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L'Islam e la ragione araba - Franco Cardini e Mohammed Abed al-Jabri





lunedì 04 novembre 2002 legge Giulio H. Soravia
Che cosa significa oggi confrontarsi con la cultura islamica? 

In una realtà in cui sempre più frequenti risultano le dichiarazioni di incompatibilità e di antagonismo tra Islam e Occidente, è ancora possibile concepire le due culture in termini non conflittuali, ma complementari? 
E, quando si vuole andare in tale direzione, come è possibile superare i condizionamenti che la propria appartenenza culturale inevitabilmente comporta? Questi interrogativi non sono ormai più una curiosità intellettuale, ma sono diventati esigenze di chiarimento sulla nostra realtà quotidiana – tanto più necessarie alla luce dei recenti ed attuali sviluppi delle relazioni internazionali.
Questi temi saranno al centro dell'incontro del 4 novembre della Bottega dell'Elefante, che prevede la lettura e la valutazione di un'opportuna documentazione di testi, da parte di un esperto di cultura islamica contemporanea. L'incontro potrà offrire chiavi di accesso ad una diversa cultura, al di là di ogni facile e schematica convinzione pregiudiziale.



Testi:
1) Franco Cardini, Noi e l'Islam. Un incontro possibile?

E' dunque vero che l'Islam è tornato a minacciare la civiltà? E minaccia la Civiltà tout-court, quella assoluta, la vera e la sola, quella con la maiuscola; oppure minaccia semmai una civiltà precisa, la nostra, quella europea e/o occidentale, cristiana o post-cristiana che sia? Ma esiste, poi, una civiltà che possa davvero ambire a presentarsi come la Civiltà: oppure il pensar qualcosa del genere è puro frutto d'intolleranza e di etnocentrismo occidentale, di cronocentrismo moderno? E noi, poi, chi siamo? Siamo davvero e soltanto europei, e quindi occidentali, e pertanto anche cristiani o postcristiani?
Ogni volta che parliamo di tolleranza sale spontaneamente al ricordo una vecchia fiaba più volte riciclata nell'Europa medievale. Certo, quando si tratta d'un simile argomento noialtri figli dell'Occidente così fiero della sua libertà e del suo progresso dovremmo andar piuttosto col pensiero alle pagine nobilissime delle Lettere sulla tolleranza di John Locke, non a caso redatte nello scorcio fra Sei e Settecento, in un'Inghilterra esausta per le lotte confessionali e nauseata dalla loro violenza. Invece, più che a quei testi, oggi la nostra mente ritorna alla vecchia "favola delle Tre Anella", le radici della quale affondano forse in un mito relativo a Iside, già narrato da Plutarco, che Giovanni Boccaccio ha ritessuto nella terza novella della prima Giornata del Decameron, facendone protagonisti il saggio ebreo Melchisedech e il grande sultano Yusuf ibn Ayyub che, per noi è il Saladino. E' la stessa favola ripresa poi nell'indimenticabile Nathan der Weise del Lessing.
Un uomo ricco e potente ha, tra i suoi gioielli più cari, un anello d'inestimabile valore che si tramanda nella sua famiglia di generazione in generazione. Esso è il simbolo della coesione e dell'autorità all'interno del casato; e ogni capofamiglia lo lascia, per tradizione, al figlio più degno. Accade però che quell'uomo abbia tre figli, tutti alla stessa maniera buoni, capaci, intelligenti; e che egli nella medesima misura li ami. Il buon padre chiede allora a un valente orafo di forgiare altri due anelli, tanto uguali a quello vero che nessuno sia in grado di distinguerli da esso; e ne dona uno ciascuno ai figli, raccomandando loro di custodire il rispettivo gioiello come se fosse con certezza l'autentico. Nessuno, tranne il padre, saprà mai a chi sia stato davvero confidato l'unico vero anello: ma ciascuno dei figli andrà geloso della sua eredità e dovrà al tempo stesso rispettare quella dei fratelli, che a sua volta potrebbe essere la vera. Il buon Melchisedech narra questa favola al sultano che, non senza malizia, lo aveva invitato a dichiarare quale delle "tre leggi" ritenesse egli la verace: se l'ebraismo, l'Islam o il cristianesimo.
In questo crepuscolo sospeso tra secondo e terzo millennio, mentre molti di noi s'interrogano sulla possibilità di costruire società multirazziali e pluriculturali e sull'opportunità quindi di lavorare alla nascita di un uomo "nuovo" che sia "senza radici" – perché le radici sarebbero invariabilmente fattori di guerra e d'intolleranza -, mentre altri ritengono invece necessario proprio il partire alla ricerca e alla ridefinizione della propria identità, la favola medievale potrebbe forse indicarci una chiave pratica per la soluzione del problema costituito dal rapporto tra la Verità alla quale alcuni di noi ancora tendono – sia essa rivelata o conquistata, ideologica o religiosa, scientifica o pratica – e le più dimesse verità che riteniamo di possedere e alle quali ci capita di doverci riferire. Saggio sarebbe forse, potendolo fare, il conservarsi fedeli alle proprie tradizioni e alla propria identità e al tempo stesso non solo rispettare tradizioni e identità altrui, ma altresì arrivar a discernere, al di là delle diversità che sono spesso in apparenza e in superficie più forti che non nella sostanza, le linee profonde d'una comune eredità. Il che, nei confronti dell'Islam – e dell'ebraismo -, dovrebbe riuscir abbastanza facile.

(Franco Cardini, Noi e l'Islam. Un incontro possibile?, Bari, Laterza 1994, pp. 3-5)

2) Franco Cardini, La paura e l'arroganza

[…] Quel che è più volte affiorato a proposito di un attentato [11 settembre] del quale poco si continua a sapere – ma sul quale senza dubbio, occultamente, le indagini continuano -, consiste in un groviglio di reticenze e di contraddizioni dal quale emergono sospetti di rivalità tra le organizzazioni statunitensi cui è affidata l'intelligence, di possibili attività di organizzazioni politiche o paramilitari diffuse nel paese, di troppo sicura e precipitosa attribuzione di responsabilità. Ma tale groviglio si è lasciato dietro il sospetto persistente di dipendere da un disegno in tutto o in parte preordinato, o di voler allontanare l'ipotesi di interferenze derivanti da tensioni interne o internazionali di tipo diverso da quelle collegate alle persone e agli ambienti indicati come gli organizzatori dell'attentato. Rispetto ai quali anche la fretta di esibire prove definitive di colpevolezza, sempre ribadite come esistenti e mai effettivamente prodotte, ha talora condotto a risultati maldestri, come la videocassetta "fortunosamente rinvenuta" a Jalalabad ai primi del dicembre del 2001: avrebbe dovuto dimostrare senz'ombra di residui dubbi la colpevolezza di Osama bin Laden, ma era un falso così evidentemente grossolano che – nonostante Bush si fosse ostinato, nei giorni immediatamente successivi, a fieramente difenderne l'autenticità – scomparve quasi subito nel nulla. 
Di queste incoerenze, di queste troppo numerose smagliature nella ricostruzione dei fatti dell'11 settembre e nel loro immediato accoglimento da parte dell'opinione pubblica, possiamo forse parlare con qualche serenità oggi: tuttavia una loro fedele e convincente ricostruzione non c'è mai stata e, ora che la versione "vulgata" si è definitivamente decantata al loro riguardo, esse hanno cessato di far notizia. Riemergeranno, forse, magari tra qualche anno: e con loro le patetiche recriminazioni di chi allora dirà che lui l'aveva detto, che in fondo era chiaro fin dall'inizio eccetera. 
Invece no. Sul momento, niente era chiaro. Prevalsero allora le emozioni, lo sdegno, quel che più tardi Oriana Fallaci ha definito, in un fortunato best seller, la Rabbia e l'Orgoglio. Solo che, al binomio che la celebre giornalista fiorentina ha reso quasi proverbiale, forse un altro sostantivo andrebbe aggiunto: la Paura. Dopo l'11 settembre gli Stati Uniti, e con essi tutto l'Occidente, si sono sentiti esposti e vulnerabili. Ma quella sensazione, che nel resto del mondo era in fondo lontana ma familiare, negli States era tanto più sconvolgente perché inedita. Dai tempi della formulazione da parte del presidente James Monroe del messaggio al Congresso del 2 dicembre 1823 – in realtà elaborato dal segretario di Stato J. Q. Adams -, cioè a partire dalla formulazione della celebre "dottrina Monroe", ai primi del XX secolo, perfezionata dalla dottrina del big stick del presidente Teddy Roosevelt, nessuno aveva mai violato il territorio dell'"America agli Americani". Esso, anzi, si era dilatato in seguito a successive riformulazioni che in pratica, se da un lato consentivano agli USA di intervenire in qualunque parte del mondo essi sentissero minacciati la loro libertà o i loro interessi, dall'altro non solo e non tanto impedivano, quanto piuttosto facevano ormai universalmente avvertire come impensabile che il loro territorio potesse in qualche modo essere colpito e le loro pertinenze messe in discussione. Il ruolo svolto dagli USA dal loro ingresso nella Seconda Guerra mondiale in poi, quella del Vietnam e la progressiva egemonizzazione non solo politica e militare, ma anche economica, produttiva e perfino della vita quotidiana sull'Occidente e indirettamente su tutto il mondo – un'egemonizzazione alla quale potentemente ha contribuito la diffusione del "modello americano" attraverso il cinema e la musica -, ha reso potente e (in apparenza almeno) irreversibile il prestigio legato all'immagine di un'America protettrice della libertà e dispensatrice di sicurezza e di ricchezza. Gli attentatori dell'11 settembre ne avevano ferito, colpendo il World Trade Center, l'immagine economica; colpendo il Pentagono. quella militare; ne avevano messo in discussione l'invulnerabilità, l'intangibilità; e, con esse, il senso di sicurezza dei governi e delle società che, all'ombra dell'egemonia della superpotenza, si sentivano sicuri sia nella loro vita politica, che nel loro sviluppo economico-finanziario, protetto dall'area del dollaro.
Fu per questo che, con gli USA, tutto l'Occidente si sentì attaccato ed esposto; e non mancò neppure un rapporto d'identità tra l'Occidente à tëte américaine e la civiltà cristiana, attaccati entrambi dal fanatismo musulmano che del resto identifica l'uno nell'altra. In quell'occasione, furono molti a proclamare orgogliosamente o a spiegare pacatamente il loro "perché non possiamo non dirci americani". Siamo tutti americani, si affermò. "I am American", esclamarono anche alcuni politici e opinion makers, magari in uno slancio anglofono apprezzabile per quanto più o meno improvvisato. Modello autorevole di questi sentimenti e di quest'atteggiamento fu l'editoriale pubblicato il 12 settembre dal direttore di Le Monde, Jean-Marie Colombani: "Siamo tutti americani". Non fu, quello, un effetto dappoco. Nel breve spazio di quei giorni, mentre il mondo intero – o, almeno, quello che alcuni editorialisti definivano "civile", in opposizione a un altro che non era stimato tale – si commuoveva dinanzi alle dichiarazioni di Bush e di Giuliani, mai tanto popolari come allora, e nelle sere d'autunno nelle piazze non solo americane brillavano le fiammelle di migliaia di accendini e si scandiva "Iù-Es-Ei", e il vessillo stars and stripes pareva diventato la bandiera di tutti, sembrò di capire quanto l'America, in Gigante Buono, ci fosse entrata a fondo sotto la pelle, fino al cuore e alle viscere. Eppure, al tempo stesso, nulla più di quei giorni chiarì quanto questo vasto e profondo coinvolgimento poggiasse su fragili e superficiali radici. Quanto fortemente fosse sentito e magari vissuto: ma quanto debolmente consapevole fosse, sotto il profilo della comprensione meditata ed effettiva d'una civiltà tanto vicina a quella del resto dell'Occidente, tanto normalmente assunta a modello, eppure per tanti versi ancora scarsamente conosciuta e capita.

(Franco Cardini, La paura e l'arroganza, Bari, Laterza 2002, Introd. pp. XIV – XVIII)



3) Mohammed Abed al-Jabri, La ragione araba

[La lettura liberale]
"Come vivere la nostra epoca? Come assumere il nostro rapporto con la tradizione?" Ecco altre due domande altrettanto strettamente interdipendenti e che costituiscono, nella loro interferenza, il secondo degli assi principali intorno ai quali si organizza la problematica del pensiero arabo, moderno e contemporaneo. Il dialogo intorno a questo asse e l'ordine dialettico che esso implica si stabiliscono questa volta tra il presente e il passato. Non il presente del mondo arabo, ma quello dell'Occidente europeo, che s'impone come "soggetto–Io" a partire dal quale ha luogo lo sguardo sulla nostra epoca, sull'insieme dell'umanità e, quindi, come "fondo" di ogni futuro possibile. Questa istanza finisce per esser proiettata sul nostro stesso passato e per imprimere su di esso il suo sigillo. 
Lo sguardo arabo liberale sulla tradizione arabo-islamica ha luogo a partire dal presente che esso vive, quello dell'Occidente. La lettura liberale sarà quindi orientata verso l'Europa; in altre parole, adotterà un sistema di riferimento europeo. Così nella tradizione si vedrà soltanto ciò che in essa vedono gli europei.
E' questa corrente che la lettura orientalistica rappresenta, una lettura i cui prolungamenti, diffusisi persino in alcuni ambienti universitari arabi, si trasformano in un atteggiamento di tipo appunto orientalistico. I fautori di tale lettura vantano la loro scientificità, si richiamano all'obiettività e a una neutralità "stretta". E' una lettura che afferma di essere "disinteressata" e di "non avere alcuna intenzione ideologica".
I fautori di questo atteggiamento pretendono di mirare solo alla comprensione e alla conoscenza; in effetti, se dagli orientalisti prendono in prestito il metodo "scientifico", respingono risolutamente la loro ideologia. In tal modo essi dimenticano, o fingono di dimenticare, che insieme al metodo c'è la visione che assumono. Metodo e visione non sono forse indissolubili?
La prospettiva del metodo orientalistico consiste nel confrontare le culture, nel leggere una tradizione attraverso un'altra. Si impone così il metodo filologico, che pretende di ricondurre tutto alla sua "origine". Giacché si tratta di leggere la tradizione arabo-islamica, ci si accontenterà di ricondurla alle sue "origini" ebraiche, cristiane, persiane, greche, indiane ecc.
La lettura orientalistica pretende di mirare alla comprensione pura e semplice. Ma cosa cerca di comprendere? Cera di comprendere sino a che punto gli arabi abbiamo "compreso" gli apporti culturali dei loro predecessori. Perché? Perché l'apporto degli arabi, che si situano in una posizione intermedia tra le civiltà ellenica e moderna (europea), avrebbe valore solo in quanto gli arabi assunsero quel ruolo. E come il futuro nel passato arabo consisté nell'assimilazione di un passato estraneo al passato arabo (la cultura greca innanzi tutto), così, per analogia, il futuro nell'a-venire arabo dipenderebbe dall'assimilazione del presente-passato europeo.
Pertanto, le tesi moderniste del pensiero liberale arabo moderno e contemporaneo sono l'espressione di una temibile alienazione dell'identità, non soltanto di questa identità in quanto ancorata a un presente arretrato, ma anche, cosa più grave, di quell'identità che è portatrice di storia e di cultura.

(Mohammed Abed al-Jabri, La ragione araba, Milano, Feltrinelli, pp. 35 – 37)



Suggerimenti per letture

Paolo Branca, Voci dell'Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, Genova 1991
Massimo Campanini, Islam e politica, Bologna 1999
Olivier Carré, L'Islam laico, Bologna 1993
Franco Cardini, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Bari 1999
Franco Cardini (a cura di), La paura e l'arroganza, Bari 2002
Noam Chomsky, 11 settembre. Le ragioni di chi?, Milano 2001
John K. Cooley, Una guerra empia. La CIA e l'estremismo islamico, Milano 2000
Roberto Gritti, Magdi Allam, Islam, Italia. Chi sono e cosa pensano i musulmani che vivono tra noi, Milano 2001
Mohammed Abed al-Jabri, La ragione araba, Milano
Jacques Neirynck, Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l'Islam?, Imperia 2000
Giulio Soravia, I diritti umani in contesto islamico: a proposito della Carta fondamentale dell'Unione europea, "Bioetica" IX (dicembre 2001), pp. 693-699
Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino 1996

Dibattito:

Da dove viene la parola ‘ragazzo’? La civiltà araba si trova alle radici della nostra cultura. Forse conosceremmo il corpus delle opere aristoteliche solo per sentito dire, se non fossero passati gli arabi in Europa. Ma l’Europa è l’Occidente? Dove comincia l’Occidente? E’una nozione ideologica e politica oppure geografica e se tale è, dove sono i suoi confini? Non sono piuttosto delineati nelle nostre anguste mentalità che ci fanno vedere tutto in una contrapposizione binaria? Ma proviamo a immaginare che ci sia qualcuno che ambisca a influenzare l’opinione pubblica mondiale, non potrebbe esserci una strategia in tutto ciò? C’è qualcosa che ricorda la categoria schmittiana di politico fondata sulla necessaria antitesi di amico/nemico. Fino al 1989 il nemico, la sede del Male avevano sede al di là della cortina di ferro. Il nemico era il comunista. E dopo? Le centrali del Terrore sono diventate Kabul, Baghdad. Poi ci sono gli altri stati islamici, quelli amici, che magari non rispettano i diritti umani ma sono favorevoli all’ingerenza politica ed economica degli Stati Uniti. 
L’immigrazione coincide con l’Islam? Occorre interrogarsi su chi propone la semplicistica equazione dell’immigrato come terrorista, fanatico islamico. Proviamo a domandarci: sono tutti uguali i musulmani? Oppure aderiscono all’Islam volti, storie, popolazioni totalmente diversi? L’Indonesia e l’Asia centrale sono forse simili alla civiltà araba? Per capire occorre fuggire le facili spiegazioni, diffidare di chi ce le offre, distinguere, analizzare criticamente. Di certo cominciamo a mettere a fuoco un problema che non è religioso, ma eminentemente politico. L’Islam non sappiamo neanche cosa sia. E’ una realtà estremamente complessa, che si distribuisce su un territorio vastissimo, con profonde divergenze al suo interno. 
Nonostante ciò, noti opinionisti stanno preconizzando da mesi lo scontro di civiltà. 
Giulio Soravia è ordinario di lingua e cultura araba all’università di Bologna, nonché musulmano italiano. Quest’incontro è il primo di un percorso sulla pluralità delle culture e la loro possibile coesistenza. E’ facile parlare a chi ha una posizione tollerante –dice, il pubblico che si vorrebbe coinvolgere è quello che sta fuori, che non vuole dialogare. 
La lettura che ha scelto è presa dal libro di Franco Cardini che ha posizioni del tutto diverse da Soravia, è cattolico, di destra. Entrambi hanno avuto un confronto, pur all’interno di due visioni del mondo incompatibili, probabilmente irriducibili. Il confronto è sempre possibile quando due interlocutori siano disposti a mettersi in discussione e soprattutto non siano in malafede. E’ proprio Cardini a mettere sotto accusa la nozione di Europa come Occidente ( Europa e Islam. Storia di un malinteso, Bari 1999 ). 
L’altra lettura che ci propone Soravia è di un autore musulmano arabo che offre lo spunto per vedere le diverse anime che convivono in seno all’Islam, da un punto di vista interno, o meglio dal punto di vista dell’Altro. 
La guerra è una questione squisitamente politica. Non esistono guerre di religione, non sono mai esistite. Il potere è altro dal credo di un individuo. 
L’Islam è una religione, anche se non esiste in arabo una parola analoga al termine latino religio , che evoca l’idea di raccolta, di comunità. Il musulmano è convinto che l’Islam sia la condizione naturale dell’uomo, il compimento dell’ebraismo e del cristianesimo. Non esiste una Chiesa islamica. Alla morte del profeta, gli uomini crearono il califfato, un modello politico che guardava alla monarchia persiana. Quindi non c’è mai stata una lotta per le investiture che abbia visto contrapposti una Chiesa e un potere politico, da cui poi sia nato un moderno stato laico. Esistono degli stati che legittimano il loro potere politico con la religione islamica, che così diventa strumentale. Non esiste uno stato islamico che possa essere preso come modello, poiché sono cinquantasei i paesi aderenti alla confederazione islamica e hanno cinquantasei legislazioni tutte diverse. La legislazione che si proclama ispirata ai dettami del Corano è in realtà è l’espressione della tradizione precedente alla diffusione del credo musulmano. La mutilazione genitale femminile che viene tuttora praticata in alcuni stati africani è condannata dalla religione islamica. Tuttavia è difficile sradicare il risultato di un misto di tradizioni e pratiche incivili più antiche, e c’è da dubitare che qualcuno abbia interesse a farlo. Non esistendo comunque un clero, sono i detentori del potere che si fanno portatori della verità interpretativa. Quindi se la libertà di pensiero è così temuta, questo è da imputare a chi vuole soggiogare il volere delle persone con tutt’altre intenzioni. Il profeta invece incoraggiava la ricerca della verità di ciascun individuo. 
La laicità, se non è intesa come sinonimo di tolleranza, non può essere un presupposto per una società che si avvia ad essere sempre più composita.