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Gli imperdonabili - Cristina Campo



lunedì 16 gennaio 2006 legge Magda Indiveri
Cristina Campo, che in realtà si chiamava Vittoria Guerrini, ha scritto poco e “meno avrebbe voluto scrivere”. Ha costruito lucide recensioni e testi di analisi letteraria. Ha tradotto molto: W. Carlos Williams, J. Donne, S. Weil, V. Woolf, K. Mansfield, H. von Hofmannsthal.
Ha vissuto tra Bologna, Firenze e Roma. Ha composto versi. Ha inviato e ricevuto molte lettere ed ha avuto contatti con grandi personalità della cultura italiana, fino alla morte, nel 1977. E’ stata quasi costantemente in stato di malattia. Ha amato sopra ogni cosa lèggere.
La sua figura ha percorso il Novecento letterario con levità e grazia e inesorabile esattezza. Come una farfalla delicata ma implacabile, con la passione della perfezione: “perché ogni errore umano, poetico, spirituale, non è in essenza, se non disattenzione.” 


GLI IMPERDONABILI (Milano, Adelphi 2002)


Gli imperdonabili

Venite, mie canzoni, parliamo di perfezione:
ci renderemo passabilmente odiosi.
EZRA POUND

La passione della perfezione viene tardi.O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente. Se era stata una passione spontanea, 1'attimo, fatale in ogni vita, del « generale orrore » del mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione.
In un'epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano i due o tre eroi che ancora lanciano vigorose fiondate all'uno o all'altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, se anche le maschere si avvicendino). II cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore alla vita.
E’ prudente dimenticare che, secondo la cronaca, quell'uomo dovette a ciò la sua testa: 1'ufficiale tedesco di scorta ai condannati non resse alla sua compostezza e gli fece grazia. E’ decente ritenere le parole che il cinese proferì, interrogato, prima di perdersi tra la folla:
« Io so che ogni rigo letto è profitto ». E’ lecito immaginare che il libro che egli teneva tra le mani fosse un libro perfetto.
Che si intende con ciò? Non necessariamente un libro sacro in senso canonico. Tutto ciò che è gioioso è in qualche modo territorio divino, disse un demonologo illustre. Posso immaginare altrettanto bene un luminoso trattato sulla vita dei funghi o sui nodi del tappeto persiano, la descrizione accurata di un grande schermitore, una raccolta di lettere dal bel numero di parole in bel rapporto tra loro. O addirittura quel Saggio sui coltelli che qualcuno, mi dicono, sta scrivendo e che mi sembra degno di aspettativa perché chi lo scrive scrive con perfezione e parli di coltelli, di Francesco Bacone, del fine alluce teso di Anna Pavlova nei dolorosi arabeschi di Giselle, sta rispondendo in modo degno di onore alla ghigliottina in attesa: il povero mondo biochimico di domani dove il pensiero, secondo ci viene annunziato con reverenza, non sarà più che un siero, la coscienza più che un tegumento, ma neppure siero e tegumento l'uomo potrà ricevere in retaggio alla sua nascita poiché è noto che un impulso elettronico potrà privarlo di entrambi a qualunque distanza, per opera di un qualunque sconosciuto.
Meticolosa, speciosa, inflessibile come tutti i veri visionari, la poetessa Marianne Moore scrive un saggio sui coltelli; scrive di ramarri e di legature aldine, di danzatrici e di fenicotteri « dalle zampe di foglia d'acero »; scrive del pangolino, l'animale « in corazza, scaglia / dentro scaglia, con regolarità / di stretta pigna... / opera di un notturno / ingegnere miniaturista / replica di Leonardo » : scrive delle « morte fontane di Versailles », della« musica senza suono sospesa / sul serpente quando freme o scatta »; raccoglie nelle sue rapide, avide virgolette, chiuse tra due emistichi, quanto le riesce frodare ancora di bellezza, ove che sia: in Platone, al giardino zoologico, in un catalogo di antiche vesti di corte, nella colonna di storia naturale dell’«Illustrated London News». Di tutto questo ella scrive, traendone moralità come arpeggi repentini, subito spenti dalla mano gelosa. Uno solo, comunque, è l'affar suo, la sua lode e il suo salmo: l'ardua e meravigliosa perfezione, questa divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell'arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno. Per questo i suoi libri sono buoni compagni sulla piazza della ghigliottina.
C'è una differenza. Non sembra che il cinese, oltre che dall'ufficiale tedesco, venisse interrogato dai suoi compagni di sorte. Oggi egli lo è di continuo. Oggi a nessun lettore è permesso leggere nulla senza giustificarsi. Ma gli conviene, al pari di quello, tacere. Se proferisse una sola parola sulle ragioni della sua lettura, verrebbe, a dir poco, impedito di continuarla. Perché? Anzitutto è un puro miracolo che quel libro sia giunto nelle sue mani. Dice Marianne Moore di un eminente poeta d'oggi: «Egli è rimbrottato per la sua arte perfetta; lo scrittore non può più eccellere nella sua opera senza essere, come il cane di Coriolano, picchiato altrettanto spesso perché abbaia quanto tenuto perché lo faccia».

[…]
Si vede talvolta in un treno, in una sala d’aspetto, un volto umano. Che ha di diverso? Di nuovo potremmo dire ciò che quel volto non ha, ciò che i suoi tratti non tradiscono.
Gli occhi non diffidano né sollecitano, non divagano e non indagano. Occhi in nessun attimo assenti, mai interamente presenti. Ai giorni nostri tali volti, comuni nei quadri antichi, sembrano sigillati da una indicibile malinconia. Pure, nel treno, nella sala d’aspetto, essi gonfiano l’animo di gioia, di un accresciuto, appunto, sentimento di vita. Non correrà parola, ma il puro, subitaneo sorriso è fuga in un tranquillo luogo, vulnerabile al punto da essere inattingibile. Si dice, rapidamente “occhi consapevoli”: Sono in realtà, occhi eroici. Hanno guardato la bellezza e non ne sono fuggiti. Hanno riconosciuto la sua perdita sulla terra, e in grazia di ciò l’hanno guadagnata alla mente. Neppure la fotografia può interamente distruggere tali volti, di più in più rari, è vero. Muta la razza, muta ormai la specie, tra poco tali volti saranno appena percepiti e, percepiti, anch’essi imperdonabili, tanto estranei al contesto, al sistema che li racchiude. Già cominciano a farsi invisibili, come il Graal e la lancia di Longino che una mano riportò al cielo, si dice, quando gli uomini non furono più degni di custodirli; come il cinese che leggeva un libro e su cui la folla subito si richiuse. Per essi, tuttavia, la bellezza cacciata non cessa il suo inavvertito circuito, fior,e stella, morte, danza continuano a somigliarsi, la somiglianza a sgominare il terrore. Chiarezza, sottigliezza, agilità, impassibilità. Siedi contro il muro, leggi Giobbe e Geremia.
Attendi il tuo turno, ogni rigo è profitto. Ogni rigo del libro imperdonabile.




Parco dei cervi


Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. Per scriver i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco le avrà travolte.
Un parco ombroso, il verde specchio di un lago corso da dei germani dorati, nel cuore della città, della tormenta di cemento armato. Come non pensare guardandolo: l’ultimo lago, l’ultimo arco ombroso?
Chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi.

Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. E certo non intendo con questo l’era dei tappeti volanti e degli specchi magici, che l’uomo ha distrutto per sempre nell’atto di fabbricarli, ma l’era della bellezza in fuga, della grazie e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizione e i segni arcani della fiaba: tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai, che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato. Tutto ciò che si parte per ritrovare, sia pure a rischio della vita, come la rosa di Belinda in pieno inverno. Tutto ciò che di volta in volta si nasconde sotto spoglie più impenetrabili nel fondo di più orridi labirinti.



Attenzione e poesia

[…]

Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è in verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura.
I Greci furono esseri sdegnosi di immaginazione: la fantasticheria non trovò posto nel loro spirito. La loro attenzione eroica, irremovibile (di cui l’esempio estremo è forse Sofocle) di continuo separava ed univa, in uno sforzo incessante di decifrazione così della realtà come del mistero. I Cinesi meditarono per millenni allo stesso modo, intorno al meraviglioso Libro delle Mutazioni. Dante non è, per quanto scandaloso possa suonare, un poeta dell’immaginazione, ma dell’attenzione: vedere anime torcersi nel fuoco e nell’olivo, ravvisare nell’orgoglio un manto di piombo, è una suprema forma di attenzione, che lascia puri e incontaminati gli elementi dell’idea.
L’arte d’oggi è in grandissima parte immaginazione, cioè contaminazione caotica di elementi e di piani. Tutto questo, naturalmente, si oppone alla giustizia (che infatti non interessa all’arte d’oggi).
Se dunque l’attenzione è attesa, accettazione fervente, impavida del reale, l’immaginazione è impazienza, fuga nell’arbitrario; eterno labirinto senza filo di Arianna: Per questo l’arte antica è sintetica, l’arte moderna analitica; un’arte in gran parte di pura scomposizione, come si conviene ad un tempo nutrito di terrore. Poiché la vera attenzione non conduce, come potrebbe sembrare, all’analisi, ma alla sintesi che la risolve, al simbolo e alla figura – in una parola, al destino.
L’analisi può diventare destino quando l’attenzione, riuscendo a compiere una sovrapposizione perfetta di tempi e di spazi, li sappia ricomporre, volta per volta, nella pura bellezza della figura. E’ l’attenzione di Marcel Proust.


L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, come per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola.
Davanti alla realtà l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente e come simbolo (pensiamo ai cieli di Dante, divina e minuziosa traduzione di una liturgia). Essa è dunque, alla fine, la forma più legittima, assoluta, d’immaginazione. Quella a cui allude senza dubbio l’antico testo di alchimia là dove raccomanda di dedicare all’opera “la vera immaginazione e non quella fantastica”: Intendendo con ciò, chiaramente, l’attenzione in cui l’immaginazione è presente, sublimata, come il veleno nella medicina. Per uno dei tanti equivoci del linguaggio, comunemente la si chiama “fantasia creatrice”.
Importa poco se a questo attimo creatore, nel quale si compie l’alchimia della perfetta attenzione, conducano lunghi e dolorosi pellegrinaggi, o se scaturisca da un’illuminazione. Tali lampi non sono se non quella scintilla (di origine e natura sempre più misteriose via via che per ogni cosa ci viene fornita una chiave) che l’attenzione sollecita e prepara: come il parafulmine il fulmine, come la preghiera e il miracolo, come la ricerca di una rima l’ispirazione che proprio da quella rima potrà sgorgare.
A volte è l’attenzione di un’intera stirpe, di tutta una genealogia, che avvampa improvvisamente alla scintilla di un dio: “Io posi li piedi in quella parte della vita di là della quale non si puote ire più per desiderio di ritornare…”
Questo individuo dall’attenzione conclusiva, rapinatrice, il mondo lo definisce, con un’abbreviazione molto bella, un genio, significando colui che è abitato da un demone, che incarna il manifestarsi di uno spirito sconosciuto.


Come il gigante dalla bottiglia, dall’immagine l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine: a somiglianza, ancora degli alchimisti che prima scioglievano il sale in un liquido e poi studiavano in quale modo si raddensasse in figure. Essa opera una scomposizione e una ricomposizione del mondo in due momenti diversi e ugualmente reali. Compie così la giustizia, il destino: questa drammatica scomposizione e ricomposizione di una forma.
L’espressione, la poesia che ne nasce, non potrà essere, evidentemente, che una poesia geroglifica: simile a una nuova natura. Tale che solo una nuova attenzione, un nuovo destino la potrà decifrare. Ma la parola svela istantaneamente a quale grado di attenzione sia nata. Lo svela col suo peso, terrestre e sopraterrestre: tanto più rispettato, tanto più circondato di silenzio e di spazio quanto più intenso è stato il tempo dell’attenzione.
Ogni parola si offre nei suoi multipli significati, simili alle faglie di una colonna geologica: ciascuna diversamente colorata e abitata, ciascuna riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare. Ma per tutti, quando sia pura, ha un colmo dono, che è totale e parziale insieme: bellezza e significato, indipendenti e tuttavia inseparabili, come in una comunione. Come in quella prima comunione che fu la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
La parola del maestro, dice un racconto ebraico, appariva a ciascuno un segreto destinato all’orecchio suo e a nessun altro: sicchè ciascuno sentiva come sua, e completa, la storia meravigliosa che egli narrava nelle piazze e di cui ogni nuovo venuto non udiva che un frammento.


“Soffrir pour quelque chose s’est lui avoir accordé une attention extrème” (così Omero soffre per i Troiani, contempla la morte di Ettore; così il maestro di spada giapponese non distingue tra la sua morte e quella del suo avversario) E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E’ avere assunto sopra a se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.
Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione.
Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.
E’ chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione.


LETTERE A MITA (Milano, Adelphi 1999)

68

25 ottobre 1957

Carissima,

tutto è arrivato bene. Sarebbe così bello farlo insieme, questo numero di “Stagione” – rileggere insieme tante cose. Anche il Williams si forma, lentamente. Potrebbe venire un libro molto bello, poi mi dà tanta gioia. Dice tutto quello che io non oso dire in questi giorni, tutto il mutamento e il pericolo che è in quest’aria di ottobre – come una primavera capovolta nel fiume. Ci sono tante cose che non capisco- che giorno per giorno cambiano volto e voce. Un giorno è indifferente fino alla morte – le foglie sono già raccolte in mucchi, per terra – un giorno il terrore di vivere si apre come un astero rosso. Poi si conosce già tutto, si sa quel che avverrà, più o meno; eppure tutto si oscura e si rischiara con sempre nuova disperazione.
Penso che di questa lettera non capirà una parola. Nemmeno io, dopo tutto. Ho scritto molte poesie- no, non molte, solo 5 o 6 – poesie che non le piacerebbero affatto, ma che sono il mio solo tentativo di capire- e di sopportare.
Mi scriva presto per favore, sono in pena per il suo posto, più di lei se possibile. Vorrei farle vedere – ma no – questa luce fra pioggia e pioggia – che nel fondo del fiume la sera, tra nebbia e lumi, è una luce di trasparente foresta.
L’abbraccia stretta
Vie

LETTERE A UN AMICO LONTANO
(Milano, Scheiwiller 1998)

(1964)
Villa Borghese
Giardino del Lago
Lunedì


Caro […],
a questa spalliera di buganvillea, ora spoglia, stava appoggiato lei, quel giorno che ci facemmo fotografie, quel giorno che “facemmo” tra l’altro la “Città di Rame”.
Quante volte ho desiderato di avere un fratello? Più di una volta, certo, di avere lei come fratello: desiderare la sua presenza e averla in poche ore, su un aereo, come in un attimo si poteva avere Salomone, sul tappeto, coi ginn.
Con lei, grazie al cielo, nessuna spiegazione – neppure forse questa, elementare; che dopo mille malesseri previsti e prevedibili, stavolta sono davvero malata e ho l’orrore della solitudine e il terrore della compagnia non perfetta; che tre anni di lotta con la morte giorno per giorno- e poi tre mesi e mezzo durante i quali mio padre è stato (o pareva a me) in pericolo, con febbre a 39 per settimane e tonnellate di antibiotici che indebolivano il cuore, non sono molto in sé, ma forse un po’ troppo per un organismo come il mio, che, fra l’altro, non ha il dono del sonno. Ora mio padre corre in automobile, Elèmir dà lezione tre volte la settimana (Dio li guardi) e io piango e tremo ed è come se nella stanza quieta, dove tanto vorrei studiare e scrivere, giacesse nell’angolo una tigre battendo la coda, ritmicamente, (…)
Vorrei che lei fosse qui. Parleremmo (il sole sta scendendo dietro le palme) dello sterminio dei Watussi- ne ha letto nei giornali? I meravigliosi Watussi li stanno sterminando tutti, i loro ex-servi, i deformi Bahntu. Sempre la stessa storia che si ripete. Stamattina leggevo questa notizia e, come dice la gente, “reagivo con sproporzionato dolore”- m non sono questi i dolori che ci salvano ancora, che ci tolgono per un attimo la percezione della tigre nell’angolo, con la sua coda che batte, batte ritmicamente?
Come sta? Scrive? Tante cose affettuose da me e da E. (la mia colonna)
C.….


LA TIGRE ASSENZA (Milano, Adelphi 2001)

La neve era sospesa tra la notte e le strade
Come il destino tra la mano e il fiore.

In un suono soave
Di campane diletto sei venuto…
Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
Notturna, volto umano!

(ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

Ahi che la Tigre,
la tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…