccio la sparsa farina

e la scuote; rimangono le scorie nella parte superiore,

si deposita Cerere purificata e filtra mondata dai fori.

Allora la sistema subito su una liscia tavola,

vi versa sopra dell'acqua tiepida,

raduna ora insieme acqua e farina mescolate,

lavora il composto indurito dalla mano e coagulato dall'acqua,

talvolta cosparge grumi di sale. Già leviga la pasta lavorata

e con le palme la dilata in una sua forma circolare

e la segna con riquadri ugualmente suddivisi.

Poi la mette sul focolare (Scibale aveva prima ripulito il posto

adatto), la copre con cocci, vi accumula sopra le braci.

E mentre Vulcano e Vesta fanno la loro parte,

Simulo frattanto in quell'ora vuota non si ferma,

ma si cerca un'altra occupazione, e, affinché non sia sgradita

al palato la sola Cerere, si procura cibi da aggiungere.

[…]

Anche allora, meditando qualcosa di tal genere era entrato nell'orto;

dapprima, scavata leggermente la terra con le dita,

tira fuori quattro teste d'aglio con spessi gambi,

poi svelle le gracili chiome del prezzemolo, e la rigida ruta,

e il coriandro che dondola sullo stelo sottile.

Quando ha raccolto questi ortaggi, si siede presso l'allegra fiamma

e ad alta voce chiede alla serva il mortaio.

Stacca allora dal nodoso corpo le singole teste,

le priva della pellicola esterna e sparge qua e là per terra

le parti inservibili e le butta via; i bulbi salvati dagli steli

intinge nell'acqua e li depone nella cavità circolare della pietra.

Li cosparge di granelli di sale, vi aggiunge cacio indurito

per il sale assorbito, vi immette le suddette erbe,

e, con la sinistra sorregge la veste sotto l'inguine peloso,

mentre la destra dapprima rammollisce col pestello gli odorosi

agli, poi li tritura tutti parimenti nel succo mescolatosi.

La mano va in giro: a poco a poco ogni elemento perde le proprie

caratteristiche, il colore si fa uno da tanti,

né tutto verde, perché le parti di formaggio lo impediscono,

né bianco latte, perché questo colore è cambiato da tante erbe.

Spesso aspre zaffate colpiscono le narici aperte dell'uomo

e, arricciando il naso camuso, manda alla malora il suo pranzo.

Spesso col palmo della mano deterge gli occhi lacrimosi

e insulta adirato il fumo incolpevole.

L'opera procedeva; orma non a scatti, come prima,

ma più pesante, si muoveva il pestello in lenti giri.

Instilla dunque gocce di olivo sacro a pallade

e sopra vi sparge il mordente di un filo d'aceto,

poi di nuovo mescola il tutto e, rimaneggia la mistura.

Allora infine con due dita gira tutt'intorno nel mortaio

si riunisce in un'unica massa globosa tutte le parti separate,

perché si concretizzi l'aspetto di un moreto fatto e finito, degno del suo nome.



Orazio – Satire: I, 6 (110 – 131)

In questo e in mille altre cose, io faccio vita più comoda di te, mio illustre senatore: da qualsiasi parte mi viene voglia, me ne vado da solo, chiedo a quanto vanno legumi e farro, giro e rigiro sovente fra gli imbroglioni del Circo e del Foto di sera, mi fermo davanti agli indovini. Poi me ne torno a casa, a una scodella di porri, ceci e frittelle. Tre garzoni a servire la cena, un piano di marmo con sopra due coppe e una mestola, e accanto una saliera da poco, un'ampolla con il suo piatto, tutta suppellettile campana. Quindi me ne vado a dormire, senza il pensiero che domani mi tocca levarmi di buon mattino, andare verso la statua di Marsia, quello che dice di non farcela più a sopportare la faccia del più giovane dei Novii. Sto a letto fino alle dieci; poi vado a spasso, oppure, dopo aver letto o scritto in silenzio quello che mi va, mi ungo di olio, ma non di quello che Natta il sudicione ruba alle lucerne. Poi però, quando il sole più pungente mi fa sentire la fatica e mi consiglia di andare al bagno, lascio il Campo e il gioco della palla in triangolo. Pranzato che ho senza avidità, quel tanto per non restare a pancia vuota l'intera giornata, me ne sto a casa a far nulla. E' questa la vita di chi è libero dall'ambizione che rende infelici ed opprime. Ed io mi consolo a pensare che, in questa maniera, vivrò una vita più piacevole che se avessi avuto un questore per nonno e per padre e per zio.