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Commissione parlamentare d’inchiesta sull’armadio della vergogna


lunedì 06 febbraio 2006 leggono Walter Vitali e Giorgio Tonelli
Nel 1994 venne scoperto il famoso “armadio della vergogna”. Per decenni, presso la Procura generale militare di Roma, rimasero nascosti 2.274 procedimenti giudiziari bloccati, relativi a crimini compiuti dai nazi-fascisti alla fine della Guerra. Gran parte delle stragi dell’epoca (si tratta di 20 mila vittime!) trovano ora l’indicazione esatta dei responsabili, dei reparti, delle circostanze (in oltre 900 casi con ogni precisione).
Decenni di oblio. A chi sono serviti? Perché? I motivi per nascondere si sono accavallati, negli anni, hanno protetto interessi di diverso genere, anch’essi documentati, e agli atti.
L’effetto generale è stato non solo quello di aver salvato centinaia di “criminali di guerra” (nessuna Norimberga in Italia), ma anche di averli lasciati al servizio delle successive fasi politiche, in funzione anti-democratica. L’Italia è stata come una nave costretta a portare nella stiva questo carico non legato, a rischio sempre di sfondarne lo scafo – come in effetti è spesso successo, fino almeno a tutti gli anni ‘70.
La Commissione ha esaminato 80 mila documenti – un lavoro enorme, che in questi giorni arriva alla sua conclusione. Eppure la cosiddetta “relazione di maggioranza” (on. Raisi, AN), che appare dover uscire “vincitrice”, in questi giorni, nega che ci sia stato occultamento e nega responsabilità politiche.
In attesa del voto in Commissione parlamentare, previsto due giorni dopo questo nostro appuntamento, il sen. Vitali (membro della Commissione, DS), affiancato dal giornalista Giorgio Tonelli, leggerà e commenterà le conclusioni “di minoranza”.
A corredo, verrà proiettato anche un documentario realizzato da Roberto Scardova per la trasmissione “Chi l’ha visto?”, di RAI3.


Commissione congiunta (Camera e Senato) d’inchiesta sulle cause dell’occultamento
di fascicoli relativi a crimini nazifascisti


Relazione di centro-sinistra


§ 33. Conclusioni; la responsabilità dei politici; la responsabilità degli apparati militari; il contesto internazionale; il diritto internazionale; eventuali altri fattori storici e sociali che hanno influito nella vicenda.

Dopo avere ripercorso nella presente relazione, in maniera compiuta ed analitica, l’attività istruttoria compiuta dalla Commissione e protrattasi per oltre due anni, appare opportuno tracciare un quadro d’insieme delle responsabilità, che a diversi livelli istituzionali, si sono potute dedurre con ragionevole certezza, così come le stesse sono venute enucleandosi nel corso della trattazione che precede.
Ciò in ossequio al disposto della legge istitutiva (legge 15 maggio 2003, n. 107), che demandava appunto alla Commissione il compito di indagare e verificare le cause che portarono all’occultamento di 695 fascicoli, riguardanti gravissimi fatti criminosi commessi dai nazifascisti. Le risultanze del ponderoso lavoro svolto permettono di evidenziare come l’obiettivo assegnato dal Legislatore a questo organismo parlamentare sia stato puntualmente perseguito, con esiti peraltro proficui che, se da un lato si innestano su una linea di continuità rispetto alle inchieste precedentemente svoltesi sulla vicenda, dall’altro evidenziano significativi elementi di novità, in relazione ad aspetti di notevole rilievo, sia sul piano storico che politico.
Ci si riferisce in particolare all’indagine condotta dal Consiglio della Magistratura Militare e conclusasi con delibera del 23 marzo 1999, nonché all’indagine conoscitiva della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati a conclusione della XIII legislatura, il cui documento finale fu votato all’unanimità in data 6 marzo 2001.
Innanzitutto, in linea generale, appare opportuno sottolineare come si sia cercato –con esiti, almeno in parte positivi- di dare senso compiuto e storicamente fondato a termini del tutto generici, quali “guerra fredda”, “ragion di stato”, “situazione internazionale”. In tale contesto è emersa una problematica di non secondario rilievo, finora mai affrontata in questa sede, ovvero l’ambiguità del diritto internazionale in merito alla punizione dei crimini di guerra e la contiguità fra la magistratura militare, che quei crimini doveva giudicare, ed i militari che li avevano commessi. Detta contiguità -che peraltro è stata puntualmente evidenziata nella trattazione relativa alla normativa che disciplinava all’epoca l’ordinamento giudiziario militare (cfr. infra § 4)- si esplicava nella vicinanza delle strutture mentali e culturali, fortemente condizionate dal tabù dell’obbedienza agli ordini, che troppo spesso traspare dalle sentenze, anche solo attraverso la concessione di attenuanti, che contribuivano ad addivenire alla prescrizione del reato. Si tratta, in sostanza, di una serie di cause per cui possiamo dire che hanno portato la magistratura militare italiana a rispondere con grande e convinta “volontarietà” agli impulsi politici, poiché questi andavano nella direzione dei suoi più radicati convincimenti.
Venendo ora più specificamente alla vicenda di che trattasi, va detto che le valutazioni fatte dalle prime indagini del Consiglio della Magistratura Militare e della Camera dei Deputati individuano genericamente nella “ragione di Stato”, ovvero nella necessità di evitare problemi alla Germania, che in quel periodo stava ricostituendo il proprio esercito e si sarebbe dovuta inserire in maniera forte nella Alleanza Atlantica, le cause che portarono all’occultamento dei fascicoli.
Il lavoro della Commissione d’inchiesta ha evidenziato contestualmente anche altre fondate motivazioni, sia sul piano interno, che internazionale. Innanzitutto vi era la problematica afferente al rifiuto del governo italiano di dare corso alla richiesta di estradizione da parte di altri Paesi (ad esempio Jugoslavia e Grecia, ma non solo) di militari italiani, quali presunti criminali di guerra, per celebrare i processi a carico di costoro (cfr. infra § 8). In tal senso, è particolarmente significativo il carteggio rinvenuto nell’archivio delle Nazioni Unite a New York (cfr. infra § 6). Ed infatti il governo italiano si trovava nell’imbarazzante situazione, da un lato di negare l’estradizione di presunti criminali italiani, richiesta da altri Paesi, e dall’altro di procedere alla richiesta, proveniente dalla magistratura militare italiana, per l’estradizione di militari e criminali di guerra tedeschi.
In tale ambito si inserisce anche la discussione a livello internazionale, afferente alla ricerca di uno strumento di tutela giuridica rispetto al problema della prescrizione dei reati, con riferimento a quei paesi che prevedevano tale causa di estinzione, anche in relazione a tali gravissimi delitti. E’ del tutto evidente come si tratti di aspetto che non può non avere influito sulla decisione di occultare le carte; significativa a tal proposito è la coincidenza temporale tra l’insorgere della problematica e la fase conclusiva di utilizzazione delle carte dell’archivio (cfr. infra § 23).
Altro aspetto da tenere in considerazione riguarda il dato, oggettivamente emerso, relativo al fatto che alcuni personaggi di punta, appartenenti alle amministrazioni maggiormente coinvolte nella gestione dell’archivio - Magistrati e Zoppi, per quanto riguarda il MAE (cfr. infra § 17, nota 402); Mirabella (cfr. infra § 20, nota 470) e Santacroce (cfr. infra § 19) per quanto riguarda la Procura Generale Militare - abbiano ricoperto incarichi di rilievo nel corso del ventennio fascista. Ed infatti, Magistrati era a capo della Direzione Affari Politici, all’epoca dell’ormai noto carteggio Martino-Taviani, mentre di Zoppi è il promemoria, chiosato da Giulio Andreotti per conto del presidente De Gasperi, riguardante la strategia politica per affrontare il tema dei criminali di guerra italiani (cfr. infra § 8).
Riprendendo, invece, il riferimento all’Alleanza Atlantica, non si può non ripercorrere il progressivo accentuarsi della Guerra Fredda e la creazione, quindi, di due blocchi di influenza contrapposti, occidentale e sovietico, che in Europa particolarmente si fronteggiavano. In tale contesto non era ben vista la celebrazione dei processi a carico di militari tedeschi, ma anche di cittadini e militari italiani macchiatisi di gravi reati. In alcuni casi i servizi segreti statunitensi e italiani intervennero a favore di questi criminali, garantendo l’impunità, per poterli reclutare (cfr. infra § 16).
Non vi è dubbio, inoltre, che i governi italiani dell’immediato dopoguerra erano fortemente impegnati nella ricostruzione del Paese devastato dal conflitto e quindi, legittimamente e comprensibilmente, protesi alla ricerca di sostegni economici, in particolare dagli Stati Uniti, e di commesse militari all’industria italiana da parte della nuova Germania dell’Ovest (cfr. infra § 15).
In merito agli elementi da cui si può dedurre il coinvolgimento e la specifica responsabilità politica sulla vicenda, oltre alle già citate missive tra Taviani e Martino del 1956 (cfr. infra § 17), vi è un ulteriore e corposo carteggio, tra cui si può annoverare la corrispondenza di Andreotti, degli anni 1962-1963, relativa alla vicenda Liebbrand (cfr. § 24) e quella del 1965 con Santacroce, relativa ai casi di crimini rimasti impuniti (cfr. infra § 22).
Va inoltre rilevato un dato di non secondario rilievo, ovvero il fatto che più governi, di diversa composizione, hanno affrontato, almeno fino alla metà degli ’60, in maniera assolutamente conforme la questione, mentre successivamente fino al 22 gennaio 1971, data dell’ultima comunicazione agli atti della Commissione di inchiesta, tutte le compagini governative susseguitesi si sono scrupolosamente attenute alla consegna del silenzio, nonostante la conoscenza delle carte (cfr. infra § 24).
Del resto è evidente, così come è stato dichiarato da autorevoli esponenti politici dell’epoca, nonché da alcuni magistrati militari, nel corso delle audizioni, che non è verosimile attribuire la mancata celebrazione dei processi alla esclusiva responsabilità dei magistrati militari, tanto più in considerazione del fatto che, prima della riforma dell’ordinamento giudiziario militare del 1981, la Giustizia Militare non godeva della stessa indipendenza di quella ordinaria, priva come era anche, sino al 1988, di un organo di autogoverno e di controllo quale in seguito il C.M.M., la cui mancanza era stata fortemente stigmatizzata dalla Corte Costituzionale.
Si è peraltro già detto supra di questa sorta di contiguità tra il mondo politico e la giurisdizione militare, che appare ancor più netta sulla scorta di alcuni documenti particolarmente significativi, quali la lettera del Procuratore Mirabella, con la quale egli, già aderente alla repubblica di Salò, esterna in maniera del tutto inopportuna il suo plauso alla decisione di Taviani-Martino di non dare corso ad una richiesta del proprio ufficio; o ancora il documento, emblematico della posizione di Santacroce, nel quale egli dà conto del fatto di conoscere la giurisprudenza che escludeva dal novero dei reati politici, quelli contro gli usi di guerra (cfr. infra § 13, note 322-323); o infine l'ordine di servizio e l'attività successiva, riguardanti le cosiddette “archiviazioni in blocco” dei procedimenti nei confronti di ignoti, negli anni 1965-1968, dal quale si evince in maniera netta la subalternità dei sostituti e la determinazione del procuratore generale (cfr. infra § 20).
Per quanto riguarda il periodo successivo alla riforma dell’ordinamento giudiziario militare, è evidente che, se da un lato non può ritenersi che la Magistratura Militare possa andare esente da attribuzione di responsabilità per aver mantenuto occultati i fascicoli e non avere proceduto alla celebrazione dei processi, dall’altro detto atteggiamento di chiusura ed autoreferenzialità, va ricondotto ad una sorta di autotutela contro le conseguenze negative che, su vari piani, la riesumazione dei fascicoli dopo tanto tempo avrebbero certamente provocato (cfr. infra §§ 27-28).
Per quanto riguarda la vicenda relativamente al periodo successivo al rinvenimento dei fascicoli nel 1994, è emerso indubitabilmente che nella gestione di detta attività, compiuta in assenza della necessaria attenzione e trasparenza, vi è stata una sottovalutazione burocratica, sia con riferimento alla mancata redazione di verbali di ricognizione dei luoghi e di rinvenimento del materiale, nonché alla mancata catalogazione, non solo dei fascicoli, ma anche del carteggio sparso, che la delicatezza del caso avrebbe imposto; sia per non aver avvertito la necessità di informare tempestivamente del ritrovamento il C.M.M., il Ministero della Difesa e le Camere; sia ancora per non essersi posti il problema della ricerca delle responsabilità dell’omesso invio dei fascicoli alle competenti Autorità giudiziarie (cfr. infra §§ 30; 32).
Inoltre non può essere sottaciuto che nella stessa attività di disamina dei fascicoli si registrano ritardi e lentezze non facilmente giustificabili. Ed infatti non vi è dubbio che essa avrebbe richiesto la massima tempestività per evitare che altro tempo venisse perduto: basti pensare che alcuni fascicoli, ritrovati nel giugno 1994, sono pervenuti alle competenti Procure Territoriali anche dopo un anno e mezzo, senza che la Procura Generale e la Procura presso la Corte d’Appello, informassero tali Uffici di sicura destinazione dei procedimenti, dell’emergenza cui potevano andare incontro e organizzassero incontri e riunioni tra i Capi degli Uffici, finalizzate anche a predisporre una adeguata richiesta al Ministero di mezzi e uomini (quali ufficiali di p.g. ed interpreti), che avrebbe consentito di affrontare l’imprevisto afflusso dei fascicoli ed evitare ulteriori ritardi nella trattazione. Emblematico sul punto è quanto riferito dal Primo Presidente della Corte di Cassazione e Presidente del Consiglio della Magistratura Militare, Nicola Marvulli (cfr. infra § 31).
In ultima analisi si può concludere affermando che al lavoro della Commissione ed ai risultati conseguiti è possibile e doveroso attribuire non solo una valenza ricostruttiva –che ha consentito di fare piena luce su una vicenda tanto complessa e dolorosa- ma anche un più profondo significato di monito, finalizzato all’instancabile perseguimento nella ricerca della giustizia e della verità.
La democrazia, infatti si nutre, e si rafforza attraverso la capacità di dare risposte alle legittime richieste civili ed istituzionali di verità e di giustizia, al fine di scongiurare che fatti di questo tipo abbiano a ripetersi.