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Due articoli tratti da Il Caffè (1764-1766) - Pietro Verri e Gian Rinaldo Carli



lunedì 22 maggio 2006 legge Riccardo Lenzi
"La estrema decadenza obbligherà i paesi anche più torbidi d’Europa a riscuotersi ed a vedere la luce universale”. In queste parole, scritte da Pietro Verri nelle sue Meditazioni sulla felicità, è racchiuso lo spirito di un secolo, l’età dei Lumi. L’anno seguente vide la luce la più importante rivista dell’Illuminismo italiano: il Caffè, un foglio periodico i cui autori più noti - i fratelli Verri e Cesare Beccaria - avrebbero lasciato il segno dentro e fuori i confini d’Italia: non-nazione ancora priva del tricolore ma già europea.
In una Milano governata dal "dispotismo illuminato" di Maria Teresa d’Austria (1740-1780), una piccola società di giovani intellettuali, già da alcuni anni conosciuta col nome di Accademia dei Pugni, decise di realizzare una rivista innovativa per la varietà enciclopedica degli argomenti trattati e, soprattutto, per l’approccio linguistico, teso a "cercare di piacere e di variare in tal guisa i soggetti e gli stili che potessero esser letti e dal grave magistrato e dalla vivace donzella, e dagl’intelletti incalliti e prevenuti e dalle menti tenere e nuove".


Pietro Verri – “Il Tu, Voi e Lei”

Gli antichi Italiani, ne’ tempi ne’ quali da Roma si spedivano i decreti all’Inghilterra ed alla Siria, parlandosi l’un l’altro usavano la seconda persona singolare, e così scrivendo Orazio ad Augusto diceva:
Godi piuttosto un nobile trionfo,
Ed udirti acclamar Principe e Padre:
Né inulto cavalcar veggesi il Parto,
Te Duce Augusto.

Né altro modo di conversare era in que’ tempi conosciuto in Italia. Credevasi allora che i precetti dell’urbanità non fossero giammai violati dalla natura delle cose, e perciò per disegnar la persona sola alla quale si parlava dicevasi Tu. Noi, che grazie al Cielo abbiamo degli oggetti che ci occupano assai più vasti di quelli che non avevano gli antichi Italiani, noi, che per conseguenza siamo uomini d’una importanza altrettanto maggiore, non soffriamo che ci venga dato del Tu; e la ragione si è perché ciascuno di noi vale almeno per due, onde in tutta confidenza ci vien dato del Voi, anzi, malcontenti di valer per un paio, esigiamo con ogni ragione che nessuno ardisca d’indirizzare il discorso né supponendoci uno né supponendoci più d’uno, ma bensì che si parli alla nostra Signoria. Noi propriamente siamo tanti sultani, e chi ci parla non deve osar di parlare a noi, ma deve esporre i suoi pensieri alla nostra inseparabile Signoria, che fa l’ufficio di gran visir. I Tedeschi sono andati ancora più oltre di noi, poiché, sembrando troppo modesta la creazione d’un solo gran visir, hanno creati molti gran visir per un sultano solo, e così parlano sempre a Loro, terza persona del numero plurale. Da queste vaghe invenzioni de’ nostri antenati ce n’è venuto il vantaggio di trovarci in continua dissensione colla grammatica, di dover rendere le idee nostre con infiniti giri di parole, di snervare sensibilmente tutto ciò che vogliam dire e di tassellare il discorso con moltissime riempiture che non contengono veruna idea. Nello scrivere poi con tante raffinatissime invenzioni è cosa da rovinar un galantuomo, perché bisogna supplicare divotamente la Sua Signoria a concederci l’onore de’ riveriti suoi comandamenti e la gloria di protestarci divotissimi ed obbligatissimi servitori, cose tanto gentili e belle che, se le trovassimo scolpite sulle piramidi d’Egitto da que’ scultori medesimi che adoravano le cipolle, i coccodrilli e i buoi, ancora dovrebbero parere strane alla ragione. Se a Tullio allorché faceva la soprascritta delle sue lettere in questi termini, A Cesare Imperatore, avesse taluno detto: Sappi, Tullio, che da qui a diciotto secoli, in questo luogo stesso ove tu scrivi, si dovrà al più meschino avvocatello scrivere così: All’Illustrissimo Signore Signore Padrone Colendissimo il Signor Avvocato Tale, che avrebbe mai pensato il consolare Tullio in que’ tempi? I Francesi e gl’Inglesi si sono dipartiti dalla ragione meno di noi; ma i Francesi camminano già alla terza persona di gran galoppo; e i più naturali e costanti nel bene su questo articolo fralle nazioni a noi vicine sono i Napoletani.
Se io scrivendo a un gentiluomo dicessi per esempio così: Sappi ch’io stimo la tua virtù, bramo la tua amicizia, desidero di provartelo, addio, qual inurbanità o licenza potrebbe mai rimproverarsi al mio stile? Eppure son costretto a esprimere presso a poco questi miei pensieri con questa faraggine di palloni da vento: Prego V. S. Illustrissima ad essere persuasa che è profondissima in me la stima delle nobili sue virtù, che sarei felice se potessi ottenere l’onore della sua grazia e che qualunque volta la medesima si degnerà concedermi le occasioni per contestarle la verità di questo mio riverente desiderio Ella accrescerà que’ titoli in me pe’ quali ho la gloria di dirmi divotissimo obbligatissimo servitore. La metà per lo meno di queste parole sono vuote di senso e la terza parte sono bugie; il gentiluomo che riceve la mia lettera la considera come un foglio di carta sporcato d’inchiostro secondo si usa, me ne spedisce un altro sullo stesso conio e con questa mutua maniera di scrivere si rimane sempre sul liminare della corrispondenza senza entrarvi mai.
Dico di più che lo stile diventa talmente languido che non è possibile l’esprimere bene e nobilmente con esso verun pensiero un po’ superiore alle volgari officiosità. Questa verità la sentono a prova tutti gl’Italiani che vogliono nella lor lingua scrivere conservando un carattere elevato. I tragici singolarmente sono nella necessità di ricorrere alla semplicità antica per sostenere con dignità il dialogo:
Signor, che pensi? In quel silenzio appena
Riconosco Caton. Dov’è lo sdegno etc.

Così si parla a Catone. Se invece l’autore avesse detto: Che pensate, o Signor?, ognuno sente quanto sia meno augusta questa seconda maniera di parlare. Se poi invece dicesse: Che pensa Vostra Eccellenza, Signor Don Catone?, la tragedia farebbe ridere assai. Questa prova facciasi su mille altri esempi, e troverassi che, sostituendo il nostro Voi o Lei al Tu che ci detta la natura, ogni più bel discorso deve necessariamente snervarsi.
I Quaker, fralle molte stravaganze che hanno voluto immaginare, hanno però questo di buono, ch’essi non parlano altrimenti a veruno, né a veruno scrivono, che in seconda persona singolare. Scriveranno essi al re in questi termini:
Sire.
Ci rallegriamo del tuo avvenimento al trono, sappiamo che tu sei giusto, che sei illuminato, che sei clemente, onde renderai cospicuo il tuo regno e memorabile presso i posteri per la felicità pubblica. Possa tu godere per molti anni delle benedizioni nostre e della gloria di aver beneficata l’umanità. Il nostro amore e la fedeltà nostra per la tua Real Persona sono eguali alle luminose tue virtù. Tai sono i veri sentimenti de’ fedeli tuoi sudditi. Così si scriveva a Cesare, ad Augusto ed agli altri imperatori mentre l’Impero romano comprendeva buona parte d’Europa e s’estendeva sull’Asia e sull’Africa. Pare che col tempo a misura che son venute meno le cose sieno diventate più ampollose le parole, e che gli uomini abbiano cercato di farsi una illusione con ciò e nascondersi il proprio decadimento. Le formalità in ogni genere sono sempre tanto più care e imprescindibili quanto è minore la vera forza fisica.
Un certo signor Agapito Stivale, discendente da quattro o cinque oziosi che avevano consumato il grano di alcune pertiche di terra vivendo oscuramente in un villaggio e che perciò si credeva nobile, ricevette una lettera curiosa, e nella soprascritta vi stava così: Al conosciutissimo che comanda, che ha diritto di comandare, da coltivarsi moltissimo, che comanda, Agapito Stivale. Il signor Agapito fu meravigliatissimo per tutto questo caos di roba, e ciascuno de’ miei lettori lo sarà al pari del signor Agapito sin tanto che non faccia la seguente riflessione: che conosciutissimo rassomiglia molto a Illustrissimo, che Signore è quello che comanda, che Padrone è quello che ha diritto di comandare e finalmente che Colendissimo è la stessa cosa che il dire da coltivarsi moltissimo; e la stessa impressione che fanno i titoli dati al signor Agapito a tutti noi, la devono fare presso i forestieri i titoli ordinari delle nostre lettere, e probabilmente la faranno anche presso gl’Italiani che verranno dopo di noi. Io vado sperando che torneranno gli uomini ad essere una unità ed a non vergognarsi d’esser uomini; più la coltura dell’ingegno s’avvanza e più ci accostiamo a quella vera e dolce urbanità che consiste semplicemente nel non cagionare dispiacere o disagio ad alcuno, conformando liberamente i modi nostri alla natura delle cose e non contorcendo né la persona, né la lingua, né i pensieri su i modelli ereditati. Allora si scriverà e si parlerà come esige la ragione. Frattanto conviene avere la santa flemma e presentare le nostre imbarazzatissime circonlocuzioni alle Signorie acciocché le passino agli uomini possessori di quelle Signorie, e lasciar che la grammatica si lagni se scriviamo in femminino anche agli uomini: Ella sa, Ella ben conosce, ec. E indirizzare le nostre lettere agli Illustrissimi Signori, Signori Padroni Colendissimi, poiché tali mutazioni sono l’opera del tempo, non mai della ragione.