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Dall'osteria al fast food-Collodi, Serao, Soldati, Gadda, Benni





lunedì 21 novembre 2011 legge Andrea Grillini
I centocinquanta anni di vita unitaria sono stati contraddistinti da imponenti trasformazioni delle strutture economiche, politiche e sociali e anche, ovviamente, del costume e delle abitudini alimentari della popolazione. L’Italia agricola, sottoalimentata e priva di una cucina nazionale, si è gradualmente trasformata in un paese moderno, liberato dalla fame grazie all’abbondanza di cibo prodotto, confezionato e distribuito in modo industriale, progressivamente unificato a tavola, anche se legato a tradizioni regionali ricchissime e preziose. La scelta che si propone alla lettura intende documentare, attraverso pagine letterarie dell’Ottocento e del Novecento, alcuni aspetti di questo processo ampio e complesso, privilegiando la trasformazione dei luoghi adibiti al consumo degli alimenti e la sensibilità con cui si è guardato al significato e al valore dei cibi popolari e tradizionali.

Collodi, Le avventure di Pinocchio, Milano, Rizzoli, 1988, pp. 22-23, 29-31, 49-50

(cap.7) 

Intanto incominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un'uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all'appetito.

Ma l'appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti dopo pochi minuti l'appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello.

Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c'era una pentola che bolliva e fece l'atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita.

Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po' di pane, magari un po' di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po' di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.

E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare, e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via. (cap.5) 


Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:

- Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.

- Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.

- Sbucciarle? - replicò Geppetto meravigliato. - Non avrei mai creduto, ragazzo mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perchè non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!...

- Voi direte bene, - soggiunse Pinocchio, - ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.

E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.

Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l'atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:

- Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.

- Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... - gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera.

- Chi lo sa! I casi son tanti!... - ripeté Geppetto, senza riscaldarsi.

Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull'angolo della tavola in compagnia delle bucce.

Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:

- Ho dell'altra fame!

- Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.

- Proprio nulla, nulla?

- Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.

- Pazienza! - disse Pinocchio, - se non c'è altro, mangerò una buccia.

E cominciò a masticare. Da principio storse un po' la bocca; ma poi, una dietro l'altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce, anche i torsoli, e quand'ebbe finito di mangiare ogni cosa, si batté tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:

- Ora sì che sto bene!

- Vedi dunque, - osservò Geppetto, - che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!!... 


(cap.13) 

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all'osteria del Gambero Rosso.

- Fermiamoci un po' qui, - disse la Volpe, - tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all'alba, nel Campo dei miracoli.

Entrati nell'osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.

Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perchè la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!

La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d'uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.

Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un'indigestione anticipata di monete d'oro. 


Matilde Serao, “L'estrazione del lotto” ne Il Paese di Cuccagna, a cura di G. Cattaneo, Milano, Garzanti, 1981

I mercanti del lato destro di via Santa Chiara - poiché il lato sinistro ha solo l'alta, chiusa, bruna muraglia del convento delle Clarisse - mercanti di vecchi mobili polverosi, di meschini e poveretti mobili nuovi, mercanti di stampe colorate e di vivacissime oleografie, mercanti di santi di legno, di santi di stucco, pranzavano, nel fondo delle loro botteghe oscure, sopra un cantuccio di tovaglia macchiata di vino, tenendo, a fianco del largo piatto di maccheroni, la caraffa di vetro verdastro, piena di vinello di Marano e chiusa da una foglia di vite accartocciata. I facchini dei mercanti, seduti per terra, sulla soglia della bottega, addentavano lungamente una pagnotta di pane, spartita in due, contenente qualche companatico asprigno, zucchette fritte e immerse nell'aceto, pastinache in salsa brusca, melanzane condite con aceto, pepe e aglio: e l'odore acuto e grasso del molto pomidoro che condiva tutti quei maccheroni, da un capo all'altro della strada, si univa a quell'odore acuto di aceto aspro e di grossolane spezierie. Da qualche fruttivendolo che ancora passava portando sul capo una cesta di fichi, quasi vuota, o spingendosi innanzi un carrettino le cui ceste contenevano dei fondi di prugne violette, di pesche duracine tutte maculate, i bottegai, i commessi, i facchini, con le labbra ancora rosse di pomodoro, o lucide di strutto, contrattavano due soldi di frutta, per finire il proprio pranzo; due operai, innanzi alla litografia Martello, le cui piccole macchine da biglietti di visita si erano chetate, affettavano gravemente un popone giallastro; mentre, sulla soglia di un portoncino, due sartine aspettavano, chiacchierando, che passasse il venditore di pizza, la schiacciata coperta di pomidoro, di aglio e di origano, cotta al forno e venduta a tre centesimi, a un soldo, a due soldi il pezzo. Il pizzaiuolo, infatti, passò, ma portava sotto il braccio la tavoletta di legno, tutta unta di olio, senza neppure un pezzetto di pizza: aveva venduto tutto e se ne andava a mangiare egli stesso, giù, nel quartiere di Porto, dove era la sua pizzeria. Le due sartine, deluse, si consigliarono fra loro: una di queste, bionda, con un'aureola d'oro intorno al delicato viso bianco, si mosse, con quel passo ondulante che mette come una nota orientale nella seduzione muliebre napoletana, e risalendo la via di Santa Chiara, chinando il capo per non farsi ferire in faccia dal sole, entrò nel vicolo dell'Impresa, dirigendosi verso la negra bottega del vinaio che fa anche l'oste, quasi dirimpetto al palazzo dell'Impresa; andava a comperare un po' di roba da mangiare, per sé e per la sua compagna.

Anche il vicolo dell'Impresa si era fatto deserto, dopo il mezzogiorno, in cui tutti rientrano nelle case e nelle botteguccie per pranzare, in cui il caldo estivo cresce, cresce, e la controra, il periodo della giornata napoletana che equivale alla siesta spagnuola, comincia col cibo, col riposo, col sonno delle persone stanche. La sartina, un po' intimidita dall'oscurità della cantina, donde un fiato acido di vino usciva, si era fermata sulla soglia, ammiccando; e guardava in terra, prima di entrare, sentendo come un pericolo di botola aperta, di sotterraneo, dalla negra bocca schiusa. Ma il garzone del cantiniere si avanzò verso lei, per servirla.

"Dammi qualche cosa da mangiare col pane," diss'ella, dondolandosi un poco.

"Pesce fritto?"

"No."

"Un po' di baccalà, con la salsa?"

"No, no," disse ella, disgustata.

"Una zuppa di trippa?"

"No, no."

"E che volete, allora?" domandò il garzone, un po' infastidito.

"Vorrei... vorrei tre soldi di carne, la mangeremo col pane, Nannina e io," disse ella con una graziosa smorfia di golosità.

"Non cuciniamo carne, oggi; è sabato. Solo la trippa, per chi non ci crede, al sabato..."

"E dammi questo baccalà," mormorò ella, reprimendo un sospiro.

Ora guardava curiosamente nel cortile dell'Impresa, mentre il garzone era scomparso nelle profondità nere della cantina, a prendere il baccalà. Un po' di sole, penetrando, dall'alto, imbiondiva quel cortile: e, ogni tanto, qualche ombra femminile o maschile lo attraversava. Antonetta, la sartina, guardava sempre, mentre canticchiava sottovoce una nenia popolare, dondolandosi un poco.

"Ecco il baccalà," disse il garzone, tornando.

Lo aveva messo in un piattello: erano quattro grossi pezzi che si disfacevano a faldette, in un sugo rossastro e fortemente punteggiato di pepe; il sugo, ondeggiando, lasciava delle traccie gialle di olio, sulla cornice del piattello bigio.

"Ed ecco i tre soldi," mormorò Antonetta, cavandoli dalla tasca. Ma rimaneva col piatto in mano, guardando il baccalà che si sfaldava nella broda.

"Se pigliassi un terno," disse, mentre si avviava tenendo delicatamente il piattello, "vorrei cavarmi la voglia di mangiar carne, ogni giorno."

"Carne e maccheroni," ribatté, ridendo, il garzone.

"Già: maccheroni e carne!" gridò trionfalmente la sartina, con gli occhi sempre fissi sul piattello, per non far cadere il sugo.

"Mattina e sera!" strillò, dalla soglia, il garzone.

"Mattina e sera!" strillò Antonetta. 

Mario Soldati, Un prato di papaveri, in Da leccarsi i baffi, Derive e Approdi, Roma, 2005, pp. 40-41 
Non so perché: forse per il colore bianchissimo e l’asperità delle pietre, la Porta Soprana di Sant’Andrea, che chiude il quartiere più antico della città, ha una forza, un’evidenza, una terribilità per cui resta nella memoria come se fosse molto più alta dei vicini grattacieli: mentre, in realtà, è molto più bassa.

Al confronto, perfino i palazzi rinascimentali di via Garibaldi, scompaiono. In altre parole, davanti alla Porta Soprana, si capisce subito, senza possibilità di dubbio, che l’apogeo della potenza genovese è tutto medievale: dei due secoli che vanno da Guglielmo Embriaco alla diarchia di Oberto Doria e Oberto Spinola.

Attraverso la Porta, risalgo via di Ravecca. E’ una profondità ancora più profonda di via di Pré. E’ il cuore del cuore.

Mi fermo, estasiato, davanti a una tripperia: dove, in una luce livida, su lastre bigie di bardiglio, sono stese drappeggiate in varie forme le enormi busecche biancastre, rugose, reticolate. Al di là della vetrina, tutto intorno alle pareti della stanza lunga e stretta, grandi botti verniciate di smeraldo vivo. E ai tavoli di marmo, uomini, per lo più anziani, che mangiano la trippa fumante e bevono vino rosso.

Più in là, un forno: tirano fuori, proprio in quel momento, una colossale teglia rotonda con la schiacciata di ceci: la fainà. Una quindicina di persone, uomini, donne e bambini, è lì che attende. La padrona, con un grosso coltello, ritaglia con incredibile prestezza triangoli e triangoli della sottilissima focaccia, li depone su fogli di carta oleata, li piega, li consegna, prende i soldi, dà il resto.

Quasi tutti prendono la loro cartata, e se ne vanno: si vede che abitano lì vicino, e che quella è la loro cena, o, almeno, il primo piatto della loro cena. Alcuni si spargono per i tavolini dello scantinato, che è come un’anticamera del forno, e consumano lì. Altri sopraggiungono, e in pochi minuti la grande teglia è vuota. Ne viene infornata, intanto, una nuova.

Saper descrivere il suo sapore! Granoso, morbido, vellutato; appena dolce, appena salato; caldo, croccante, appetitoso! E’ un cibo che i competenti chiamano “umile”, e forse disprezzano; perché costa poco. Ma se, improvvisamente, i ceci diventassero rari, bisognerebbe convenire che la fainà è più raffinata della fonduta o di una mousse de jambon. 


 
Carlo Emilio Gadda, “Risotto patrio. Rècipe” in “Il gatto selvatico” n. 10 (agosto 1955), poi ne Le meraviglie d’Italia, Torino, Einaudi, 1964 

L'approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d'una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po' più scuro, è vero, dopo l'aurato battesimo dello zafferano. 


Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del « rame » o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici « interni », ove i lucidi rami più d'una volta figurano sull'ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l'alluminio. 


La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.


Burro, quantum prodest, udito il numero de' commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l'appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi. 


Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l'aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po' per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè. 


Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po' meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro « risotto alla milanese » ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all'Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no! 


Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all'incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all'ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.

Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetta-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese. 


 

Stefano Benni, “Autogrill horror”, in Il bar sotto il mare, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 173-176 

Una Fiat milletrecento va nella notte sull’autostrada che porta dal lavorare al mare e viceversa.

Dentro il milletrecento c’è:

Il padre che ha i nervi.

La madre che ha sonno.

Il figlio che ha sete

La figlia che le scappa.

Stanno tornando da una vacanza di tre giorni al mare l’albergo non era sul mare c’erano molte zanzare le cotolette eran dure,

La madre dice appena vedi un’area di servizio fermati.

Il padre dice non mi fermo la prossima mi fermo quella dopo.

Il figlio dice ho sete subito.

Il padre dice ho detto la prossima qua nella Fiat comando io. La figlia sta per dire qualcosa ma la mamma la blocca se no quello ò capace di fermarsi alla prossima dopo la prossima dopo la eccetera.

La luna sta nel cielo imbarcadero del gran mistero, passano grossi camion transeuropei carichi di surgelati, residui radioattivi e maiali tristi.

Un Tir sorpassa la Fiat e il padre sportivamente dice:

- Si ammazzasse!

Un chilometro più avanti c’è un incidente con cartocci di macchine, benzina per terra, topazi di parabrezza, ambulanze, polizia e numerosi curiosi sanguinari.

- Papà fermiamoci – dice il figlio speranzoso – forse ci sono dei morti.

- Non fermarti – dice la moglie – mi fa senso.

Il padre pensa come può fare per scontentare tutti. Passa, si ferma un attimo e riparte.[...] 


Luminoso e pulsante li ingoia il Grill in cui entrano fieri e decisi a tutto. Quattro pistoleros in braghe corte, con gambe e braccia ustionate in diverse tonalità: fragola il padre amarena la madre salmone il figlio mortadella la figlia.

Si guardano intorno fiutando la preda. Bibite panini orsacchiotti cioccolatini mitra per bambini torte tipiche dei chilometri limitrofi prosciutti ibernati giornali tettuti videocassette cassette pannoloni caramelle molli caramelle dure pandori panpepati pandolci panasonic e un provolone mostruoso, bianco.

Essi sono entrati nel labirinto del benessere senza paura poiché possiedono il filo, il magico filo del denaro e il padre, estratto il portafoglio come una Colt, già si dirige verso la cassa ove sta una commessa piccola, ossigenata, itterica.

- Cosa prendete? – dice il padre

- Goca – dice il figlio.

- Goca – dice la figlia.

- Goca – dice la madre.

La sfinitezza arroca i viandanti.

- Due goche e due gaffè di gui uno haaaaag.

- Nient’altro? – provoca la commessa.

Il padre le lancia un’occhiata del tipo guardi che se voglio io compro tutta l’azienda. Poi con un gesto imperioso pilota tutti al bar. Il barista è un orango sgraziato con una rivista porno sotto il bancone, tutta la notte lì da solo, o magari se la fa con la commessa, guarda che orrore dei sandwich lividi dei panini lungodegenti delle torte morte dei tramezzini putrefarciti. Quanto è triste tutto ciò.