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Bologna al tempo delle persecuzioni- sulla base delle mappe di Bologna 1938 - 1945



lunedì 23 gennaio 2006 legge Luigi Pardo
Le strade e le pietre di Bologna negli anni quaranta ancora ricordano le persecuzioni, i divieti, le scritte contro gli ebrei; testimoniano gli arresti, le retate, i luoghi di lavoro coatto. Ma anche i soccorsi, i salvataggi, i rifugi.
Sulla scorta del bel lavoro svolto dal bolognese “Istituto storico per lo studio della Resistenza”, che ha pubblicato recentemente una “Guida ai luoghi della guerra e della resistenza”, Lucio Pardo, della Comunità Ebraica di Bologna, seguirà le mappe della Bologna di allora per restituirci quelle strade, quelle storie. 

Sezione riguardante la persecuzione antiebraica a Bologna, curata da Rossella Ropa, in
Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna, Bologna 1938-1945. Guida ai luoghi della guerra e della Resistenza, a cura di Brunella Dalla Casa, Bologna, Aspasia 2005, pp. 14-25.

La Comunità ebraica, le leggi razziali e la deportazione (1938-1945)

Nella primavera-estate del 1938 il regime fascista avviò l'elaborazione di una serie di leggi finalizzate alla persecuzione antiebraica, un sistema normativo articolato in ogni suo aspetto e preceduto da una vasta campagna di stampa, diffamatoria e umiliante, che a Bologna venne portata avanti con particolare virulenza dal maggiore quotidiano cittadino «il Resto del Carlino».
Le prime disposizioni emanate riguardarono l’istituzione degli uffici statali incaricati della persecuzione (la Direzione generale per la demografia e la razza, conosciuta come Demorazza) e la predisposizione di uno speciale censimento cui furono sottoposti solo gli ebrei italiani e stranieri residenti nel nostro paese. L'accurata rilevazione statistica costituì un’operazione preliminare indispensabile: il suo fine principale fu quello di tracciare un confine netto tra chi doveva essere assoggettato alla normativa persecutoria e chi poteva considerarsi immune. Secondo i dati raccolti con il censimento del 22 agosto 1938 erano residenti a Bologna circa 1.000 ebrei, su una popolazione di 300.000 abitanti.
A questi atti seguirono l'espulsione degli ebrei stranieri dal paese (in base alle cifre fornite dalla Prefettura, 138 avrebbero dovuto lasciare la nostra città) e i decreti che favorirono l'epurazione degli ebrei dalla vita culturale italiana. Nel settembre del 1938, infatti, vennero cacciati dalle scuole di ogni ordine e grado insegnanti e studenti; in seguito fu estromesso anche il personale non docente e sostituiti i nomi degli istituti scolastici «intitolati a persone di razza ebraica». Gli alunni espulsi a Bologna furono una quarantina alle elementari e una ventina alle medie; numerosi anche i docenti, tra cui una decina di professori e quattro maestri. Anche nell’ateneo felsineo l’estromissione avvenne in modo drastico: vennero allontanati undici ordinari su ottantasei - Bologna fu l’università col più alto numero di cattedratici cacciati - una cinquantina tra assistenti, volontari e liberi docenti 
Non si conosce invece il totale degli studenti universitari condannati all'espulsione; a quelli già iscritti negli anni precedenti e in corso fu consentito il proseguimento degli studi: chi riuscì a terminarli si ritrovò stampigliata l’appartenenza alla «razza ebraica» persino sul diploma di laurea.
Lo slogan coniato dal regime «Impedire ogni ingerenza giudaica nei vari settori della vita italiana» venne applicato in modo rigoroso soprattutto in campo economico dove la legislazione antiebraica fu particolarmente persecutoria: il regime eliminò gli ebrei dalle industrie, dai commerci, dalla pubblica amministrazione, dalle libere professioni e ne limitò le proprietà immobiliari (Regio Decreto Legge n. 1728 del 17 novembre 1938 con il quale il regime, inoltre, vietava i matrimoni tra «ariani» ed ebrei). Impossibile stabilire esattamente il numero di ebrei bolognesi che persero la propria occupazione a iniziare dal 1938; certo è che da quel momento vennero progressivamente sanciti divieti per varie attività lavorative, mettendo a dura prova la loro possibilità di mantenere un dignitoso livello di vita, tanto che circa una cinquantina di bolognesi furono costretti ad emigrare (nel continente americano e in Palestina).
Lo stillicidio dei divieti, alcuni crudeli altri assurdi, tutti comunque lesivi dei diritti più elementari, si estese di giorno in giorno, innovando e ampliando il regime di oppressione anche in ambito sociale: gli ebrei furono espulsi dal Partito nazionale fascista (Pnf), venne vietato loro di figurare nell'elenco del telefono, di pubblicare necrologi, di essere serviti da domestici «ariani», di recarsi in luoghi di villeggiatura, di frequentare biblioteche, di fare parte di associazioni culturali, sportive, sociali, morali, ecc. A Bologna fu loro impedita, ad esempio, l’iscrizione e la frequentazione del Circolo del tennis, di quello dei commercianti, dell’Unione felsinea della caccia, dell’Unione nazionale ufficiali in congedo… E questo in nome del «principio della separazione delle razze».
L’antisemitismo e la campagna di odio diffusi dal regime cominciarono a dare i loro spregevoli frutti immediatamente: a Bologna, come in molte altre città italiane, una forma di vessazione particolarmente ignobile e volgare fu costituita dalla affissione, nelle vetrine di alcuni locali pubblici, di avvisi che vietavano l'ingresso agli ebrei - uno di questi era il Caffè S. Pietro di via Indipendenza - o di cartelli che segnalavano l’ «arianità» del proprietario. L’affissione si diffuse, forse perché ritenuta dagli esercenti bolognesi un’azione promozionale che poteva aumentare le vendite, tanto che venne pubblicizzata, nel dicembre del 1938, sulle pagine de «il Resto del Carlino». Poche invece le scritte antiebraiche apparse in città; di una in particolare permane tuttavia il ricordo: quel «morte agli ebrei» in pece nera comparsa nel 1939 sul terzo pilastro del portico destro di via de’ Gombruti, nelle vicinanze della Sinagoga.
Negli anni successivi la progressiva estensione e l’inasprimento delle misure vessatorie portarono il regime ad esercitare interventi capillari in tutti gli ambiti della vita sociale, economica e culturale e, con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, venivano infine disposte misure di internamento per tutti gli ebrei stranieri presenti in Italia e per quelli italiani ritenuti «pericolosi». In base a questa ordinanza circa 44 ebrei stranieri vennero arrestati nella nostra città e imprigionati nei circa cinquanta campi di internamento che si trovavano per lo più nelle regioni centro-meridionali. Nessun ebreo bolognese, invece, finì recluso; soltanto Aldo Sinigaglia e Lillo Saralvo rischiarono l’internamento per aver espresso pubblicamente la loro contrarietà alle leggi razziali emanate dal regime.
L'ennesima disposizione ministeriale persecutoria venne emanata il 6 maggio 1942: la cosiddetta «precettazione obbligatoria a scopo di lavoro» in base alla quale gli ebrei, di ambo i sessi, compresi fra i 18 e i 55 anni dovevano essere avviati al lavoro coatto; per i trasgressori era previsto l'arresto e la denuncia ai tribunali militari. Di fatto, furono costretti a svolgere esclusivamente lavori manuali, separati dai lavoratori «ariani», e a ricevere paghe inferiori a parità di mansione. Dalle statistiche della Demorazza risulta che al 30 giugno 1943 su 428 bolognesi precettati solo tredici erano abili (216 erano stati esonerati temporaneamente e 199 definitivamente per motivi di salute). Di questi, otto erano stati adibiti alla cernita della frutta presso la ditta Martelli, due venivano impiegati dalla ditta elettromeccanica Milani e gli altri tre dallo scatolificio Bettini, dalla officina meccanica fratelli Novarese e dal laboratorio di chimica dell’Università.
Nella primavera-estate del 1943, quindi ben prima dell’occupazione nazista, avvenne un vero e proprio «salto di qualità» nella persecuzione attuata dal regime: furono, infatti, programmati campi di concentramento per il lavoro forzato degli ebrei dai 18 ai 36 anni, di ambo i sessi, da istituire in Veneto, Lombardia, Piemonte e Lazio. Questa gravissima misura corrispondeva alla revoca della libertà personale, alla rottura di nuclei familiari, allo schiavismo giuridico ed economico, alla deportazione interna. Soltanto la caduta del regime fascista bloccò la realizzazione di una disposizione normativa, completamente articolata in ogni suo aspetto, che avrebbe consentito il concentramento di 9.146 ebrei; di questi, 261 - 126 uomini e 135 donne - sarebbero stati i bolognesi, secondo quanto riportato in un prospetto della Demorazza.
La prassi persecutoria del periodo 1938-1943 determinò le premesse politiche e materiali per l'eliminazione fisica degli ebrei presenti nel nostro paese, attuata dai nazisti dopo l'8 settembre 1943, con la complicità attiva della Repubblica sociale italiana: nella Carta di Verona, suo testo programmatico, gli ebrei italiani venivano infatti dichiarati stranieri e appartenenti a nazionalità nemica. Il 30 novembre 1943, con l'ordine di polizia n. 5, veniva poi disposta la confisca dei loro beni, mobili e immobili, e ordinato il loro internamento in un unico grande campo di concentramento a Fossoli di Carpi, in provincia di Modena (nel frattempo erano stati allestiti dai tedeschi quelli di Borgo San Dalmazzo in provincia di Cuneo e la Risiera di San Sabba a Trieste) e successivamente in quello di Bolzano, tappe obbligate per i campi di sterminio.
L'occupazione dell'Italia da parte dei tedeschi e la costituzione della Rsi, dunque, peggiorarono ulteriormente le già precarie condizioni di vita degli ebrei bolognesi: dall'8 settembre 1943 tutti quelli residenti – circa 500 secondo i dati forniti dell’Unione delle comunità ebraiche - si trovarono sottoposti ai programmi nazisti di deportazione, che in breve tempo il nuovo governo fascista fece propri. Solo la prima retata, infatti, fu effettuata dalle SS: si svolse tra il 6 e l’8 novembre 1943 e andò parzialmente a vuoto, nonostante i tedeschi fossero provvisti degli elenchi nominativi forniti loro dalla polizia italiana. Gli ebrei arrestati furono caricati su un treno giunto da Roma il 9 novembre e diretto ad Auschwitz: quando si mosse dalla stazione ne aveva a bordo circa 400, di cui una ventina sicuramente bolognesi. La seconda retata invece, avvenuta ai primi di dicembre, fu direttamente gestita dalle autorità fasciste: le abitazioni di tutti gli ebrei vennero perquisite, devastate, saccheggiate e sottoposte a sequestro, intere famiglie furono arrestate. Gli altri bolognesi vennero catturati in tempi diversi nel corso del 1944, soprattutto tra febbraio e marzo.
Molti riuscirono a fuggire alla macchina di morte nazi-fascista, lasciando la città e nascondendosi nelle campagne circostanti oppure cercando scampo in Svizzera (circa una trentina); diversi parteciparono al movimento di resistenza, tra cui Franco e Lelio Cesana, Bianca Colbi, Giovanni Enriquez, Mario Finzi, Eugenio Heiman, Mario Jacchia, Mario Levi e Walter Lenghi.
Oltre un centinaio furono gli ebrei catturati nella nostra città e deportati, di cui 84 sicuramente bolognesi; di questi solo sei tornarono dai Lager nazisti: cinque bolognesi - Guglielmo Coen Giacobbe Bonicar, la figlia Giuditta, Nino Matatia e Giuseppe Mortara - e una non bolognese: Clara Finzi. Dall’Italia ne vennero deportati oltre 7.000 di cui solo 800 furono i sopravvissuti.

I luoghi della Comunità ebraica

1. Sinagoga, via de’ Gombruti 19 (oggi 9): un primo oratorio in questa sede fu fondato nel 1829, poi sostituito nel 1928 dalla sinagoga progettata dall’architetto Attilio Muggia. Nel 1954 fu costruita nelle sue forme attuali, dopo i gravi danneggiamenti subiti in seguito a un bombardamento nel 1943. Sulla sua facciata, che dà su via Finzi, spicca, all’altezza del portone, una lapide in ricordo degli ebrei bolognesi deportati.

2. Comunità ebraica, via de’ Gombruti 19 (oggi 9): la sede fu parzialmente distrutta da un bombardamento nell’ottobre del 1943.

3. Antico ghetto: era delimitato dall’attuale via Zamboni (allora via S. Donato) e via Oberdan (allora via Cavaliera) e costituito da via dei Giudei, via dell’Inferno, via Canonica, vicolo S. Giobbe, vicolo Mandria, via del Carro e via Valdonica.
Bologna fu la seconda città degli Stati pontifici a decidere la segregazione degli ebrei nel maggio 1556, poco dopo l’emanazione della bolla di papa Paolo IV con la quale si imponeva che tutti gli ebrei vivessero in un unico luogo, separato da quelli abitati dai cristiani. L’anno successivo, oltre a muraglie di divisione, furono installati i due portoni che venivano chiusi durante le ore notturne: il primo si trovava all’imbocco di via dei Giudei (allora via Belvedere), il secondo all’ingresso di via Oberdan. Qui si doveva svolgere tutta la vita della comunità.

4. Cimitero ebraico, via della Certosa 18: l’attuale cimitero ebraico, di origine ottocentesca, fa parte di quello comunale. E’ un campo molto ampio costituito da tre sezioni. Nella più antica, istituita nel 1867, di particolare pregio storico-monumentale, si trova anche la camera mortuaria. Nella sezione intermedia, aggiunta attorno al 1930, scompaiono le tombe monumentali. Nell’ultimo recinto, annesso nel 1956, le sepolture sono costituite da semplici lastre di marmo.

I luoghi della persecuzione dei diritti (1938-1943)

5. Sede del Partito nazionale fascista, via Manzoni 4: l’espulsione degli ebrei dal Pnf costituisce un inequivocabile segnale di incompatibilità tra l’Italia di Mussolini e gli ebrei. Riassume in sé tutte le discriminazioni cui vennero sottoposti gli ebrei bolognesi e può esserne considerato il simbolo.

6. Scuola elementare ebraica, via Pietralata 67: trasferita nel 1942 in via Zamboni 2 
7. Scuola media ebraica, via de’ Gombruti 19 (oggi 9)

8. Via dei Giudei: il 15 dicembre 1938 il podestà decise di mutare il nome di questa strada in via delle Due Torri. Il motivo venne spiegato in un articolo de «il Resto del Carlino»: «la denominazione – pur ricordando il permanere dei giudei d’altri tempi nel ghetto e quindi in condizioni di inferiorità – mal s’intonava con le direttive del regime e costituiva un motivo di disagio per gli abitanti della via stessa».

9. Intendenza di Finanza, piazza Malpighi: questa struttura, con la collaborazione del Consiglio provinciale delle corporazioni e dell’Ufficio tecnico erariale, aveva il compito di accertare la consistenza patrimoniale degli ebrei e di assegnare la parte eccedente i limiti consentiti dalla legge del novembre 1938 all’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (Egeli) per la requisizione delle proprietà.

10. Alcuni edifici sequestrati in base al decreto legge 9 febbraio 1939, n. 126 relativo ai limiti di proprietà immobiliare per i cittadini italiani di «razza ebraica»: casa di Giulio Calabi, via Malta; casa di Celestina Del Vecchio, via S. Vitale 18; casa di Angelo Sinigaglia, strada Maggiore 7/9.

11. Caffè S. Pietro, via Indipendenza, angolo via Altabella: fu uno dei ritrovi pubblici in cui comparve un cartello con la scritta «Ingresso vietato agli ebrei», una forma di vessazione particolarmente ignobile e volgare.

12. Via de’ Gombruti: poche le scritte antiebraiche apparse in città, una in particolare viene ricordata: quel «morte agli ebrei» in pece nera comparsa nel 1939 sul terzo pilastro del portico destro di questa via.

13. Consiglio provinciale delle Corporazioni, piazza della Mercanzia 4: era questo l’organo periferico dell’amministrazione fascista che gestiva la cosiddetta «precettazione obbligatoria», disposizione ministeriale in base alla quale gli ebrei, di ambo i sessi, compresi fra i 18 e i 55 anni dovevano essere avviati al lavoro coatto; per i trasgressori era previsto l'arresto e la denuncia ai tribunali militari.

14. I luoghi del lavoro coatto: tredici bolognesi furono costretti a svolgere esclusivamente attività manuali, separati dai lavoratori «ariani», e a ricevere paghe inferiori a parità di mansione: Ditta Martelli, piazza XX settembre 6; Ditta elettromeccanica Milani, via Galliera 34-36; Scatolificio Bettini, via Nicolò dall’Arca 75, angolo via Spada; Laboratorio di chimica dell’Università, via Selmi 2.

I luoghi della persecuzione delle vite (1943-1945)

1. Sede SS, via Santa Chiara 6/2: gli ebrei arrestati a Bologna, per tutto il dicembre 1943, venivano condotti in questo edificio o al carcere di S. Giovanni in Monte e da qui – appena raggiunto il numero sufficiente - direttamente alla stazione per essere deportati (almeno due convogli transitarono dalla nostra città per raccogliere gli ebrei catturati); dal gennaio 1944 i prigionieri e i nuovi arrestati venivano avviati al campo di raccolta di Fossoli di Carpi e dopo la sua chiusura, avvenuta nell’estate 1944, a quello istituito a Gries-Bolzano.

2. Carcere, piazza S. Giovanni in Monte: da lungo tempo penitenziario giudiziario di Bologna, dopo l’occupazione tedesca continuò a svolgere tale funzione ma allo stesso tempo fu anche utilizzato dagli organismi di polizia nazisti, insieme a quelli della Rsi, quale luogo di detenzione e interrogatorio, punto di partenza o di transito per i detenuti ebrei verso il campo di Fossoli o direttamente verso Verona e i Lager del Reich. Nell’elenco compilato il 7 maggio 1945 dal direttore del carcere Francesco Colombo, nominato dal Comitato di liberazione nazionale, gli ebrei qui transitati nel periodo dicembre 1943 - primavera 1945 risultano essere trentasei, di cui dieci nati a Bologna e sei residenti.

3. Abitazione di Alfredo Dalla Volta, via Rialto: gli ebrei potevano essere arrestati ovunque: per strada, sui mezzi di trasporto, nelle loro case, nei luoghi di lavoro, negli ospedali… Tragica fu la sorte di Alfredo Dalla Volta, della moglie Marta Finzi e dei figli Anna e Paolo. Nel dicembre 1943 dei cittadini zelanti andarono a bloccarli nel loro alloggio perché non potessero fuggire alla cattura. I fascisti trovarono così tutta la famiglia riunita. In una breve sosta a Verona, durante il viaggio che li conduceva ai campi di sterminio, riuscirono a spedire una cartolina postale all’amico Agenore Costa, datata 7 dicembre 1943: «Carissimi siamo in viaggio per terre lontane pieni di fiducia e con l’animo a voi rivolto. Speriamo che Dio ci assista e di riabbracciarci un giorno. Ricordateci come noi vi ricordiamo». Non tornarono più.
Simile sorte subirono i coniugi Zevulun Goldstaub e Pasqua Basevi. «Stai tranquillo, siamo a casa», scrissero al figlio Loris che si era trasferito a Roma. E in casa furono presi nel novembre 1943, trovando poi la morte ad Auschwitz.

4. Villa Bianca, via Crociali 22: il medico Attalo Muggia, fidando nel battesimo, non si era nascosto e aveva continuato a lavorare nella sua casa di cura. Fu prelevato dalle SS nel novembre 1943 e di lui non si seppe più nulla.

5. Ospedale S. Orsola, via S. Vitale 99: facile preda dei nazifascisti furono le sorelle Augusta, Giuseppina e Ida Diena, di 73, 77 e 79 anni. Prive di mezzi e ammalate, vennero ricoverate in ospedale dove i fascisti le prelevarono nella primavera del 1944. Consegnate alle SS, andarono a Fossoli e vi restarono sino al 26 giugno quando furono deportate a Auschwitz e lì immediatamente uccise.
Altri furono catturati in questo modo: nella prima retata del novembre 1943 Fanny Todesco, di 94 anni, venne prelevata da un letto d’ospedale e mandata a morire ad Auschwitz.

6. Abitazione di Moisè Alberto Rossi, via Capuccini 5 (oggi via Putti): qui il 9 novembre 1943 fu ucciso Moisè Alberto Rossi, di 71 anni. A causa dell’età e confidando nel battesimo ricevuto, non si era nascosto; quando vide le SS entrare nel parco di casa, tentò la fuga: venne abbattuto a colpi di mitra. La moglie Itala Resignani, di 69 anni, invece, fu catturata e uccisa all’arrivo ad Auschwitz.
Almeno altre due persone morirono a Bologna a causa della repressione nazi-fascista: Giacomo Luzzatto, arrestato nell’aprile 1944 da italiani, e Leone Padoa, prelevato nel marzo 1945 dai tedeschi nel suo appartamento; furono fatti sparire e nulla si seppe di loro, né allora né in seguito.

I luoghi della salvezza

7. Villa Sabauda, via Zannoni 56: gli ospedali furono anche luoghi di salvezza per gli ebrei grazie all’opera di sanitari che, avvalendosi di molteplici stratagemmi (trasferendoli da un reparto all’altro, non segnalando il ricovero, contraffacendo i nomi, ecc.), si rifiutarono di consegnarli ai nazisti.
Un caso di salvataggio abbastanza straordinario fu quello di Vera Treves che, dopo aver subito una appendicectomia in questa casa di cura, vi venne trattenuta con vari pretesti e si salvò.

8. Istituto per ciechi «Cavazza», via Castiglione 71: le sorelle Sandra, Maria Luisa, Elena Basilea, insieme alla loro madre Amalia Levi, passarono il periodo del terrore qui nascoste.

9. Abitazione di Armando Quadri, via Cantarana (oggi via Quadri): molte famiglie ebree riuscirono a sottrarsi alla cattura dotandosi di carte di identità false, la maggior parte delle quali venne preparata da uomini del Partito d’azione (Pda) bolognese. L’idea venne ad Armando Quadri, consulente fiscale della Comunità ebraica per diversi anni, che incaricò dell’operazione Gino Onofri 
10. Abitazione di Gino Onofri, via Marsala 22: qui venivano materialmente prodotti i documenti falsi.

11. Abitazione di Padre Marella, via S. Mamolo 23: le parrocchie e gli istituti religiosi rappresentarono un sicuro rifugio per gli ebrei. Padre Olinto Marella ne ospitò numerosi nella sua casa e in quelle della sua Opera (il «Pio gruppo per l’assistenza religiosa negli agglomerati di poveri») sparse in vari centri della provincia.

Approfondimenti

L’Università e le leggi razziali
Negli anni Trenta il fascismo guardava con particolare attenzione all’Alma Mater, non solo per l’autorevolezza della sua storia ma anche perché, in tema di antisemitismo, poteva essere considerata una «università-simbolo»: a Bologna studiava la maggior parte di ebrei stranieri e insegnava la concentrazione di docenti ebrei più alta per numero e per prestigio accademico; colpire quella comunità scientifica assunse, per il regime, un significato emblematico di carattere nazionale. Pincherle, Mondolfo, del Vecchio, Ascarelli, Levi, Horn d’Arturo, Segre, Camis, Foà, Supino, Volterra subirono così la morte civile e le loro intelligenze vennero ridotte al silenzio: le conseguenze di quei traumi furono misurabili non solo in termini di sofferenza personale, ma anche in riferimento alla produzione scientifica e quindi alla qualità del lavoro universitario, della cultura accademica non solo bolognese.
Il carattere politico ed «educativo» dell’epurazione, assieme alla sua «necessità», fu sottolineato dal rettore dell’ateneo bolognese Alessandro Ghigi, nella prolusione da lui tenuta il 14 novembre 1938, all’inaugurazione dell’anno accademico. Questi, docente di zoologia, consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni e futuro membro del Consiglio superiore per la demografia e la razza, con marcata adesione mise in risalto il carattere positivo dell’allontanamento dall’università di tante intelligenze ed energie, intrecciando sul problema razziale contorte discettazioni biologiche a considerazioni politiche; il tutto per dimostrare la necessità per il regime di «salvaguardare l’integrità della stirpe nei suoi caratteri costituzionali», in vista della sua politica di colonizzazione delle «razze inferiori, distribuite nelle terre dell’Impero». Inoltre, nel gennaio 1939 invitò a parlare nell’aula magna dell’ateneo padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università cattolica, che, in quell’occasione, rinnovò l’infamante accusa di «deicidio» per il popolo ebraico. Sempre nel 1939 Ghigi, chiamato da alcune sezioni dell’Istituto nazionale di cultura fascista a far conoscere gli aspetti biologici del problema razziale, tenne in alcune città italiane un ciclo di conferenze, raccolte poi in un volume dal titolo Problemi della razza e del meticciato.
Ghigi non fu l’unico sostenitore della legislazione razzista all’interno dell’ateneo bolognese; vanno, infatti, anche ricordati come zelanti propugnatori: Arturo Donaggio - ordinario di clinica delle malattie nervose, direttore della clinica neuropsichiatrica e presidente della Società italiana di psichiatria - uno dei dieci firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti (il documento che doveva dare una patina di scientificità alla legislazione razziale, pubblicato il 14 luglio 1938); Fabio Frassetto, direttore dell’Istituto di antropologia generale e applicata, definito tra i «grandi precursori del razzismo italiano» dal periodico «La difesa della razza» del quale fu assiduo collaboratore; Goffredo Coppola, ordinario di Letteratura greca e latina che, dopo l’istituzione della Rsi, fu nominato rettore dello Studio bolognese, direttore dell’Istituto nazionale di cultura fascista e della rivista mensile «Civiltà fascista». Fascista della prima ora, dopo il 1938 il suo impegno si era rivolto prevalentemente all’ambito pubblicistico, scrivendo diversi articoli antisemiti per i periodici di regime. Alla fine del 1944 li raccolse in Trenta denari, un libello dai toni particolarmente virulenti, in cui la sua dottrina umanistica veniva asservita alla dimostrazione della assurda tesi della perversione e della malvagità della «razza ebraica», giungendo persino a stravolgere la lettera di alcuni passi dell’Antico Testamento.

La Comunità ebraica 
A Bologna, prima del 1938, la convivenza tra la popolazione e la Comunità ebraica residente nel territorio era stata pacifica e assolutamente non problematica: numericamente esigua, era perfettamente integrata nella realtà economica e culturale di cui, anzi, era parte non secondaria (un esempio su tutti: Amilcare Zamorani era stato fondatore e primo direttore del maggiore quotidiano locale «il Resto del Carlino»). Alle necessità religiose della Comunità provvedeva, in quegli anni, il rabbino Alberto Orvieto - arrestato nel dicembre 1943 a Firenze con la moglie Margherita Cantoni e deportato ad Auschwitz, dove fu ucciso al suo arrivo – mentre Gino Zabban ne era il presidente dal 1936. Rinnovato parzialmente il 7 giugno 1938, il Consiglio della Comunità dimissionò in massa nei mesi successivi, perciò la Prefettura dovette nominare un Commissario nella persona del ragioniere Gino Terenzi, che restò in carica almeno fino al 1943.
Avevano sede nella Comunità, oltre alla scuola media (vedi scheda), anche la sezione bolognese della Delegazione assistenza emigrati (Delasem), una complessa e vasta rete di soccorso per aiutare i correligionari che fuggivano dai paesi dominati dai nazisti o che avevano deciso di lasciare l’Italia, operante in 27 centro provinciali e regionali. La struttura bolognese era retta da Mario Finzi con il quale collaborava Eugenio Heiman; ai profughi in transito - almeno 50 nel 1939 - veniva assicurata non solo l’assistenza religiosa ma anche materiale, con vitto, alloggio e somme in denaro. Negli anni della guerra la Delasem bolognese prestò il proprio aiuto per salvare un centinaio di giovani ebrei stranieri che, arrivando dalla Jugoslavia, vennero ospitati sino alla fine del conflitto a Nonantola, in provincia di Modena.
Con l’introduzione della legislazione razzista, la Comunità diventò la sfera sociale privilegiata in cui muoversi: privati dei diritti civili nel giro di pochi mesi, con i figli espulsi dalle scuole, spesso senza lavoro, defilati in molti casi amici e conoscenti «ariani», i bolognesi ripresero a frequentarla con assiduità per cercare forme comuni di solidarietà, attività e difesa. Si sforzarono di trovare un modo per far fronte alla precarietà quotidiana, per continuare a vivere insieme nella terra dove erano nati.

Le scuole ebraiche
L’istruzione per i propri figli fu il primo pensiero degli ebrei bolognesi. Non potendo più frequentare la scuola pubblica, i loro ragazzi sarebbero andati a quella che la Comunità si affrettò ad organizzare, una iniziativa di grande valore politico-morale perché era il segnale tangibile che gli ebrei erano in grado di reagire alle persecuzioni.
Il problema non si pose per le elementari: il Comune di Bologna dovette istituire, data l’obbligatorietà dell’istruzione di base, due pluriclassi per 33 bambini (15 femmine e 18 maschi), sistemate in via Pietralata - la vecchia sede della scuola elementare «E. Sirani» - fino al 1942, quando vennero trasferite in via Zamboni 2; qui funzionò una sola pluriclasse per diciotto alunni. Gli insegnanti erano Giorgio Formiggini e Iris Volli Pardo.
La Comunità dovette invece procedere all’organizzazione delle scuole medie. L’iniziativa venne affidata a Ferruccio Pardo, un ex preside di istituto tecnico, il quale agì con molta professionalità e rapidità: nella sede di via de’ Gombruti la scuola cominciò a funzionare a tempo pieno alla fine di novembre; due piccole aule costituite da «pochi banchi, una stufa a legna di terracotta a ripiani ed una tavola che faceva da cattedra» ma in cui insegnarono professori di alto livello come Ezio Bolaffi, libero docente di lingua e letteratura latina, cacciato dall’ateneo bolognese. Una ventina all’inizio, gli allievi calarono sensibilmente con il passare degli anni: «qualcuno defezionò, qualcuno ancora emigrò, ma gli altri quasi tutti andarono incontro al destino di Auschwitz» (G. Sacerdoti, Ricordi di un ebreo bolognese, p. 66).

Una particolare azione di soccorso: la fabbricazione di documenti falsi
Molte famiglie ebree riuscirono a sottrarsi alla cattura grazie anche ad una peculiare forma di assistenza rapidamente posta in essere da uomini del Partito d’azione (Pda) bolognese, che riuscirono a dotare i ricercati di carte di identità abilmente falsificate, difficilmente controllabili, essendo indicati come luoghi di nascita e residenza comuni situati in zone già liberate dagli alleati. L’idea venne ad Armando Quadri, consulente fiscale della Comunità ebraica per diversi anni, che incaricò dell’operazione Gino Onofri consegnandogli autentici moduli in bianco e alcuni timbri confezionati ad hoc. Le marche da bollo erano state sottratte in un ufficio comunale, rimasto abbandonato durante un allarme aereo, da Candia Onofri, moglie di Gino. Un loro figlio, Nazario Sauro, ebbe il compito di compilare gli stampati con generalità false, scelte dalle persone che le avrebbero dovute usare. Armando Quadri e Gino Onofri furono arrestati, con il gruppo dirigente del Pda, il 4 settembre 1944: Quadri venne fucilato qualche giorno dopo, mentre Onofri fu deportato nel Lager di Mauthausen dove morì il 2 febbraio 1945.

Bibliografia
Saggi
- Riccardo Bonavita, Gianluca Gabrielli, Rossella Ropa, L’offesa della razza. Razzismo e antisemitismo dell’Italia fascista, Bologna, Patron, 2005.
- Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, Bologna, Grafis, 1994.
- Roberto Finzi, L’università italiana e le leggi antiebraiche, Roma, Editori Riuniti, 1997.
- Roberto Finzi, Undici “vacanze” nel DCCCL annuale della fondazione dell’Università di Bologna, in Walter Tega (a cura di), Lo studio e la città. Bologna 1888-1988, Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1988, p. 351-363.
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